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Trevor Rabin, l’incatalogabile

Gli inizi negli anni ’70, l’ingresso negli Yes, ‘Owner of a Lonely Heart’ scritta in bagno, i contrasti «necessari per la creatività», le colonne sonore, il nuovo ‘Rio’: chiacchierata con un musicista che ha fatto di tutto, sempre a modo suo

Foto: Hristo Shindov

C’è solo una parola per definire Trevor Rabin: maestro. Soprattutto di umiltà. Potrebbe comportarsi da star visto il successo che ha ottenuto come guitar hero e autore degli Yes anni ’80 e come premiato compositore di colonne sonore per il cinema e per la televisione. E invece parlare con lui è come dialogare con uno che ha iniziato ieri e ti racconta entusiasta le sue passioni musicali davanti a una birra in un pub. Tra queste c’è ancora fare dischi. Nonostante la grande attività ad Hollywood, dopo una lunga di pausa è tornato con un nuovo album, Rio, che mantiene tutte le caratteristiche del Rabin-pensiero: musica che va da tutte le parti, incatalogabile, senza schemi, pirotecnica e ovviamente spiazzante. Quale migliore occasione per parlare con lui della sua eterna giovinezza?

Dove ti trovi in questo momento, negli Stati Uniti?
Sono a Los Angeles. Scusa per la voce, ma stanno ristrutturando la casa e la polvere mi entra in gola.

Ho ascoltato Rio e ho pensato che sei piuttosto dentro la musica moderna. Anche i trapper oggi stanno virando sempre più verso una musica vicina al prog psichedelico, con cambi improvvisi, che sono le caratteristiche del tuo disco. L’elettronica HD a volte cita chiaramente gli Yes degli ’80. L’ho trovato molto attuale e molto caleidoscopico.
Beh grazie, è un gran complimento.

Hai ascoltato qualcosa in particolare mentre lo realizzavi?
È stato come svegliarsi da un sogno. Un tempo pensavo che avrei fatto forse due, tre film e poi un album e invece ho fatto 50 film e neanche un album. È buffo perché anche mio figlio, che è un ottimo produttore e un bravo musicista, mi ha chiesto: chi ti ha influenzato? Ma non ci penso proprio alle influenze. È musica in cui si può sentire la libertà. Non avevo neanche casa discografica, ma quando un amico della Inside Out, Thomas, mi ha detto «se mai farai qualcosa, chiamami», l’ho fatto.

Beh, grandioso, un approccio indipendente.
Gliel’ho mandato e un paio di giorni dopo ha chiamato e ha detto che erano interessati e questo è tutto. Non c’è stato nulla di manageriale della serie devi fare un album, poi farai questo, poi farai quest’ altro… Ho fatto l’album senza nessuno, solo per divertirmi e per suonare con il fantastico batterista che risponde al nome di Vinnie Colaiuta.

Si percepisce nel disco, c’è questo sentimento che mi ha ricordato i Rabbitt, la tua prima band, molto diversa dai gruppi che giravano allora. Era una roba inaudita, una specie di glam prog innovativo…
Con i Rabbitt ho vissuto un periodo molto interessante. Avevo due amici molto intimi, Ronnie (Robot, ndr), il bassista, e Neil (Cloud, ndr), il batterista, eravamo molto uniti. In Sud Africa, se volevi provare a fare concerti nei club o nei ristoranti dovevi suonare le hit del momento. Noi ne suonavamo una o due canzoni che ci piacevano, non le prime 20 in classifica. Volevamo essere una band originale, non c’era nulla di simile in Sud Africa.

Stavo pensando al titolo del disco, Rio: rimanda subito ai Duran Duran.
C’è un’altra storia dietro. Nel 1985 gli Yes suonavano al Rock in Rio in Brasile, mezzo milione di persone, uno spettacolo. Ovunque guardassi c’era gente, assurdo. La sera dopo suonavano i Queen e al bar ho detto a Brian e a Freddie che li avrei visti non lì, ma in tv. Mia moglie ed io siamo andati in camera da letto per guardare i Queen ed è quella sera che mio figlio Ryan è stato concepito.

Che storia rockmantica!
E poi quando Ryan mi ha dato una nipote, l’ha chiamata Rio.

Torniamo ai tuoi primi album solisti, come Beginnings e Wolf, che è anche uno dei migliori album che hai realizzato, credo.
Sono d’accordo.

