Rolling Stone Italia

Tutto Tony Levin

Intervista extralarge al bassista, dalle collaborazioni con Peter Gabriel e Robert Fripp, «senza aver mai sentito i Genesis o i King Crimson», alle session con John Lennon, «che non sapeva chi fossi neanche dopo averci suonato assieme», fino al tour mancato coi Pink Floyd

Foto: Francesco Prandoni/Getty Images

Intervistare Tony Levin non è facile: ti ritrovi a parlare con un monumento vivente del basso elettrico, uno dei session man più gettonati della storia, l’eroe che ha sdoganato il Chapman Stick nella musica pop e che ha segnato il ritorno sulle scene dei King Crimson anni ’80 e del Peter Gabriel post Genesis. Solo ad elencare le cose che ha fatto ci metti una settimana. Ma nonostante questo, come leggerete, Levin sente di avere ancora tantissime cose da imparare, e il suo messaggio è semplice: la musica viene prima di tutto. Ecco la nostra chiacchierata, in occasione del concerto del 16 novembre, all’Auditorium Parco della Musica per Roma Jazz Festival.

Sei in tour in Italia con gli Stick Men, un singolare trio composto da due stick e una batteria.
Non è un segreto che l’Italia sia il mio posto preferito per fare concerti. Sono stato qui per un breve periodo la scorsa primavera a suonare con Peter Gabriel, ma solo a Verona e a Milano. Sono stati spettacoli speciali, in particolare all’Arena di Verona: non esiste luogo più speciale al mondo di quello.

In Italia sei considerato una vera e propria star. Hai suonato con tantissimi artisti italiani, penso ad Alice, Fossati, Ramazzotti, Bonocore, Vasco Rossi… In particolare hai fatto un gran lavoro con Claudio Baglioni, sei una delle persone che lo ha ispirato ad entrare nel discorso Real World e a operare un grandissimo cambiamento nella sua visione della musica. Com’è andata umanamente con lui?
Ero abituato a registrare ai Real World Studios con Peter Gabriel. È stato speciale ascoltare un altro tipo di musica da quella che avevo sempre suonato e proveniente da una specifica tradizione, quella del canto popolare italiano. La conoscevo, ma non c’ero entrato mai in modo così partecipato. E così mi sono divertito e sono stato particolarmente gratificato quando Claudio mi ha chiesto di andare in tour con lui dopo l’album. Mi piace fare dischi, ma la vera gioia della musica sta nel condividerla col pubblico. Credo che l’album si chiamasse Oltre.

Sì esatto, Oltre.
È stato il periodo più lungo che ho passato Italia, mi è piaciuto moltissimo, ho pensato di trasferirmi qui da New York (ride). E c’è un’altra cosa che volevo dire su Claudio, a proposito della sua voce. Sono fan dell’opera italiana, vado ancora a vederla quando ho tempo. E in qualche modo, il suo canto mi ha ricordato quella tradizione e l’eccezionale qualità, davvero unica, del canto in Italia. È una tradizione che tutti voi conoscete, ma per me rappresenta una profonda nuotata in una piscina in cui prima avevo messo solo i piedi. Quindi, sì, ascoltandola sera dopo sera quella di Claudio è una voce meravigliosa che ti tocca. Anche noi musicisti cerchiamo di farlo, ma la voce umana è meglio di qualsiasi strumento.

Tu sei di Boston e quando ti sei trasferito a New York la tua vita e la tua musica è cambiata parecchio. La tua prima diciamo epifania è stata gli Aha! con Don Preston dei Mothers of Invention, un personaggio davvero strano…

Wow, davvero conosci gli Aha?! Hai fatto i compiti (ride). È ancora musicista speciale, pensa che è in circolazione persino da più tempo di me. Prima di tutto, il modo in cui sono andato a New York è stato strano. Sono andato a studiare musica a Rochester, una città più piccola di New York City, da cui sono andato via solo per una coincidenza. Ho lasciato Rochester per un tour che poi è stato cancellato. Non avevo un posto dove vivere, quindi ho pensato: ok, andrò a New York a suonare con i grandi e alla fine è andata bene. E poi, quando ero a New York, lottando per trovare lavoro e persone con cui suonare, mi è capitato di trovarmi in questa band con Don Preston e altri due musicisti provenienti dai Mothers of Invention. Ray Collins era il cantante. La band non ha avuto alcun successo. Forse abbiamo fatto uno o due spettacoli in un anno, ma la musica era speciale. Don aveva una primissima versione di quello che oggi chiamiamo sintetizzatore, ma in quel periodo storico era davvero insolito, con cavi, senza preset,  al di fuori della musica che avevo suonato prima. Mi ha ispirato a cercare di aprire gli orizzonti del modo in cui posso suonare il basso e non fare quello che facevo prima, perché ero principalmente un jazzista. Sì, suonavo anche un po’ di rock, ma ora mi trovavo improvvisamente con Don Preston che suonava cose molto lontane da me e mi divertivo parecchio.

