È un album piuttosto interessante, Soli e disperati nel mare meraviglioso: ben scritto, ben suonato, con una tensione nervosa – che spesso sa sconfinare in una malcelata ansia, o in un tagliente sarcasmo – che lo rende un prodotto di pregio nella categoria del (nuovo) pop italiano. C’è un unico problema: a sentirlo, ti pare di ascoltare un intero festival Sanremo, o comunque la selezione delle sue canzoni migliori, di quelle che funzionano di più. Inevitabile: perché l’autore dell’album in questione, Tropico, è quel Davide Petrella che sentite sempre nominare come autore nei pezzi più forti, quando ci sono le presentazioni sul palco prima dell’esibizione e vengono recitati i credits completi (due esempi? Cenere di Lazza, Due vite di Mengoni, tanto per gradire), così come è autore o co-autore di miriadi di altre hit che hanno segnato la storia del pop di casa nostra negli ultimi dieci anni o giù di lì, da Cremonini a Pamplona di Fibra e Paradiso.
Insomma: è semplicemente fisiologico che un certo modo di impostare l’oggetto-canzone sia diventato così conficcato nelle nostre coscienze, non è Petrella/Tropico che imita qualcuno, è il pop-che-funziona che si fa plasmare da Petrella. Eppure Tropico è un’altra storia. E sta seguendo una strada ben precisa. Siamo scesi fino a Napoli, nella città dove Davide è nato, a cui è legatissimo tuttora, per farcela raccontare. Da lui in prima persona. Su una nave. Navigando in mezzo alla baia di Napoli. Non soli, né disperati, ma con invece davanti un artista dalle idee chiare. Chiare, e ogni tanto pure scomode.
Leviamoci subito il dente della questione gossipara e morbosetta, che si sa che funziona sempre nel fare i titoli ad effetto e quindi macinare clic: in Naufragare tiri fuori un bel dissing contro Gianni Morandi… Dato che dici che il Morandi vero è Giorgio, il pittore…
(Scoppia a ridere) Ma noooo… Non ho nulla contro Gianni, contro Giannone, figurati! È che, molto semplicemente, io fra i due Morandi ho più a cuore Giorgio. Lo amo, come pittore. Pensa a quando raffigura delle semplici bottiglie: solo con quello, riesce a comunicare perfettamente inquietudine e solitudine, ti rendi conto? Che genio assoluto devi essere per riuscire a comunicare inquietudine e solitudine con delle semplici bottiglie? Sì, sono un grande, grandissimo fan di Giorgio Morandi… E sì, per questo ci resto un po’ male quando nessuno pensa a lui se si dice Morandi. In realtà poi è stato anche il gusto di fare questo gioco di parole che è un rimando ai Baustelle. Che hanno fatto una cosa simile, ma con Manzoni, in Un romantico a Milano.
Dove in effetti dicevano che il Manzoni vero è Piero. Ok, perfetto. Ha senso. Ora, risolto il lato gossiparo e morboso, più seriamente però vorrei continuare a restare comunque su quella traccia, perché la trovo una delle più significative dell’album. Una canzone piena di rabbia, di sarcasmo. Rabbia e sarcasmo indirizzati verso la società che ci gira attorno. Ecco, non sono toni che si sentono spesso, nel pop italiano contemporaneo. La canzone di denuncia sociale è molto meno diffusa rispetto ad altri periodi storici, oggi.
Quel testo nasce, per certi versi, come un esperimento socio-culturale.
Cioè?
