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Trent Reznor: «Ho iniziato imitando i Clash, e facevo schifo»

Nel trentennale di ‘Pretty Hate Machine’, il leader dei Nine Inch Nails parla del debutto, del lavoro sulle colonne sonore, del periodo delle droghe e della sua prossima missione: rendere dark la Pixar

Foto: Getty

Trent Reznor e Atticus Ross dei Nine Inch Nails si sono mossi subito quando hanno scoperto che l’amato fumetto Watchmen sarebbe diventato una serie tv. Reznor è un fan della graphic novel, ma soprattutto apprezza il lavoro di Damon Lindelof, noto per serie come Lost e The Leftovers. Una volta entrati in contatto, è bastato un incontro per capire che erano tutti sulla stessa lunghezza d’onda e dare inizio ai lavori. Un aspetto della serie che attirava particolarmente Reznor è che l’incarico non sembrava ‘tranquillo’.

«Per Damon sarebbe stato più facile fare una cosa nuova e non Watchmen che punta ai fan incontentabili», ci dice Reznor al telefono da casa sua, in California. «Già solo acquisire i diritti non è facile, per questo io e Atticus ci siamo buttati in questo lavoro con tutti noi stessi. Ci sembra una storia interessante, importante; è divertente e insieme azzardata».

Dopo aver visto alcune scene del pilota con un sottofondo musicale provvisorio – Reznor non ne è sicuro, ma si trattava forse della colonna sonora del documentario di Ken Burns The Vietnam War – il duo ha creato alcuni paesaggi sonori inquietanti, spesso fatti di synth glaciali, a perfetto complemento della tensione ritratta dalla serie. «Volevano qualcosa che stabilisse un tono aggressivo e sordido», spiega Reznor, citando come esempi le scene della rivolta e della cupola dell’interrogatorio, entrambe nel primo episodio.

Da come ne parla il leader dei Nine Inch Nails, la musica seguirà l’evoluzione della trama, il che spiega perché lui e Ross stanno dividendo la colonna sonora della serie in tre volumi: il primo è uscito proprio questa settimana. In questo Volume One si trovano energici groove EDM sporcati dalla chitarra (Never Surrender), potenziali outtake dei Nine Inch Nails periodo Broken (The Brick) e persino temi da film di James Bond (Mueller Time). Questa varietà di stili prova l’ampiezza dei gusti musicali su cui il duo ha fatto affidamento negli ultimi anni, da quando il lavoro sulle colonne sonore è diventato parte integrante del loro quotidiano.

Solo nell’anno in corso Reznor e Ross hanno composto musica per i film Mid90s, Bird Box e Waves, e al momento sono (contro ogni previsione) al lavoro sulle musiche di un lungometraggio della Pixar, Soul, il cui protagonista è (più logicamente) un’anima persa. È passato un anno dall’ultimo album dei Nine Inch Nails, Bad Witch, ma negli ultimi mesi la band ha comunque esercitato la sua influenza giacché un sample dell’album sperimentale Ghosts I-IV è stampo incluso nella mega-hit Old Town Road, mentre Black Mirror ha rifatto il look a Head Like a Hole, trasformandolo in un brano pop. Nonostante Reznor dichiari che lui e Ross non stanno al momento lavorando a nuovi brani dei Nine Inch Nails, coi sono vari progetti all’orizzonte. Tra un impegno e l’altro della sua serratissima agenda, il cantante è riuscito a prendersi una breve pausa per rilasciare a Rolling Stone un’estesa e approfondita intervista sul suo travolgente 2019 e la nuova ed eccitante sfida di Watchmen.

 

Vi siete approcciati a Watchmen già con un’idea di come volevate che suonasse?
Siamo partiti senza preconcetti, non sapevamo cosa avesse in mente Damon Lindelof. Siamo stati a questa prima riunione con lui e i produttori, ha attaccato un monologo di tipo 10 minuti sulla trama, e Atticus ed io ci guardavamo come a dire: “Ok, già dopo i primi 15 secondi non ci abbiamo capito più nulla”.

Come vedrete, è una serie molto intensa e profonda, con diverse vicende intrecciate tra loro. Ci era sembrata interessante, ma non ci aveva dato alcun indizio di come dovesse suonare. Quando abbiamo visto in anteprima il premontato abbiamo cominciato a capire che la musica avrebbe avuto un ruolo di primo piano, ben più che di semplice sottofondo.