È vero che John McLaughlin ti ha chiesto di diventare membro ufficiale della Mahavishnu Orchestra?
Sì. Guarda, quella del musicista freelance è una carriera strana. È meraviglioso e, come tutti quelli che lo fanno, ho avuto dei momenti belli e brutti, in cui sono stato chiamato e senza un motivo in particolare ho detto no. Mi è stato chiesto di entrare nella Mahavishnu perché avevo lavorato una vita con Jan Hammer, ma quando mi hanno chiamato ero impegnato con un’altra di quelle band che non hanno mai funzionato. Quando sei un freelance, in qualunque campo tu agisca, devi prendere decisioni. Tutto il tempo. A volte funzionano, a volte no.

Ma sei uno dei pochi musicisti che tutti vogliono nella loro band…
Sei molto gentile, ma a volte semplicemente capita. Mi trovo spesso in registrazioni in cui forse non ero nemmeno la prima scelta, sai? Ho suonato con John Lennon in un paio di album ed è stato fantastico, ma più tardi ho sentito una sua intervista, gli chiedevano perché mi avesse chiamato, non sapeva nemmeno chi fossi. Voleva qualcun altro che in quel momento non era disponibile, forse Willie Weeks. E quindi Willie si è comportato con Lennon come me con la Mahavishnu Orchestra: non ha suonato con lui e questo ha avuto una grande influenza sulla mia carriera di bassista in studio.

C’è stato un periodo in cui hai suonato col progetto White Elephant. Penso sia stata una delle prime cose fuori dalla tua comfort zone, molto free jazz…
In quei giorni c’era una specie di gruppo a New York chiamato Rehearsal Band. I musicisti impegnati in studio durante il giorno formano band per suonare quel che gli va. Così ogni sera, finite le session regolari in studio, arriva l’Elefante Bianco, così lo chiamavamo. Suoni fino alle 6 del mattino, magari dormi per un paio d’ore durante le quali qualcun altro suona il basso al posto tuo. Con quel tipo di band con i migliori musicisti, grandi musicisti, parliamo di dieci, quindici persone, dopo qualche anno abbiamo fatto un album. Abbiamo provato a fare qualche concerto, ma tutti erano impegnati con altre cose. Alcuni erano inaffidabili e non si presentavano ai concerti. C’era anche molta droga nella band (ride). Avremmo potuto fare di più, ma è stato gratificante e istruttivo.

I White Elephant sono stati per te una svolta verso il rock, poi ha fatto due album con Alice Cooper e soprattutto Berlin con Lou Reed. E il produttore di entrambi era Bob Ezrin, che ti ha svoltato la vita facendoti conoscere Peter Gabriel.
Sono stato molto fortunato. A Ezrin, uno dei tanti produttori con cui ho lavorato, è piaciuto molto il mio modo di suonare rock in studio, così mi ha fatto suonare con Lou Reed e con Alice Cooper. Poi quando questo ragazzo che non conoscevo ha lasciato i Genesis, Bob che lo stava producendo mi ha chiamato. Nello stesso giorno del luglio 1976 sono andato Toronto e ho incontrato sia Peter Gabriel, sia Robert Fripp e mi trovo ancora tanti anni dopo a fare musica con entrambi.

La tua prima volta con Fripp è stato nel suo disco solista Exposure?
In realtà già da prima, perché Fripp suonava la chitarra nel primo album di Peter. È stato in quella occasione che ho incontrati entrambi. Tra l’altro, non avevo mai sentito i King Crimson e non avevo mai sentito i Genesis.