Sono molto diversi da quel che c’era in quel periodo. Roba molto intensa, rock duro in un contesto avant. Molti dicono che è prog, ma non è prog.
No, no, no, non è affatto prog. Wolf è stato un disco molto divertente da fare. Ho inviato una cassetta a Jack Bruce e Simon Phillips chiedendo: «davvero ragazzi volete suonarci?». È stato fantastico passare del tempo con loro ed è triste sapere che Jack se n’è andato. Ci sono così tante persone che se ne sono andate, non posso pensarci.

È come se prendessi la new wave e gli dessi un altro significato, più ampio. Ed è uno dei motivi per i quali hai rinnovato gli Yes facendone praticamente una nuova band.
Cerco sempre di guardare la musica e dire: ok, voglio fare qualcosa di diverso. Qualcosa di nuovo, forse.

Ed è il motivo per cui hai fondato i Cinema con i musicisti degli Yes.
Esattamente.

È la storia di 90125, che non doveva essere un album degli Yes.
Eravamo i Cinema e la musica non suonava per niente come gli Yes. Ma sai, tutti oramai sappiamo cosa è successo e ora è storia.

A proposito di storia, gli Yes hanno influenzato addirittura i Nirvana: Heart Shaped Box ha dei giri presi da Starship Trooper, ma c’è qualcuno che lo ha mashuppato con Owner of a Lonely Heart e sembra che non siano poi così lontani tra loro.
Wow, non lo sapevo, è sorprendente.

In un certo senso il tuo ingresso negli Yes trasforma il gruppo in una delle prime band crossover.
Il primo motivo per cui non ci siamo più chiamati Cinema è che abbiamo ricevuto una lettera da un avvocato che diceva che esisteva già una band con quel nome. Poi Ahmet Ertegun, che tipo fantastico, ha capito che era più intelligente chiamarci Yes. Disse: sarà un grande successo, farà bene alla band. Io non la pensavo così, ma alla fine ho perso, perché chiamarci Yes era come… come una pubblicità, ecco. Un’idea commerciale. In quel senso era tutto giusto.

Qual era il tuo rapporto con Trevor Horn? Siete stati due grandi innovatori nella storia degli Yes, avete allungato la vita alla band.
La prima scelta per produrre 90125 era Mutt Lange perché suonavo con lui durante i miei turni da session man ed è un grande bassista. Chris però aveva lavorato con Trevor Horn, quindi voleva che fosse lui a farlo. Quando è arrivato gli ho detto una cosa tipo: ho un certo modo di vedere le cose e non voglio che quella visione cambi, quindi devi fare da allenatore, allena la band, non cambiarla. Era aperto e sai, certe cose che volevo fare non erano normali (ride) e lui è stato bravo a realizzarle. Per esempio volevo che l’assolo di Owner of a Lonely Heart somigliasse a un incidente d’auto. Qualcun altro al suo posto avrebbe storto il naso, lui ha detto: «ok, facciamolo».

Hai suonato anche coi Frankie Goes to Hollywood, giusto?
Per via di Horn. La gente mi chiede: hai passato momenti difficili con Trevor? La risposta è che, sì, eravamo sempre in disaccordo, ma è un bene. Quando ho lasciato la band mi ha ingaggiato per suonare con Tina Turner, ho lavorato molto con lui,  non ci sono mai stati problemi. E poi se lavori con qualcuno e va tutto liscio, vuol dire che è tutto sbagliato. C’è bisogno di un minimo di conflitto.

Come Horn, sei da sempre interessato alla tecnologia. Penso che tu sia uno dei migliori in questo campo. A questo proposito, cosa ricordi di Talk? Credo sia uno degli album più sottovalutati degli Yes, era all’avanguardia nel modo in cui è stato registrato.
È stato registrando Talk che io e Jon Anderson siamo diventati intimi in termini creativi. La casa discografica voleva che producessi l’album e io ho detto che l’avrei fatto solo a determinare condizioni. Sono andato dalla band e ho detto: guardate, se lavoriamo insieme voglio fare questo disco diversamente, non voglio registratori. Chris mi disse: «Ma esiste qualcosa in grado di fare una cosa del genere?». Se hai quattro Macintosh e ci sono  quattro tracce per Mac, hai sedici tracce che poi devi sincronizzare. Lo abbiamo fatto ed è stato faticoso.

Posso immaginarlo, per l’epoca era una impresa titanica.
Credo che sia il primo disco ad esser stato fatto in maniera non lineare. È stato molto difficile. Voglio dire, a volte da Boston mandavano uno scienziato a lavorare al codice, perché non funzionava e le macchine si inceppavano. Quando l’ho terminato ero esausto e felice. Ed è il miglior materiale che la band avesse mai suonato in tour, erano i migliori spettacoli che avessimo fatto.