Cosa ne pensi della violenza ritratta in Watchmen? La serie tocca diverse tematiche nell’ambito dei diritti civili, tutte di grande attualità. Vi disturbava lavorare su un prodotto che avrebbe potuto entrare nel dibattito politico, come già aveva fatto Joker?
Il tema è interessante. Ma tutto per noi si riduce a questo: quando cominciamo a lavorare a un progetto audiovisivo, ci mettiamo al suo servizio. E nei primi dieci minuti in cui ho conosciuto Damon e ci ho parlato, i miei sospetti su che tipo di persona fosse – intelligente e profonda, con tante idee – hanno trovato conferma. Oltretutto, io e Atticus siamo usciti dalla riunione pensando: “Ok, lui è uno di noi”. Sul lavoro siamo sulla stessa lunghezza d’onda, ossia: “Siamo qui per realizzare il miglior prodotto possibile. Non c’è spazio per l’ego. Mettiamoci sotto, senza paura di sporcarci le mani e cerchiamo di tirare fuori ognuno il meglio dall’altro”. Questo mi ha tranquillizzato sul fatto che le conseguenze della rappresentazione della violenza, o di come e quanto venivano mostrate determinate cose, erano state prese ampiamente in considerazione. Se qualche scena dava l’idea di essere provocatoria o offensiva o di battere su certi tasti, non era una cosa fine a se stessa. C’era sempre un intento dietro. Man mano che vedrete come si evolve la storia potrete trovarvi d’accordo oppure no. Ma qualunque dubbio potessi avere su una possibile strumentalizzazione o su “questa cosa è di cattivo gusto?”, “quest’altra è irresponsabile nei confronti della società?”, è stato messo a tacere.

State pubblicando la colonna sonora di Watchmen in tre volumi: è una scelta dovuta unicamente al fatto che nella serie c’è tantissima musica?
Beh, ci diverte pubblicarla così. I motivi sono vari. Prima di tutto i brani sono tanti, e credo che di questi tempi, quando scarichi un bel po’ di roba sul pubblico – tipo un paio d’ore di musica – il 90 per cento viene ignorata. Per questo frazionarla è una buona cosa. La motivazione non è stata quella di monetizzare tre volte: non è sicuramente un fattore decisivo. E la stiamo pubblicando in vinile perché l’oggetto fisico sta tornando. Per quanto mi riguarda, è per motivi nostalgici. Sto guardando uno scaffale pieno di album in vinile proprio in questo momento e ti dà una sensazione abbastanza diversa da un file che sta sul cloud, che sembra sempre un po’ usa-e-getta. In più il formato si ricollega a Watchmen. Mettiamola così: ci abbiamo pensato su bene.


Avete già diviso gli ultimi tre lavori dei Nine Inch Nails, in modo che il pubblico potesse recepirli meglio. Sei soddisfatto dell’accoglienza che gli è stata riservata?
Sì, mi pare sia andata bene. Se potessi far uscire di nuovo The Fragile, lo dividerei in due dischi. Credo che a suo tempo, vent’anni fa, fosse un po’ presuntuoso sganciare sul pubblico un lavoro di una tale mole e densità, ma gli ultimi tre mini-dischi che abbiamo pubblicato erano in realtà un album solo. Mi pareva che così i pezzi non potessero venire presi sotto gamba. E ripeto, non avevo alcun dubbio o preoccupazione sul fatto che fosse adatto all’era dello streaming o alle classifiche. Non me ne frega nulla di quella roba. Mi interessa che le persone possano conoscere e fruire in un certo modo il materiale.

Che effetto ti ha fatto l’uso fatto in Black Mirror di Head Like a Hole, con Miley Cyrus ne canta una versione pop, On a Roll?
Fantastico. È stata un’altra di quelle situazioni in cui poi ti metti lì a vedere come reagiscono le persone. È probabile che anche oggi, nel mio feed di Twitter, ci sarà qualcuno a dirmi incazzato (abbassa il timbro della voce per sembrare scemo, nda): “Non posso crederci che ti sia piaciuta. Venduto del cazzo”. Perché a volte ti rendi conto che ciò che rende una cosa interessante è il contesto, ed è questo il punto.