Credo sia chiaro a tutti che i tempi che stiamo vivendo stiano generando a getto continuo piccoli mostri, persone dalla discutibile umanità. Senza nemmeno voler essere troppo giudicante, mettiamola così, definiamole in questo modo: persone che stanno dalla parte sbagliata del racconto. Sono persone che votano in un certo modo, che guardano trasmissioni di un certo tipo, e che soprattutto non hanno alcun interesse verso ciò che è arte e bellezza. Solo così si giustifica il fatto che si sentano delle assurdità come, ti faccio il primo esempio che mi vienen in mente, «il femminismo ha fatto più morti del patriarcato». Credimi, questa frase l’ho sentita dire davvero, in modo serio, non era uno scherzo, non era ironica, mentre invece è talmente assurda e senza senso che ci sarebbe da ridere e basta anche solo a pensarla, figurati a dirla. O, altra assurdità, vedere parlare di guerra e di pace come se si parlasse di calcio, come se fosse una questione di tifoserie contrapposte, di Milan e Inter…
Mi sembra davvero che stiamo vivendo tempi surreali. Questo per colpa di tanti fattori. Allora ho voluto chiedermi: ma come fanno le persone a ridursi così? Come riescono ad arrivare a pensare certe cose, a comportarsi in un certo modo? Com’è possibile che possano allontanarsi così tanto dall’umanità e dalla bellezza? Cioè, sono persone come me, sono uguali a me in teoria, ma in pratica non riesco a vedere nulla in comune con loro, sono degli alieni. Poi un giorno è successo che mentre ero tranquillamente al mare ho incontrato una persona che era esattamente così, ragionava proprio in questo modo. Eravamo lì, insieme, nello stesso posto, entrambi facevamo cose banali: eravamo al mare, mangiavamo un gelato, uno di fianco all’altro. Uguali, ma diversissimi. Da lì è nata l’ispirazione per Naufragare. Un tuffo nella merda, ecco cos’è questo pezzo. Per una volta è stato divertente, con la scusa di una canzone, provare ad immedesimarsi in un tipo di umanità che nel mondo vero non potrei sentire più distante da me.
Ecco, sì: il sarcasmo raro, nel pop di casa nostra. Però, scusa se te lo dico, ogni volta che sento una tua canzone scatta automatico il riflesso del pensare «Ah, ecco, un pezzo di Petrella: a chi si potrebbe farlo cantare?». E con un tono espressivo così urticante come questo di Naufragare, stavolta ho fatto fatica ad immaginarmi qualcuno che potesse interpretarla, oggi, nel panorama pop di casa nostra.
Non devi scusarti: se vengo associato immediatamente al fatto di essere un autore importante per altri non è che mi offendo. Chiaro, è una cosa ingombrante, lo so, e ha reso magari inizialmente più difficile il fatto di creare un percorso artistico mio personale, in grado autonomamente di costruirsi una fanbase.
Ecco.
Ma credo di esserci riuscito. Di più: penso di esserci riuscito in maniera organica, senza forzature, senza scorciatoie. Questo, già dal primo disco da solista. Anzi, no, aspetta: più che dal primo disco direi dal primo tour. È lì che mi si accesa la lampadina: ok, puoi fare anche l’artista in prima persona, non solo l’autore per altri. Anche se…
Anche se?
Io in realtà non nasco autore. Nasco prima di tutto artista in prima persona. Ho sempre avuto progetti miei, fin da piccolissimo, in cui ci credevo, in cui mi esponevo in prima persona. Però è solo quando le persone sono iniziate ad arrivare in buon numero ai miei concerti che mi sono detto che sì, forse ero abbastanza bravo, forse potevo considerarmi davvero un artista.
Ci sta.
Io di mio non sono uno che sgomita tanto per farsi vedere, per apparire. Televisione ne faccio poca, visibilità non ne cerco a tutti i costi, se mi viene offerto qualcosa che non ritengo in linea col mio progetto e la mia identità lo scarto. Mi interessa prima di tutto essere coerente, non essere famoso. La conseguenza di tutto questo, ed è una conseguenza molto bella, è che le persone che si avvicinano a me come artista, al percorso cioè che sto facendo come artista, sono una bella umanità, davvero un’umanità molto bella: sono persone che si sono interessate a qualcosa non perché gli è stato imposto di farlo dai media o dagli algoritmi, ma proprio per interesse personale, per scelta. E mi sostengono in maniera molto umana, carina e pulita, lo fanno senza forzature.
Tra l’altro tu oggi mi sembri, come artista, molto più sereno e tranquillo rispetto a qualche anno fa. Riascoltavo infatti il tuo primo album solista, quello uscito non a nome Tropico ma proprio a nome Davide Petrella, e ho avuto come l’impressione che lì in qualche maniera ti sforzassi di far vedere quanto fossi bravo. In qualche maniera sembravi sempre un po’ sopra le righe, ansioso di far vedere che eri particolare, originale. Ora invece, e con questo album in particolar modo, mi sembri molto più tranquillo, focalizzato, sicuro di te e quindi senza la necessità di forzare, di dimostrare qualcosa.