Davvero?
Sì! Andare in tour con Peter alla fine degli anni ’70 è stata una decisione importante. A quei tempi, se eri un musicista in studio a New York, avevi una carriera e non ti azzardavi a lasciare la città con la certezza di perdere del ​​lavoro. È stata una decisione importante, ma facile: suonare con quei ragazzi, Peter Gabriel sul palco e Robert Fripp alla chitarra, era meglio di qualunque session in studio. Quindi, da quell’anno, il 1977, sono diventato meno musicista in studio e molto più un musicista dal vivo.

Tu e Peter Gabriel avete sviluppato un sacco di tecniche nuove, ad esempio le funk fingers. Eravate molto sperimentali e per quanto riguarda il basso credo che abbiate scatenato una rivoluzione.
Ti ringrazio. Per qualsiasi ragazzo al mondo, per qualsiasi bassista, suonare con entrambi – dopo il 1981 ero nei King Crimson e con Peter Gabriel – ti avrebbe aperto la mente non solo per la musica che fanno. Peter è sempre stato molto aperto a nuove idee. Molto fermo sulle sue, ovviamente, ma molto aperto ai suggerimenti. Quindi ho potuto provare qualche tecnica diversa e/o uno strumento diverso, il Chapman Stick che ho proposto a Peter e lui l’ha adorato, quando ad altre persone non piaceva all’epoca. I King Crimson mi hanno concesso il tempo per lavorare su altre tecniche, su altri strumenti, su altri modi di suonare. Mi è stato chiesto di non suonare nel modo in cui suonavo prima e con Discipline – il primo album della nuova formazione dei King Crimson – abbiamo fatto un tipo di rock molto diverso, ma poi, dal secondo album, forse non si capisce ascoltandolo, cercavamo di non fare nemmeno quello che facevamo in Discipline, ma tentavamo di continuare a progredire o continuare a cambiare.

Per me Beat è un grande album, uno dei migliori, perché lo trovo molto tecnologico, futuristico. E non credo che molti, al momento, abbiano capito la sua grandezza. Tu che ne pensi, col senno di poi?
La mia memoria fa cilecca, non ho studiato queste cose bene quanto te (ride), ma ripensandoci, quella era la versione anni ’80 dei King Crimson. Il primo album, in un certo senso, è facile. Hai nuovi compagni, vivi insieme, c’è l’eccitazione della novità, hai molto materiale. Il secondo album è problematico: in un modo o nell’altro è sempre più difficile. E nel caso dei King Crimson, non volevamo fare quello che avevamo fatto nel primo episodio. Ma lo stile di Discipline era veramente ottimo, quindi eravamo un po’ in conflitto sul da farsi. Ma come sa chiunque conosca i King Crimson, la band era spesso conflittuale, quindi abbiamo tirato fuori buona musica da quei conflitti e provato a portare avanti ciò che stavamo facendo e superare alcuni ostacoli. Non ci siamo riusciti quanto avremmo voluto, ma in qualche modo ci siamo riusciti. E comunque, a volte lo sforzo di provare a superare certe barriere è più importante del fatto che tu ci riesca.

Anche perché ho sempre pensato che tu ed Adrian Belew siete due facce di una stessa medaglia. Lui suona come un alieno, tira fuori dei suoni assurdi e la stessa cosa tu con lo Stick. Non si capisce se suona una chitarra, se ne suonano quattro… insomma alla fine dici: cazzo, ma che succede?
Si, è anche molto importante dire che era l’81 quando sono entrato nella band, all’inizio non ci chiamavamo King Crimson, ci chiamavamo Discipline, e se consideri la tecnica chitarristica di Adrian Belew che, come hai detto tu, è come un alieno proveniente da un altro pianeta, e poi ascolti Robert Fripp che prende la chitarra, ottieni un suono assolutamente unico che sembra diverso da qualsiasi altro. E poi Bill Bruford, nessuno suona la batteria come lui. Suonavo il basso in uno stile specifico, ma fin dal primo giorno ho capito che non era appropriato per la band. Avevo bisogno di tirare fuori l’altro strumento, il Chapman Stick, che nessun altro voleva che usassi. Ho bisogno di sfide anch’io. Questa è la parte fondamentale della definizione di King Crimson che darei: è una band che sfida se stessa, che fa le cose in modo diverso rispetto al passato, in cui ognuno sfida se stesso come musicista per suonare in modo differente. È la sfida musicale più grande della mia carriera, ed è grandiosa e gratificante. È stato divertente farne parte perché non era troppo stressante per me, amando le sfide. Sai, c’è il documentario dei King Crimson in giro. Quando l’ho visto ho capito quanto stressante è stata la band nel corso degli anni per molti musicisti prima ancora che io ci finissi dentro, e ho pensato: va bene, è bello saperlo, ma in realtà non è stato così per me (ride).