Ma è stato durante quei live che hai pensato che forse dovevi abbandonare gli Yes…
Sì. L’ultimo concerto è stato in Giappone e la casa discografica è diventata insolvente subito dopo aver pubblicato il disco. Quindi eravamo in tour, senza supporto a un disco di cui invece eravamo entusiasti. In Giappone, era l’ultimo giorno, ero con un amico, il mio tecnico Paul Linford. Siamo andati a bere una birra e niente, ho sentito che era finita. Ero giù, ci avevo messo tutta la mia anima, ma non ero in grado di essere utile alla causa, non sapevo che fare. E lui mi ha detto di lasciare perdere. Ho capito che aveva ragione. La mia storia con gli Yes è finita in quel momento. Poi Chris è venuto molte volte per chiedermi di tornare nella band. E io: «Anche volendo non potrei, ho un contratto per tre film con la Disney in due anni!».

Alla fine, per molti versi, è stato meglio così.
Avevo dato tutto quello che pensavo di poter dare.

Ma più avanti siete tornati insieme…
Sì, io e Rick (Wakeman, ndr) abbiamo legato molto durante l’Union Tour. Lo chiamavamo Onion Tour perché non facevamo altro che piangere dal ridereda tanto Rick è divertente. Ci siamo trovati piano piano molto in sintonia dal punto di vista musicale e personale. E poi quando abbiamo fatto la Rock and Roll Hall of Fame…

Ricordo il grandioso discorso di Rick, un’inaspettata stand up comedy dell’assurdo.
Ah, mi stavo pisciando sotto. Per farti capire che tipo è Rick: abbiamo fatto uno spettacolo come RWA in cui il suono era sparito, l’impianto audio era acceso, ma tutti i nostri strumenti erano spariti dalle spie e Rick si mise a raccontare barzellette per cinque minuti e penso che il pubblico preferisse lui alla musica. Stavano tutti ridendo come matti. Dopo un po’ si è voltato e i tecnici hanno detto che si poteva ripartire e lui ha detto: non ho finito (ride).

Quindi i RWA, ovvero tu, Rick Wakeman e Jon Anderson, sono arrivati dopo la Hall of Fame…
Sì, dopo la Hall of Fame abbiamo fatto forse una mezza dozzina di spettacoli per poi arrivare a non so quanti, ma credo 200 o qualcosa del genere. Ci siamo divertiti moltissimo insieme e sono contento di averlo fatto perché dopo la tristezza del post Talk… Anche la morte di Chris, sai, è stata una cosa molto triste. Rimetterci in moto ci ha sollevati. Ed è stato un bene per me, perché non cantavo da tantissimo tempo. Quindi cantare di nuovo in tour per 200 spettacoli… insomma, alla fine mi sono fatto i muscoli alla voce. E alla fine ero pronto per Rio.

Però non hai mai fatto un disco con gli RWA, perché vivevate molto lontani l’uno dall’altro.
Quello era solo uno dei problemi. Quello maggiore era che ci divertivamo così tanto a suonare che abbiamo continuato ad andare in tour e sai, andavamo avanti e indietro, c’erano delle idee, ma non è mai stato concretizzato nulla in un album.

Peccato, ero molto curioso di sapere che tipo di musica sarebbe venuta fuori, magari prodotta nello stesso stato d’animo con il quale hai composto Owner of a Lonley Heart. È vero che l’hai scritta al cesso?
Sì, è vero (ride), è stato tutto molto strano. Vivevo a Londra. Era il 1981 e mi trovavo in una piccola casa a Londra con un bagno piastrellato, quindi quando dovevo andare in bagno, prendevo la mia chitarra acustica…

Ti portavi la chitarra al cesso?
Sì, suonava benissimo lì, cantavo e suonavo in bagno chiudendo la porta in modo che nessuno mi sentisse. Lì mi è uscito il riff iniziale, da da da da da. Mi sono detto: forse è qualcosa di buono o forse nulla di che, non riuscivo a capirlo… Il giorno dopo sono tornato in bagno e… dum dum, dum dum dum, mi è venuto il ritornello. «Ok, adesso ha senso», ho pensato. Ho iniziato a costruire il pezzo sempre sul water, suonava bene là dentro.

Ma il testo era diverso all’inizio o no?
Completamente diverso, ma il ritornello è rimasto esattamente come l’avevo pensato io. All’inizio non ero molto soddisfatto della strofa, ma alla RCA dicevano che sarebbe diventata un successo. E si sa, nessuno sa veramente cos’è un successo. Quindi ho pensato: ok, allora penso anch’io che lo sarà!