Ci ho messo tanto a capire chi ero, come artista… Anzi no, aspetta: non a capire chi ero, perché quello in realtà l’ho sempre saputo, ma a capire quali erano gli aspetti in cui davvero potevo fare la differenza, in cui davvero potevo lasciare un minimo segno. Sai, fra gli artisti c’è chi nasce pronto e c’è chi invece deve maturare, deve fare tanta gavetta. Ci sono ragazzini che arrivano e a 18 anni sono già perfetti, maturi, formati, hanno già raggiunto il massimo di quello che posso dare; a me invece c’è voluto un po’ più di tempo.
E quindi, quali sono allora i tuoi punti forti, quelli dove puoi fare la differenza?
Nella musica? O nella scrittura?
Entrambi.
Per quanto riguarda la scrittura… Boh, non penso stia a me dirlo, no? Che poi passo per presuntuoso. Posso solo dirti che io sono nato per scrivere canzoni. Quello sì. Fin da bambino è stata una cosa che mi ha ossessionato, letteralmente ossessionato. La mia passione è sempre andata lì. Io, pur di trovare una canzone buona, posso dormire per terra per tre giorni di fila, posso letteralmente distruggermi la vita… Onestamente? Vedo pochi artisti in giro che si devastano la vita come me la devasto io per l’idea e la voglia di trovare una canzone che valga, che lasci il segno. A più d’uno mi verrebbe da dire: «Devastati la vita come me la devasto io, per creare della musica, per creare un testo, e poi ne parliamo». C’è questo, e poi c’è il fatto che, insomma, qualcosa credo di aver dimostrato di saperla fare, no? Un minimo di segno nella storia della canzone italiana penso di averlo lasciato, negli ultimi anni, con le mie canzoni scritte per altri. Le canzoni che scrivo per me sono comunque in parte diverse: perché sono canzoni in cui chiedo tantissimo sia a me come autore, che a chi mi ascolta.
Spiega meglio: cambia molto scrivere per te e scrivere invece per altri?
Per me, cambia tanto. Parlo per me, eh, non pretendo di rappresentare una regola assoluta, ognuno se la vive a modo suo. Ma per me cambia moltissimo. Scrivere per altri è molto meno violento: non sei tu che ti metti in gioco, rischi di meno, sei esposto di meno. Io quando scrivo per me sento una enorme responsabilità. Per arrivare ad avere una decina di canzoni di cui sono soddisfatto, ne devo scrivere almeno 50 o 60.
Così tante?
Così tante.
Ti rovini la vita.
Sì. Quando decido che devo fare un album, so già che mi aspettano due anni d’inferno. Ok, non due anni interi, ma almeno sei mesi in cui scatta il delirio, la pazzia, sei mesi in cui è difficilissimo starmi accanto, in cui per strada si fanno morti e feriti, quello sì, quello per un bel po’ di mesi succede. Quando ingrano la marcia, non è semplice tenere il mio ritmo. Perché in qualche modo devo impazzire, per trovare le canzoni che mi servono, questa è la verità. La musica è una cosa bella, bellissima, ma per me sa anche essere una disgrazia.

Tropico sarà in concerto a Roma (29 novembre), Molfetta (4 dicembre), Milano (9 dicembre), Bologna (14 dicembre), Napoli (22 dicembre). Foto: Alessandro Treves
A proposito di cose e canzoni belle, mi è piaciuto molto in questo album nuovo la Sabato sera che hai costruito assieme a Calcutta.
Anche per me è una delle preferite.
Come è nata?
Quando faccio io un disco, provo sempre a coinvolgere persone che mi piacciono – e intendo che mi piacciono non solo artisticamente ma anche umanamente. E Calcutta è un fratm proprio, siamo legatissimi, ci vogliamo un mare di bene. Nel caso di questa collaborazione, io venivo da un periodo buio, lui magari un po’ meno, ma anche lui aveva avuto i suoi problemi: quindi sapevo che saremmo entrati subito in sintonia. E così è stato. In più, entrambi avevamo chiara in testa una cosa: non ce ne fregava un cazzo di fare una canzone che potesse essere un singolo, una hit. Tant’è che alla fine è venuta fuori una cosa stranissima di sei minuti e mezzo, dove alla fine abbiamo quasi degenerato.