Com’è nata l’idea?
Detto in poche parole la storia di Black Mirror nasce da una mail di Charlie (Brooker, l’ideatore della serie, nda): “Ehi, ci è venuta questa idea”, con un breve riassunto della trama. “Ci piacerebbe che le canzoni del personaggio fossero in realtà pezzi dei Nine Inch Nails. Sarebbe un problema se li rifacessimo tutti in versione pop zuccheroso?”. “Grande idea”, ho risposto. “Proviamoci.” E l’ho detto per lo stesso motivo per il quale ho lavorato a Watchmen e con Damon Lindelof: sono un fan di Black Mirror. È un tipo di critica sociale di cui c’è un gran bisogno in questo periodo. Per cui, dato che con loro il pezzo era in buone mani, valeva la pena provare. Poi, qualche tempo dopo, mi hanno mandato i demo di On a Roll, e sono rimasto sbalordito da quanto fossero autenticamente pop. Li aveva fatti qualcuno che sapeva il fatto suo. Dava l’idea di qualcosa di alieno, di folle.

Cosa ne pensi del nuovo testo, ad esempio del verso “stoked on ambition and verve” (“euforica per l’ambizione e l’energia”) al posto di “bow down before the one you serve” (“inchinati di fronte a chi servi”)?
È splendidamente assurdo. È un accostamento stupido ma, ripeto, nell’ambito della storia che si raccontava mi sembrava molto divertente. Capisco perché a qualcuno non piaccia, ma se ci si sforza di cogliere il contesto, ha il suo senso. E se uno non lo capisce nemmeno così, beh, pazienza.

Ne hai mai parlato con Miley?
Non di persona, no. Ricordo di aver parlato bene di lei a qualche giornale, e lei ha ricambiato altrove. Ha fatto un gran lavoro, secondo me. È strano sentire una tua canzone passare dentro un frullatore e uscirne in quel modo. Mi ha fatto pensare: “Chissà come sarebbe stata la vita se avessi seguito la strada del pop”. Me lo sono chiesto per tipo dieci secondi.

 

Quest’anno ricorre il trentennale di Pretty Hate Machine. Qual era stata l’ispirazione per l’originale Head Like a Hole?
Era stata composta in poco tempo. Mi sembrava che nel disco mancasse un brano veloce e aggressivo. Pretty Hate Machine era nato trafficando in studio di registrazione a notte fonda. Stavo sveglio fino a tardi, cercavo di capire chi fossi, cosa avessi da dire come autore. E le cose avevano cominciato a saltare fuori. Ricordo che Sanctified e Something I Can Never Have le avevo scritte abbastanza in fretta. Anche Terrible Lie, mi pare.

Poi aveva cominciato a chiarirsi cosa sarebbero potuti essere i Nine Inche Nails. Che cosa volevo dire? Di quali temi avrei potuto parlare in modo autentico? Avevo cominciato tentando di imitare i Clash e facevo schifo perché io non sono i Clash: non avevo nulla di intelligente da dire a livello politico, all’epoca… e non ce l’ho nemmeno ora, per quel che vale. Ma quando riprendevo in mano il mio quaderno e mi rendevo conto di star comunque componendo dei testi, una volta superato lo scoglio del “Non potrei mai dire questa cosa ad alta voce, di fronte ad altre persone”, dentro c’erano dell’autenticità e della sincerità in cui mi sembrava ci si potesse identificare. E ne avevo la prova quando suonavo quei pezzi di fronte a qualcuno: dopo dovevo lasciare la stanza, ma mi rendevo comunque conto che colpivano, in qualche modo. Così si sono poste le primissime basi di quello che speravo sarebbe diventato un album.

Verso la fine, per come la ricordo, mi pareva servisse qualcosa di un po’ più aggressivo, che tirasse fuori per bene le chitarre. E mi pare che Head Like a Hole fosse arrivata in fretta. Si passano mesi a smanettare di alcuni pezzi, mentre altri li si porta a casa in un pomeriggio, e questo è proprio uno di quei brani che nascono così, senza sforzo. Inoltre avevamo avuto i primi segnali che l’etichetta con cui avevamo firmato non era dalla nostra parte. Mi pare che anche questo avesse contribuito. Ma non avevo idea che il pezzo sarebbe diventato quello che è diventato poi.

Coin i Nine Inch Nails a New York, circa 1990. Foto: Larry Busacca/WireImage

 

Quindi già in quel momento il testo della canzone era diretto all’etichetta?
Beh, non espressamente. Era stato uno dei primi brani che avevamo portato allo studio dei Cars, a Boston, col produttore Flood. Poi ero partito per l’Inghilterra per chiudere il resto dell’album con John Fryer. Appena dopo il nostro ritorno, l’etichetta ci aveva detto che il disco faceva schifo. Allora ero tornato in studio a rilavorare su Head Like a Hole. Keith LeBlanc aveva approntato un nuovo mix che funzionava, tirando fuori ancora un po’ di aggressività in più, e quella era la versione che poi è stata pubblicata. Quindi, quando il pubblico l’ha sentita, era il frutto di un ragionamento tipo: “Ok, magari non l’ascolterà mai nessuno perché all’etichetta fa schifo e me l’ha pure detto, per cui vaffanculo, eccola qui”.