In effetti era difficile pensare il contrario.
Ma non ero soddisfatto della strofa. Siamo andati a lavorarci a Londra e ancora non ero soddisfatto. Quindi sono tornato nel mio appartamento a Londra e avevo una cassetta Revox da registrare e solo con un microfono ho scritto la strofa, l’ho riportata in studio e John ha scritto il testo.

A proposito di stranezze, ho letto che sei un grande fan di Schoenberg.
Adoro Schoenberg!

Quindi Schoenberg è presente anche nella tua musica? Io credo che si senta l’influenza nel tuo modo di suonare la chitarra.
Hai sollevato una questione curiosa. Conosci la canzone Push? Alla fine, proprio alla fine c’è un rimando a lui. Ci sono delle note, solo sul pianoforte. E con un accordo proprio alla fine. Ed è fondamentalmente una scala dodecafonica alla Schoenberg. È una cosa che mi divertiva fare e basta, un piccolo scherzo. Ma adoro Schoenberg e, sai, tutti parlano male della musica atonale o della dodecafonia perché sarebbe “brutta”, ma ascoltate Verklärte Nacht

La sua prima opera importante, in cui è ancora tonale.
E sai che l’ha scritto per sestetto, vero? Ma se lo ascolti con una sezione di archi completa, è uno dei brani musicali più belli di sempre.

Sì, è come fosse un altro luogo della musica. Ma penso che nella tua chitarra ci sia qualcosa che ricorda anche Webern, Berg, negli assoli.
Sai una cosa? Per me non c’è complimento più grande.

Perché le cose che fai sono insolite. Non è come se tu suonassi una chitarra, è come se tu fossi la chitarra. Sai, Steve Vai è stato molto, molto influente negli ’80, ma tu…
Adoro Steve.

Steve era molto interessato all’hard rock. Anche tu lo sei, ma alla fine viaggi in un altro spazio sonoro, anche rispetto a Van Halen. Perché sei interessato ad ampliare lo spettro. Qual è la sensazione quando imbracci la chitarra?
Una cosa che ha cambiato il mio percorso con la chitarra è che ho iniziato con il pianoforte, quindi non ho mai preso lezioni di chitarra. E quando ho iniziato a studiare chitarra da autodidatta, facevo esercizi di pianoforte e li riportavo sulla chitarra. E poi ho studiato tutti i modi, solo i modi.

Dimmi delle colonne sonore. Credo ti piaccia lavorare sui dettagli, è come giocare, come tornare bambino.
È fantastico perché hai le immagini, i dialoghi e le vibrazioni simpatetiche con cui lavorare. Ho studiato orchestrazione da ragazzo con un insegnante brillante, Walter Mony. Era un direttore d’orchestra e un professore, io sono uno studente pessimo, ma lui era un insegnante eccezionale, mi ha dato lezioni private di orchestrazione ed è così che sono passato al cinema. Volevo lavorare con l’orchestra. Ho fatto qualcosa con i Rabbitt, ma volevo davvero poterlo fare in senso professionale.

È vero, c’è l’orchestra nei Rabbitt. A volte gli archi si producono in uno stile quasi disco. Roba molto, molto strana.
Sì, ero io. Ho scritto tutte le parti per l’orchestra e l’ho diretta.

Ah, sei tu il direttore d’orchestra? Fico.
Già, ma ho fatto solo una o due cose in quel contesto. Dopo Talk sentivo di dover iniziare per forza a dirigere e sai, adoro sedermi con un pezzo di carta e una matita e scrivere musica per orchestra. Lo adoro perché puoi sentirlo nella tua testa ed è proprio come… tipo quando vado a pranzo con mia moglie, a volte lei mi parla e mi guarda e mi dice: ma mi stai ascoltando? A quel punto capisce, mi porge un pezzo di carta e una matita perché sa che sto pensando a qualche musica da scrivere.

Che cosa pensi della musica di oggi?
Penso che ci siano molti nuovi musicisti di valore come Matteo… penso che venga dalla Sicilia… lo conosci? È giovane, avrà circa 25 anni…

Matteo Mancuso?
Sì, lui. Fantastico chitarrista perché suona senza plettro, con le dita, sembra che faccia tapping ma invece è tutto fingerstyle… incredibile.

Che ne pensi invece del punk?
Quando è esploso pensavo che non fosse buono per la musica, ma come commento sociale. Però poi dal punk sono cresciute cose che sono arrivate al top, come i Police, e quindi hanno espresso qualcosa di solido.

Qualcosa di punk c’è in te, forse sei più pronk.
Può essere. La copertina del mio primo album con la Chrysalis era strana e psichedelica, e mi ha fatto sembrare effettivamente un punk.

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