Bravo, parliamo di quella fine. Il testo è abbastanza assurd. “Bombe al Quirinale con la crema chantilly”, la “musica di destra”…
Edoardo ed io abbiamo in comune una certa forma di ironia, di sarcasmo. La prima parte di Sabato sera vola altissimo, il ritornello tra l’altro creda dica una cosa molto importante, molto significativa. Tant’è che ad un certo punto ci siamo detti: bene, le cose grosse le abbiamo fatte, le abbiamo dette, ora però potremmo chiudere la canzone con una coda che non c’entra proprio un cazzo.
E l’avete fatto.
Ci è venuta fuori questa cosa un po’ psichedelica. Sai, siamo entrambi grandi amanti del lato più psichedelico del pop.
È psichedelico anche il testo di questa coda? Concetti in libertà, vicini al nonsense? O le parole sono pesate con attenzione, e con intenzione? O, chiesto in altro modo, tanto per andare sul concreto: esiste veramente la musica di destra?
Se esiste, speriamo sia poca (ride)… Ci faceva ridere come espressione, musica di destra, così come ci faceva altrettanto ridere mettere insieme bombe, il Quirinale e la crema chantilly. Mettiamola così: quella coda è un momento psichedelico, giocoso, un momento in cui diciamo delle cose un po’ bizzarre per non dirne altre, molto più dirette e serie.
A proposito di collaborazioni nell’album e di attitudini, il pezzo con Ghali si porta invece sempre dietro quel sapore di, come dire: sono rimasto quello vero, anche se ho avuto successo e le cose attorno a me sono cambiate, io sono rimasto quello vero…
Ma non è Ghali, è proprio tutto il rap che se lo porta dietro questo, da sempre. È un cliché. Un cliché del rap. Da sempre, il rapper quando diventa mainstream ad un certo si sente proprio obbligato a chiedersi: ma sarò diventato troppo famoso? Ma chi cazzo te ne fotte! Preoccupati se la tua musica è bella, quello sì, quello deve essere la tua preoccupazione, non se sei diventato famoso, se sei diventato mainstream. Però non c’è nulla da fare, fa proprio parte della narrazione del rap: non la puoi togliere, questa cosa. Ma secondo me è un peccato, è un peso inutile che ci si pone addosso, è qualcosa che a un certo punto crea proprio disagio, sia creativo che emotivo. Io amo il rap, lo amo profondamente, coi rapper ci collaboro tantissimo e non a caso o per convenienza, ma perché penso che abbiano un approccio alla parole incredibilmente interessante, mi hanno sempre affascinato molto. Quindi col rap e coi rapper ci ho sempre giocato molto, interagito molto. Però io vengo da un altro background: dal background delle canzoni, del cantautorato. E quando entro nel rap game e vedo le cose che ci succedono non nego che spesso mi capita di pensare «Oh, ma quanti problemi inutili vi fate…».
E glielo dici, ai rapper?
Certo!
E come reagiscono?
«Eh, è il rap game», mi rispondono. Che mi ricorda come quando vai in Sardegna, almeno in certe zone, ordini scampi e ti arrivano cinque scampi surgelati che poi però al momento del conto scopri costano 175 euro. Tu guardi il cameriere sconvolto e lui ti fa «Eh, è la Sardegna…». Ecco, stessa cosa il rapper: «Eh, è il rap game». Ho tanti amici rapper, persone a cui voglio un bene dell’anima e che posso dire anche di conoscere ormai bene, e ti posso assicurare che sono molto più maturi di quel che può sembrare ascoltando certe loro canzoni.
Però certe canzoni le devono fare per forza, certi atteggiamenti li devono per forza tenere.
Esatto. Perché «è il rap game», capisci? Solo che in questo modo si trovano incastrati in scatole mentali che, secondo me, non servono, sono inutili, se non proprio dannose. Mi pare però che finalmente piano piano si stia iniziando a superare questa cosa.
Concentrandoci invece più sulla musica e sulle sonorità tue, di questo tuo album appena uscito. Mi pare che Soli e disperati nel mare meraviglioso spesso peschi da un certo tipo di pop italiano anni ’80, quel pop apparentemente molto ottimista, ma in realtà dolceamaro.