In un’intervista del 2011 hai detto che quello di Pretty Hate Machine è stato il periodo più buio della tua vita. Lo vedi ancora così?
È buffo perché a ripensarci oggi magari non sono stati gli anni migliori, ma era comunque un buon momento. Pensando al lato positivo, mi viene in mente l’emozione di quando riesci finalmente a pubblicare un disco, ad avere un gruppo, e ai tuoi concerti in un altre a città comincia a presentarsi gente che non conosci, ci sembrava l’inizio di qualcosa. Non sapevamo cosa, ci spaventava e certo non aveva l’aria di essere una situazione stabile, ma era eccitante sapere che avevamo una possibilità di farci sentire.

Che idea ti faresti della persona che eri in quel periodo, se la incontrassi oggi?
Ottima domanda. Non mi pare che all’epoca, nel periodo di Pretty Hate Machine, fossi tanto diverso da come sono ora. Ero sicuramente più ingenuo, ma se devo pensare alla persona più diversa, più lontana da come credo di essere oggi, sarebbe il me dell’epoca di The Downward Spiral, verso la fine. È il periodo delle droghe e dell’alcol, e della fama. Erano gli anni in cui ero meno riconoscibile. Non ero più sicuro di chi fossi. Avevo cominciato a pensare di essere il tizio di cui leggevo nelle interviste: il personaggio, l’esagerazione di me stesso. Ed ero piuttosto invischiato nell’oscurità. Mi rendevo conto che tutto era provvisorio e che probabilmente non sarei stato in giro ancora per molto, e in qualche modo abbracciavo questa idea, come se ci fosse stato un che di nobile. Ma il tizio di Pretty Hate Machine… quello me lo ricordo bene.

Oggi fai fatica a ritrovarti nelle canzoni di The Downward Spiral?
Il problema non sono le canzoni. Sono diventate una specie di profezia che si autorealizza. Io so chi ero mentre componevo e quel disco è venuto fuori in un certo contesto: non hai un posto in cui vivere, sei in tour ininterrottamente da due anni e mezzo, pieno fino ai capelli di roba chimica, con intorno gente assurda che vuole sempre qualcosa da te e non ti tratta nemmeno più come una persona. (Si ferma, nda) Mi capita spesso di pensare a come sarebbe ritrovarsi in quel corpo solo per un giorno, giusto per ricordarmi come cazzo era. Mi sentivo molto instabile, perduto.

Pensi di esserne uscito nel periodo di The Fragile?
All’epoca di The Fragile il divertimento se n’era andato. Gli effetti collaterali erano tosti, il prezzo da pagare troppo alto. Era un periodo molto cupo, più serio e spaventoso, delicato. Per cui anche la persona che ero negli anni di The Fragile la conosco piuttosto bene. Sono felice di essere uscito da quella fase grazie a quel disco.


Avete suonato dal vivo l’intero album The Downward Spiral in paio di volte, e così pure Broken. Ma non mi pare abbiate mai fatto lo stesso con Pretty Hate Machine o The Fragile. Avete mai preso in considerazione l’idea?
Sono sicuro di no. C’è sempre qualche canzone che non è pensata per rendere dal vivo. Quel tipo di concerto succede un po’ per caso. Per esempio, non avevamo in programma di suonare Broken per intero. A due giorni dalla prima data ho pensato: “Ehi, sappiamo tutte le canzoni tranne questa e quell’altra. Impariamole”. Poi siamo andati in tour e abbiamo visto la reazione del pubblico, ed è stato anche piuttosto divertente: è figo incasinare la scaletta per renderla più interessante per chi ci viene a sentire, e anche per noi.

Chissà se ci riusciremmo con The Fragile. Ci sono otto canzoni che non sappiamo. Per cui magari la prossima volta che andremo in tour faremo un po’ di compiti a casa e proveremo a metterne in piedi qualcuna. Vorrei poter dire che c’è sempre un grande progetto dietro a queste cose, ma di solito è un’idea che arriva quando ormai è troppo tardi per metterla in pratica.