A proposito di sfide, tutti ti pensano come un pioniere dello Stick, ma tu sei anche un pioniere del contrabbasso elettrico. Sei stato uno dei primi ad usarlo.
Non lo sapevo nemmeno. Quando facevo jazz negli anni ’60 a Rochester, sono stato molto fortunato ad essere a scuola con Steve Gadd, un grande batterista, e suonavo una basso acustico jazz, e non riuscivo a sentirmi (ride). La batteria suonava molto forte, le band erano molto rumorose, non ci potevi fare niente. E così quando sentii parlare di un contrabbasso elettrico dell’epoca, che si chiamava Ampeg Baby Bass, sono stato il primo a usare un amplificatore e finalmente ho potuto sentirmi. Quel basso non suonava bene per il jazz, l’ho messo da parte per molto tempo quando sono andato a New York. Non suonava abbastanza bene per le registrazioni, finché il grande progettista di strumenti Ned Steinberger ha ideato un basso verticale e me l’ha portato prima ancora di renderlo pubblico. E in effetti mi piace quel suono. È diventato parte di Thrak dei King Crimson. È mixato molto forte. Ogni volta che ascolto quel disco penso: oh mio Dio (ride)! Comunque, da allora ho suonato quel verticale elettrico NS, l’ho suonato molto, anche con Peter Gabriel e in molti altri dischi.

E ora parliamo di due grandi band degli anni ’70 che negli anni ’80 hanno drasticamente cambiato rotta, i Pink Floyd e gli Yes. Tu hai suonato per entrambe. Partiamo da Floyd: come ti sei sentito a sostituire Roger Waters?
Sono stato chiamato per registrare A Momentary Lapse of Reason. Non pensavo davvero che fosse un’opportunità, mi ci sono dedicato solo per la musica. È stata una gioia lavorare con David Gilmour, e ancora una volta c’era Bob Ezrin, produttore meraviglioso. Mi è piaciuto molto suonare le parti musicali pianificate, l’ho fatto con molta facilità, e ho anche imparato la cura che i Pink Floyd mettono nella registrazione di un album. È qualcosa di differente: è un processo molto meticoloso, attento e meraviglioso, ben pensato. Non è stato un punto di svolta della mia carriera, anche se David mi ha chiesto di fare il tour dopo il disco.

E tu non hai accettato.
No, ma solo perché era in conflitto con il tour di Peter Gabriel, quindi ho dovuto rinunciare. Credo di averci pensato su, perché mi sarebbe davvero piaciuto andare in tour coi Pink Floyd. Ma ero in un tour di Peter Gabriel e avrei dovuto tirarmi indietro nelle ultime settimane. Ci ho pensato, ma non sarebbe stato giusto. Faccio tesoro dell’esperienza coi Pink Floyd, ma sarebbe stata un’altra cosa se avessi avuto modo di suonare quella musica dal vivo.

E con gli Yes?
Anzitutto non si chiamavano Yes, ma Anderson Bruford Wakeman Howe. Non c’era Chirs Squire. Mi hanno chiesto di suonare nell’album e sono andato in tour con loro per un bel po’ ed è stato grandioso soprattutto quando abbiamo preparato il materiale per il tour: cosa avrei dovuto fare con le parti iconiche di Chris Squire? Riprodurle esattamente nel modo in cui funzionano? Oppure reinterpretarle? È stata una sfida interessante e mi ha aiutato anche coi King Crimson, perché nella versione del 2015 abbiamo iniziato a fare molti classici della band, ma io non li avevo mai suonati prima e dovevo affrontare lo stesso problema: che fare con quelle parti? Sono molto belle, ma non sono il musicista giusto per suonare esattamente quello che ha fatto qualcun altro.

Beh chiaro, non saresti il musicista che sei.
Mi piace aggiungerci qualcosa o metterci dentro qualcosa di me stesso. Quindi la sto facendo lunga, ma la mia esperienza con Anderson Bruford Wakeman Howe è stata divertente on the road, e ho anche avuto l’opportunità di provare a interpretare le grandi parti di Chris Squire per renderle mie e rimanere allo stesso tempo fedele a ciò che hanno di speciale.