Mah, non saprei dirti. Non sono uno che pensa molto a queste cose, non sono uno che pesa i riferimenti e li distribuisce col bilancino. Di sicuro a questo giro ho guidato parecchio di più io gli arrangiamenti, e mi ha dato molto gusto farlo, così come però ho guidato molto di più anche in altri aspetti, la produzione musicale, i video, la comunicazione… Ho allargato di tanto le armi a mia disposizione: più produttori, più musicisti, più collaboratori, e questo ho potuto farlo perché ho imparato a guidare meglio io le persone: non c’è più il rischio che vada in confusione, sono molto più bravo ad indirizzare, ad organizzare. Tornando alla domanda nello specifico: no, non ho avuto dei riferimenti in testa particolari, intenzionali. Anche perché io sono uno di quelli che pure quando scrive per altri non vuole avere in testa delle reference. Mi infastidisco sempre quando, prima di mettersi a lavorare, arriva qualcuno in studio a dirmi «Ecco, senti ’sto pezzo, vedi come funziona bene, prendiamone spunto».
Non so se crederti: tu sei quello chiamato per costruire delle hit. E le hit, da che mondo è mondo, si basano parecchio sullo studio delle reference.
Vero, di solito è così, sia in Italia che all’estero, perché non è mica una cosa solo nostra. Si chiede spessissimo di fare dei soundalike di hit famose, già. Grazie al cazzo, troppo facile così: fare musica in questo modo non mi diverte, non mi dà gusto. È praticamente come far fare musica all’AI. E se mi togli il gusto di fare musica, io non la faccio. Non ci riesco. Come ti ho appunto appena detto, in questo disco ho imparato molto meglio a guidare le persone e, di conseguenza, ho guidato parecchio, non mi sono nascosto. Ma guidare ha senso solo quando è un mezzo per imparare: guidando di più chi ha collaborato all’album, ho imparato molte cose che prima non sapevo. Ad esempio sul mix e sul mastering ora ho molte più nozioni e conoscenze su cose che per me, fino a un anno fa, erano semplicemente arabo. Più arrivano quelli bravi, e arrivano perché io ho imparato a gestirli mettendo tutti nel posto giusto e nelle condizioni migliori per potersi esprimere, più io imparo da loro: questo è il meccanismo. Guarda, sono contento di come sta crescendo questo mio progetto da solista. Molto contento.
Insomma, se tutto va bene a breve l’artista Tropico toglierà di mezzo di l’autore Davide Petrella.
Eh, magari.
Ah! Ecco! Ti sei compromesso.
(Scoppia a ridere) No no no, aspetta, non intendevo «Magari succedesse», mi hai frainteso…
Mmmh.
No, non voglio smettere di scrivere per altri. Non voglio smettere di essere un autore.
Ok.
Ma sai perché? Perché per me scrivere per gli altri fa prima di tutto da allenamento; e se io non mi alleno, non riesco ad essere bravo. Il mio «magari» della risposta sta nel fatto che vivrei molto più comodo, se non avessi questa necessità, una necessità che mi impongo da solo. Anche se, a ben pensarci, forse dopo un po’ a essere troppo comodo mi romperei pure i coglioni. E finirei per smettere di fare musica. Per me è molto salutare scrivere per altri, confrontarmi, conoscere artisti. Anche perché se mi concentrassi solo su me stesso, boh, credo che impazzirei. È una fortuna tutto quello che mi è successo, il modo in cui mi è successo: io mai avrei pensato di fare l’autore per altri, anzi, manco sapevo bene cosa fosse come lavoro, l’autore. Ho iniziato a farlo per Cesare (Cremonini, nda) un po’ per caso, poi da lì mi ha chiamato Universal ed è diventato un lavoro serio ma credimi, era nato tutto come un gioco. Io non sono in realtà un autore, ancora oggi non sento di fare questo lavoro.
No?
Io faccio canzoni. È diverso. E ti dirò di più: oggi vedo che spesso si finisce col fare gli autori per altri senza aver mai fatto prima gli artisti in prima persona, senza mai essere saliti realmente su un palco. Vuoi la verità? Per me questo è inconcepibile. Davvero: inconcepibile. Se vuoi essere convincente davvero, nel fare una canzone, devi avere provato almeno qualche volta nella tua vita quella sensazione di andare in un locale sul palco davanti a 20 persone, a rischiare il culo, a capire se il pubblico riesci ad emozionarlo, a catturarne l’attenzione. E ce l’hai lì di fronte, il pubblico. Non puoi scappare. Non puoi nasconderti.