Parliamo di eredità musicale: quest’anno hai presentato i Cure nella serata della loro introduzione nella Rock and Roll Hall of Fame. Voi stessi avete ricevuto una nomination. Partecipare alla cerimonia di quest’anno ti ha portato a vedere la Rock Hall con occhi diversi?
Ogni tot anni ti senti chiedere: “Ehi, avete ricevuto la nomination. Come vi sentite ad essere stati snobbati?”. E non mi sbraccio certo per farne parte. Dovrò sentirmelo chiedere per tutta la vita? Detto questo, comunque, io amo i Cure, e quando mi hanno chiesto di presentarli ho pensato: “Se non lo faccio io lo farà qualcun altro, e devo far sì che loro se la vivano alla grande. Voglio che si trovino bene. Voglio che i Cure entrino nella Rock Hall”.

E quando mi sono presentato lì, seduto fra il pubblico vicino ai ragazzi dei Radiohead, che sono super in gamba, mentre sul palco c’era Bryan Ferry, ho pensato: “Il tutto è anche figo, ma i Cure diranno qualcosa a questo pubblico?”. Poi è toccato a me e mi sono detto: “Porco cazzo, qui tutti li adorano, i Cure!”. È stata una bella sensazione vederli salire su quel palco. Per cui magari non sono il primo a dirlo, ma riconoscerò sempre quando sono stato eccessivamente stronzo su qualcosa: è stata un’esperienza molto figa. Sono felice di averla fatta. Sono felice che i Cure ne facciano parte. Fa piacere ricevere la nomination? Sì, fa piacere. Non si può mai sapere, sai? Mi trovo in uno scontro all’ultimo sangue contro Pat Benatar. Potrebbe essere più assurdo di così? Vi tocca scegliere, ragazzi: o me o Pat, o Whitney Houston.

Scelte difficili.
Esatto. Poi vado avanti e scopro che siamo anche contro i Kraftwerk e i Depeche Mode. Ovvero due gruppi che, senza girarci tanto intorno, in quella lista dovrebbero venire ben prima di noi. Senza di loro non saremmo stati noi. Stesso discorso per Todd Rundgren. È qui che la cosa comincia a diventare… Ok, non so proprio come dovrei sentirmi, capisci?

A sentirti si direbbe che voterai per chiunque tranne che per te.
Col cazzo. Certo che voterò per me (ride, nda).

State lavorando a qualche nuova canzone dei Nine Inche Nails in questo periodo?
Al momento stiamo ancora finendo Watchmen, e c’è anche il film della Pixar. Abbiamo in mente qualche progetto per i Nine Inch Nails, ma non ci siamo ancora messi perché praticamente ogni minuto delle nostre giornate, negli ultimi mesi, è stato assorbito dalle colonne sonore. Ma l’idea è di fare qualcosa di nuovo, sì.


È strano lavorare a un film della Pixar?
Anni fa avevo letto da qualche parte di uno tipo Robert De Niro – ma magari non era lui o non l’ha detto – a cui avevano chiesto: “Che ne pensi del film che state girando?”. E lui: “Non ho visto il risultato finale. Io non lavoro per quello. Lavoro per il processo che porta a quello”. Mi era sembrata un’idea strana. Ma poi, occupandomi di queste colonne sonore, ho scoperto che per noi non conta tanto come andrà al botteghino o che punteggio avrà su Rotten Tomatoes. Se il prodotto va bene è una soddisfazione. Ma stare in trincea, collaborare con persone nuove, imparando da loro, combattendo con loro, cercando di capire cosa vogliono, è quella la parte eccitante, specialmente se sei con qualcuno con cui ti trovi bene. Come con Damon Lindelof.

A un certo punto ci hanno chiesto: “Vi interesserebbe lavorare a un film di animazione della Pixar?”. Ma certo, non penso che ci sia in giro qualcuno meglio di loro, in quel campo. E così siamo finiti a incontrare [il responsabile del dipartimento creativo della Pixar] Pete Docter, ed è proprio il tipo che speravamo fosse. Quello che stiamo facendo è un lavoro molto genuino, molto appassionante e molto molto diverso da qualsiasi altra cosa abbiamo fatto prima, dal modo in cui si pongono a come pensano al prodotto. E noi siamo una scelta azzardata per loro, il che lo rende molto allettante. Siamo in grado di fare una cosa del genere? Significa per noi uscire dalla nostra comfort zone. Siamo ancora agli inizi, ma finora è stato davvero figo.

Magari il pubblico scoprirà un pezzo come Closer dal vostro lavoro con la Pixar.
Chissà. Magari riusciremo a contaminarli, a renderli un po’ più dark.

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