Trentemøller: «Fare il dj mi annoia, meglio avere una band» | Rolling Stone Italia
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Trentemøller: «Fare il dj mi annoia, meglio avere una band»

Nel nuovo ‘Memoria’ il musicista baratta il dancefloor con lo shoegaze, l’elettronica con gli strumenti "veri". Qui racconta com’è nata questa scelta, perché scrive in totale isolamento, il ritorno live in Italia

Trentemøller: «Fare il dj mi annoia, meglio avere una band»

Trentemøller

Foto press

Il producer danese Trentemøller è uno dei più importanti esponenti della scena elettronica europea del ventunesimo secolo. Il suo album d’esordio del 2006, The Last Resort, è una pietra miliare del genere, capace di incorporare una techno cinematica dalla grande forza evocativa ed emotiva. È riuscito per ben due volte a raggiungere il secondo posto della classifica danese (con Into the Great Wide Yonder e Lost), risultato inusuale per album d’elettronica pura, mantenendo un’attenzione speciale al clubbing grazie a una serie di remix di incredibile successo (memorabili quelli per Röyksopp, The Knife e Franz Ferdinand, quest’ultimo gli è valso anche una nomination ai Grammy).

All’apice del successo come produttore e dj, però, ecco la virata inaspettata: Trentemøller rifiuta il ruolo del producer che schiaccia play e basta, mette su una band e inizia a girare il mondo proponendo la sua musica oramai sempre più influenzata da generi molto lontani dal dancefloor, flirtando senza timore con influenze synthwave e shoegaze. Le chitarre elettriche affiancano i synth e la scena elettronica internazionale scopre improvvisamente di avere a disposizione altre possibilità di suono più organiche e meno algide.

In occasione dell’uscita del nuovo disco, Memoria, a un mese dalla sua unica data italiana prevista per il 13 marzo ai Magazzini Generali di Milano (è stata spostata al 10 aprile, ndr), abbiamo raggiunto il musicista danese che ci ha raccontato il suo approccio molto intimo e solitario alla musica.

È appena uscito il tuo nuovo album, Memoria, che ha una vibe molto organica, suonata. Sembra quasi shoegaze. Come lavori per trovare il suono di un disco? È una questione di concept o ti prefiggi delle regole?
Prima di ogni disco ho bisogno di prendermi del tempo e dello spazio per me. Solo dopo mi metto a scrivere e vedo cosa esce. Solitamente dopo aver composto qualche brano, la direzione sonora da intraprendere mi si palesa di fronte agli occhi, diventa completamente comprensibile e visibile. In questo caso i primi brani avevano una direzione dreamy-noisey, molto shoegaze, e mi sono sentito di continuare su questa via. Quel suono è il cuore pulsante del disco. Così quando ho capito che quello sarebbe stato il suono, il concept del disco, mi sono potuto permettere di pensare brani che andassero anche in direzioni completamente differenti. Sono un po’ all’antica e penso che i dischi debbano essere dei viaggi in cui l’artista, e quindi l’ascoltatore, possano avventurarsi in zone imprevedibili.

È cambiato il tuo modo di produrre da quando hai una band?
La prima stesura dei brani avviene sempre nel mio studio – da solo – con tutti gli strumenti a disposizione, in pieno controllo. In questo disco però volevo che le canzoni avessero un suono da band, cercavo quel feeling. Ho quindi dovuto riarrangiare quelle prime stesure con l’intera band per trovare assieme il giusto suono, il giusto feeling. Avere degli strumentisti in fase di composizione aiuta a migliorare i brani sotto molti punti di vista. Un batterista può mostrarti soluzioni ritmiche più intelligenti e più funzionali al brano, ad esempio. In futuro mi piacerebbe anche ribaltare questo modus operandi e scrivere prima i brani con la band per poi riprenderli in studio, da solo, e rimetterci mano.

Trentemøller: Like A Daydream (official music video)

Quale pensi sia la cosa più importante che hai imparato nella produzione della tua musica in questi anni?
Una cosa molto difficile: ho imparato a togliere. Prima costruivo layer e layer di suono, ora invece ho capito che spesso l’idea iniziale è quella su cui puntare. Lo spazio è molto importante.

Il concetto di spazio e spazialità nella musica è estremamente interessante e personale. Cosa intendi tu per spazio?
Non so come descriverlo a parole. È una percezione. È qualcosa che si ottiene quando non si iper-produce una traccia. Negli anni ho imparato a togliere. Lasciare dello spazio nella musica è fondamentale perché da all’ascoltare la possibilità di immaginare. Quando la musica non è sempre e costantemente in faccia, dai lo spazio all’ascoltare per scoprire nuovi dettagli. Sono cose che non arrivano mai al primo ascolto, ma solo dopo che torni più volte su quel medesimo brano. Lasciare spazio è anche dar l’opportunità all’ascoltatore di tornare.