Però scusa tu suoni anche in Union, e quello è un album degli Yes, no?
Ah sì, ma lì è dove tutto ha iniziato a cadere a pezzi. Quando ci sono entrato, ABWH doveva essere una band a parte e invece si unirono all’altra metà degli Yes per farne una nuova entità. Ovviamente, in questo modo Squire ha iniziato di nuovo a fare tour con gli Yes, cosa doverosa, dato che quella è la vera band.

Tornando invece alle tue sperimentazioni: hai anticipato il crossover e il math rock, Les Claypool dei Primus ti cita come suo maestro, i King Crimson degli anni 2000 sono praticamente orientati verso il noise rock. Ma hai fatto cose molto strane da sempre, penso a Into the Mirrors di Johnny Warman, un grande esperimento hard/synth pop che oggi non molti si ricordano. Che ti è rimasto di quella esperienza?
Non ricordo granché, se non che lui voleva praticamente la band di Gabriel. Sembrava un album hard rock. Voglio dire, non proprio hard rock, ma l’attitudine era quella, quindi abbiamo portato la sensibilità di Peter Gabriel nella sua musica e ci siamo divertiti a farlo. Era un bravo ragazzo con cui lavorare, me lo ricordo, ma francamente adesso tornerò indietro e ne ascolterò un po’ perché non ho più sentito quella musica, di solito non torno ad ascoltare la musica che suono. Mi concentro molto su quello che sto facendo e su cosa farò dopo. Però è stato davvero divertente. Sono artisti diversi, ma una cosa simile è successa con Larry Gowan, che voleva la band di Gabriel e ci ha registrato in Inghilterra. È un cantante canadese, e la volta successiva che mi ha chiamato a suonare, un paio di anni dopo, mi ha sorpreso perché ho scoperto che è diventato molto famoso in Canada. Non lo sapevo: voglio dire, io ero negli Stati Uniti, non lo sapevo, e lui era un po’ imbarazzato a dirmelo.

Hai suonato anche in due dischi di Bowie, uno dei quali, Heathen, per me è uno dei suoi picchi.
Ho fatto una piccolissima parte in quell’album grazie al fatto che David voleva il fretless, ma la sua bassista Gail Ann Dorsey non lo suonava. Registravano vicino a Woodstock, dove vivo. C’era anche Bowie e abbiamo suonato per alcune ore su quelle tracce. È stato significativo per me, ma non un’esperienza musicale profonda, ho semplicemente suonato molto velocemente sovraincidendo. L’avevo già incontrato in tournée, quando lui e Peter Gabriel fecero un tour assieme negli Stati Uniti. Non ricordo bene l’anno, ma abbiamo fatto una serie di spettacoli in cui Peter ha aperto per David, quindi ho avuto, sai, un piccolo legame con lui.

David non ti ha mai detto «vieni con me, suona nella mia band»?
No. Quando ho suonato su Heathen, e più tardi su The Next Day, la sua bassista era Gail Ann Dorsey, non solo una grande bassista, ma anche un’amica. E, una sorprendente coincidenza, vive dall’altra parte della strada rispetto a me. Infatti quando i King Crimson decisero di fare la cover di Bowie…. uhm, non ho bevuto abbastanza caffè questa mattina, qual era?

Heroes?
Sì, l’ho suonata a qualche concerto e poi abbiamo fatto una pausa e sono andato a casa e non ero sicuro dell’approccio da tenere. Quando ho visto Gail l’ho fermata e non le ho neanche detto ciao, solo: «Heroes! Come fa il secondo verso? Lo suoni come il primo?». Quando ho fatto The Next Day, ho suonato per un’altra settimana, molto più di un giorno perché Gail era in tournée con Pink. Ero emozionato perché sapevo che sarebbe stata un’esperienza più completa. Vedere Bowie in studio suonare il piano e dirigere il modo in cui dovrebbe essere una canzone è stato meraviglioso, l’ho apprezzato ancora di più per il fatto che fosse un musicista esperto, oltre che grande autore e grande interprete.