Negli anni la tua musica è diventata molto chitarristica. Produci ancora a partire dal pianoforte o sei definitivamente passato alla chitarra?
È strano: nonostante io sia un pessimo chitarrista, la mia musica oggi si basa tantissimo sulle chitarre. Però scrivo ancora principalmente al piano, anche se i synth non mi danno il feeling di una chitarra. Ogni volta che suoni una nota sulla chitarra, il suono è differente. C’è sempre qualche dettaglio differente. La chitarra è uno strumento vivo, organico.

Ho letto che in passato hai sofferto di un forte blocco creativo. Come l’hai affrontato?
Sì, ho avuto un lungo periodo di blocco in passato. Andavo in studio e non riuscivo a tirar fuori nulla di decente. Ero insoddisfatto. In un caso del genere l’unica cosa che puoi fare è prenderti una pausa, non forzarti. Così ho capito che quando scrivo un disco non devo, ad esempio, ascoltare musica di altri; tende a confondermi. Per me fare musica è una forma di isolamento, a volte ammetto che è dura. Scrivere musica per me è un’azione molto personale e intima, direi solitaria.

Hai delle tecniche per stimolare la creatività nella produzione?
Cerco di non mettermi regole e stare dentro al momento. Provo a non ripetermi, a trovare la via che mi faccia divertire di più. Non voglio annoiarmi e non voglio assolutamente essere considerato sempre come quello che fa musica malinconica e sognante: le persone si aspettano questo da me. Certo, quella è una parte principale della mia produzione, è vero, ma la palette emotiva della mia musica è molto più ampia di così.

Ti dirò una cosa che va proprio in questa direzione: a me Memoria è sembrato un disco molto poco malinconico. Ci ho percepito molta speranza al suo interno.
È vero! Mi è venuto naturale, forse è la mia personale reazione a ciò che abbiamo vissuto in questi anni. Non volevo fare un disco scuro.

Trentemøller: Dead Or Alive (official video)

Tutti le tue uscite vengono pubblicate dalla tua etichetta, In My Room. Quanto è importante per te avere libertà e il controllo della tua musica?
Ho fondato una label perché volevo avere una piattaforma su cui veicolare la mia musica e non avere nessuno che mettesse bocca sul mio processo creativo e sulla produzione finale. Ho avuto moltissime proposte nella carriera, ma ho sempre rifiutato per questo motivo. Per me è molto più facile e sano fare musica in una dimensione di totale indipendenza.

Qual è la cosa più importante che hai imparato in vent’anni di carriera?
Seguire il proprio istinto, è una cosa che è tornata spesso in questi anni di carriera. Faccio un esempio: in questo disco è la prima volta che scrivo tutte le linee vocali e i testi, solitamente per questo passaggio collaboravo con altri artisti. Non mi preoccupava tanto scrivere le linee melodiche in sé, quanto riuscire ad avere dei testi che mi soddisfacessero. Così ho seguito l’istinto e penso di aver raggiunto un ottimo risultato.

Sembra che tu abbia dato un profondo taglio con il passato a un certo punto della tua carriera. Hai ad esempio smesso di fare dj set. Non ti manca?
Fare il dj, o comunque uno show senza band, da producer, è sempre stato più noioso rispetto al suonare dal vivo. Amo suonare dal vivo e fare il dj, a essere onesti, è quasi sempre poco più di un press play. Penso che non tornerò più a mettere i dischi, non mi diverte, non fa più parte di me. Ora ho una band formata dai miei artisti preferiti, gente che ha un proprio percorso musicale pazzesco ma che comunque ha deciso di far parte di questa superband. Per me è un sogno che diventa realtà.

Sei stato uno dei remixer più sensazionali degli ultimi vent’anni, ma mi sembra di capire che anche quel mondo l’hai messo quasi definitivamente alle spalle.
In passato avevo proprio smesso, ma ogni tanto ricapita ancora. Sai, non ne ho davvero più voglia. Se penso a quanto lavoro c’è per tirare fuori un’idea di un remix, preferisco utilizzare quell’idea direttamente per la mia musica.

È quasi fantascientifico sapere che un’artista internazionale della tua caratura verrà a suonare in Italia così presto. In questi due anni le occasioni sono state davvero poche. Tornerai sul palco, e qui a Milano il 13 marzo ai Magazzini Generali, dopo un lungo periodo di astinenza (la data è stata spostata al 10 aprile, ndr). Ma se pensiamo a questi ultimi due anni, l’astinenza questa volta è stata collettiva. Sei preoccupato per il mondo della musica live? Penso ai tecnici che non hanno potuto lavorare, ai piccoli artisti che non hanno avuto la possibilità di sostenersi economicamente e soprattutto alle abitudini sociali, in particolari sui più giovani. Ci sono teenager che non hanno mai potuto sperimentare la musica live.
Sì, sono davvero preoccupato. In primis perché molti locali hanno chiuso. E penso che molte persone abbiano perso l’interesse, o l’abitudine, di andare ai concerti. Oltretutto molti tecnici che lavoro nell’ambiente hanno cambiato mestiere per sopravvivere. Torneranno? O ci sarà una penuria di gente di talento in questo ambito? La musica live non è solo una questione che riguarda gli artisti. A volte lo dimentichiamo.

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