Quindi è stato illuminante per te.
E insolito, perché erano sessioni segrete. Avevo già fatto sessioni segrete, ma non a quel livello. Erano segrete addirittura per le persone che lavoravano allo studio e non erano presenti (ride). Un anno dopo aver fatto il disco, di cui mi ero completamente dimenticato, mi chiama verso mezzanotte Tony Visconti: «Uscirà a mezzanotte, non potevo dirlo a nessuno prima». Ho sentito il primo singolo, era Where Are We Now?, dove c’era il mio basso. Ancora una volta sono stato fortunato, semplicemente fortunato, Gail avrebbe suonato alla grande quelle parti.

Parliamo dei Liquid Tension Experiment. È uno strano crossover metal/jazz che ha un legame con i Dream Theater. Come vi è venuto in mente di fare questa superband?
Come molte band di quel tipo, eravamo solo musicisti messi insieme in studio: «Vediamo cosa possiamo inventare». Non sapevamo cosa potesse uscirne fuori quando ci siamo incontrati per la prima volta. Solo due dei ragazzi erano nei Dream Theater, Mike e John. E quel tipo di, beh, chiamiamolo progetto, quel tipo di progetto di solito è scritto proprio lì in studio, al momento. Quindi è stato interessante e stimolante. È andato avanti poi per anni, e ne sono felice. Una grande sfida, perché gli altri tre musicisti sono dei virtuosi con i loro strumenti. Va bene, io al basso so suonare velocemente, ma non al loro livello. Invece di essere quello che è un po’ più avanti di tutti e può fare tutto, in quel progetto sono stato quello che è in ritardo, quello che dice tipo: «Aspetta un attimo, puoi farlo di nuovo per me?». Ma a loro piaccio e lo tollerano. E a volte devo sovraincidere alcune parti più tardi e finire la mia parte quando loro invece le suonano tutte bene da subito. Abbiamo fatto solo pochi e brevi tour, ma è una band entusiasmante dal vivo.

Sei anche un ottimo compositore per te stesso e sai anche cantare. Come mai ci hai messo tanto a fare un album usando la tua voce? Resonator è del 2006…
Questa è una bella domanda. Non sono sicuro di conoscere la risposta, ma essendo prevalentemente un bassista preferisco suonare con altre persone. Mi tiene super impegnato, forse dieci mesi all’anno. Mi ritengo un artista solista solo in seconda battuta e quindi possono passare dieci anni in cui semplicemente non ho tempo per lavorare ad altro. Tra quasi un anno esatto pubblicherò finalmente un album solista e sarà quasi completamente, strumentale, con un po’ di voce e alcune canzoni o cose che voglio dire. I pezzi li ho scritti qualche anno fa. Sono fortunato a poter lavorare sulle mie cose da solista, non c’è alcuna pressione per vendere molti dischi, non c’è nessuno ad obbligarmi a fare qualcosa. L’altro lato della medaglia è che so che la mia esperienza come bassista è decisamente superiore alla mia esperienza come cantante. E va bene. Quindi, gradualmente, nel corso degli anni, canto di meno, ma faccio questo tipo di… forse potresti chiamarla spoken poetry sulla musica?

Prima mi parlavi di Lennon, ma oltre a lui hai suonato per Yoko Ono, e con lei hai fatto un paio di album molto interessanti.
Il primo effettivo fu Double Fantasy, in cui John e Yoko sono insieme. È stato quando li ho incontrati entrambi. Ci alternavamo, facevamo una canzone di John, e poi una di Yoko ed era interessante perché quando c’era la canzone di Yoko, lei entrava con la band in studio e John se ne stava tranquillo nella sala di controllo a prendersi cura di Sean. Il contrasto era estremo perché Yoko ha idee insolite e canta, ma non suona uno strumento e quindi non può suonarti il pezzo. È più simile a un arrangiatore, mette insieme qualche idea, una vaga idea di come farlo. Poi arrivava John a suonare una canzone con la chitarra ed ecco… sentire la voce di John Lennon… per me è stato come se all’improvviso mi trovassi nei Beatles per suonare il basso. Mi dicevo: sono io quello che per qualche motivo è qui e ho l’onore di suonare il basso in questa meravigliosa canzone. Poi ci sarebbe stato un tour. Si parlava di un tour di solo pochi mesi dopo le session, ma ovviamente John fu ucciso. E dopo ciò, Yoko ha chiesto alla band di fare un suo album solista. Ed è stato, come puoi immaginare, emotivamente insolito.

Season of Glass era un grande album, puoi sentire tutto il suo vissuto, e No, No, No era una grande traccia.
Sì, fantastico, bellissimo brano. Dovrei tornare indietro e riascoltare quelle tracce. Ma era strano essere nello stesso studio con le stesse persone quando John se n’era andato.

E visto che hai suonato anche con Ringo, che ne pensi del nuovo singolo dei Beatles?
Non l’ho ancora ascoltato. rimanderò il giudizio finché non lo faro.

Ok, sei salvo!
(Ride) Ma è davvero così, sono in tournée e sono immerso negli Stick Men. Ma sarò a casa all’inizio di dicembre e allora ascolterò.

Che ne pensi delle nuove possibilità del basso elettrico? Del suo futuro? Perché in un periodo come questo in cui tutto è stato fatto e che puoi suonare mille bassi con le tastiere forse è complicato pensare a qualcosa di innovativo.
Beh, prima di tutto non so cosa porterà il futuro al basso, non so nemmeno io cosa suonerò tra due anni (ride). Ma per prima cosa, lasciami dire che, come puoi già capire da altre mie risposte, mi concentro molto sulla musica che sto suonando. Non ascolto quanta musica potrei o dovrei, il mio cervello musicale è occupato con quello che mi sta succedendo. Ma nell’anno del lockdown, nel 2020, quando tutti i tour furono cancellati, si tratta forse di un anno e mezzo, ho iniziato ad ascoltare su YouTube giovani bassisti che non sono famosi per aver fatto parte di una band o per aver fatto un disco, ma per la loro abilità. Ho passato quell’anno cercando di capire come mi sento a riguardo. Faccio un esempio: una musicista di 12 anni fa tecnicamente cose che io non potrei fare. E ci sono altre persone, altri giovani musicisti, e molte di loro sono donne, che stanno facendo cose musicali a cui non avevo mai pensato. Mi sto aggiornando. Se dentro di me ero tentato di pensare a me stesso come al ragazzo esperto, quello che sa come suonare il basso, da qualche altra parte di me, in quell’anno, mi sono reso conto di essere ancora uno studente. Che perfino una ragazzina di 12 anni suona il basso in un modo che non avrei mai immaginato.

Beh è una stupefacente dichiarazione di umiltà la tua, quasi incredibile.
Guarderò quel video un certo numero di volte come se fosse la mia insegnante e imparerò, guarderò la tecnica delle dita, e dove ha messo la sua piccolo mano. E quindi non dico più di essere diventato un bassista migliore grazie alle cose che ho esplorato, anzi. Ho sperimentato un cambiamento nel mio atteggiamento nei confronti di me stesso come bassista. YouTube e Internet mi hanno mostrato che sono solo uno tra un milione di bassisti e non so quasi nulla. Conosco alcune cose a cui sono stato vicino, ma ce ne sono molte altre là fuori. Allora: dove sta andando il basso, che è quello che hai chiesto? Non lo so. Ma io sono come tante persone che, andando a vedere questi giovani, soprattutto i giovani, si stupiscono della varietà e soprattutto della tecnica. Quando ero già esperto, arrivò Jaco Pastorius e suonò con una tecnica che era oltre e tutti quanti abbiamo dovuto rivalutare cosa significa suonare il basso velocemente. Bene, ora una generazione è cresciuta con il modo di suonare di Jaco, e per loro ora è facile, sai, sono ben oltre. E io non riesco ancora nemmeno a suonare con la tecnica di Jaco (ride). Quindi, tecnicamente, il basso è molto più che cresciuto, è esploso. Tutto è possibile al basso e questo è fantastico. La mia attenzione non è mai stata focalizzata solo sulla tecnica, ma sulla musicalità, sui suoni e su quelle cose. Continuerò ad essere così, ma ho anche molto da imparare a livello tecnico. È divertente. E, a questo proposito, lasciami dire solo un’altra cosa.

Certo, quello che vuoi.
Penso che noi bassisti siamo tutti diversi. Ma in un certo senso penso anche che i bassisti ascoltino musica in modo diverso rispetto alle altre persone. Stiamo imparando, arrivati a un certo livello, anche a non fare determinate cose col basso. O a fare cose piccole con le note o con il ritmo. Ecco, è una cosa speciale. Mi sento parte di una comunità perché in questo siamo uguali. E penso che tutti noi stiamo imparando dalla meravigliosa musica che ascoltiamo. E, grazie a Dio, viene fatta ancora tanta ottima musica.

Iscriviti