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Tornano i Suede e piacciono ancora

Una delle band simbolo del britpop esce con il nuovo album “Night Thoughts”. Un vero atto militante: «Siamo in sintonia con i 18enni che comprano vinili, non con i gruppi che si adeguano alle radio»
Brett Anderson degli Suede a Tel Aviv, foto Guy Prives/Redferns

Brett Anderson degli Suede a Tel Aviv, foto Guy Prives/Redferns

Basta l’ouverture dell’iniziale When You Are Young, gotica e solenne, per mandare un segnale preciso. Con Night Thoughts i Suede hanno voluto fare un disco alla vecchia maniera, con tanti saluti a questo decennio. Sarebbe impossibile datare questo lavoro, ma è facilissimo riconoscere il loro stile, ancora prima della voce di Brett Anderson, frontman e principale autore delle canzoni. Come sostiene Mat Osman, bassista e fondatore, «anche se facessimo solo cover, suonerebbero sempre come pezzi dei Suede». Non è spacconeria: i 12 nuovi brani hanno tutti quel sound inequivocabile; quello di uno dei gruppi che ha tracciato la via per moltissime band successive. Ivi compresa la tendenza ai conflitti interni, e all’autodistruzione. E alla rinascita. Il disco, testato in anteprima dal vivo a novembre, ha mandato i fan in visibilio: apparentemente i Suede hanno ancora una forte fan base, cui si stanno aggiungendo teenager attratti da una band che fin dal debutto nei primi anni ’90 si faceva carico del compito di rivitalizzare un rock vintage, con marcati accenti bowiani.

E nonostante qualche fase di concessione al pop nei decenni passati, oggi Night Thoughts viene proposto quasi come un atto militante. «È la nostra reazione a chi dice che l’album è morto. In un momento in cui i ragazzi di 18 anni comprano i vinili perché vogliono sentire un disco prestandogli la dovuta attenzione, abbiamo capito che siamo più in sintonia con loro che con quei gruppi che cercano di adeguarsi alle dinamiche del pop, ai pezzi usa-e-getta con il ritornello e il gancio nei primi 30 secondi. Con il nostro disco precedente (Bloodsports, ndr), tre anni fa, siamo entrati nella top ten britannica praticamente senza ascolti radiofonici, il che ci ha fatto capire che a questo punto della storia della band possiamo fare quello che ci piace, abbiamo un uditorio attento e interessato. Ed è bello saperlo».

Sembrerebbero riflessioni da band matura e tranquilla. Chissà se è possibile, dopo una storia che annovera ogni tipo di svolta repentina, fin da quando il loro manager era il comico Ricky Gervais, non ancora diventato una star. Dalla tastierista Justine Frischmann buttata fuori dal gruppo per gelosia (lasciato Anderson, si era messa con Damon Albarn dei Blur) agli scambi di sciabolate via intervista in perfetto stile Jagger-Richards tra Brett Anderson e Bernard Butler, i due principali compositori del gruppo; dagli addii al veleno alle riconciliazioni cuoriciose, dalle faide con gli altri gruppi alla droga. Tanta, anche. «Dire che oggi siamo più tranquilli contiene qualche briciola di verità, ma c’è sempre un elemento di totale rischio quando diventiamo i Suede. Anche solo quando saliamo sul palco. Un vantaggio di avere una storia alle spalle però c’è, ed è il fatto che non dobbiamo cercare attenzione a ogni costo».

Quando avevano vent’anni, la vita non era comunque facile per Brett Anderson, Mat Osman, il batterista Simon Gilbert e Bernard Butler, che in piena fase di ascesa commerciale del gruppo si sarebbe ritrovato estromesso (fisicamente, con le chitarre buttate in mezzo alla strada) dai Suede. «Eravamo difficili da ignorare: siamo stati da subito il tipo di gruppo che fa molto discutere. Forse c’entrava anche il fatto che eravamo tutti dei provinciali a Londra. La gente ci amava o ci odiava. Non è da trascurare che siamo stati i primi a essere messi in copertina dalle riviste musicali con la scritta “The next big thing”. Poi hanno iniziato a farlo un mese sì e uno no». L’idea di britpop cominciò a formarsi nella loro scia, a causa della loro evidente predilezione per la musica del loro Paese. «I critici americani, e anche alcuni dei nostri connazionali, dicevano che eravamo ossessionati dalla cultura britannica. In realtà ci è sempre sembrato di affondare le radici non solo nella storia musicale del Regno Unito, ma in quella di tutta Europa. In ogni caso, ci hanno sempre fatto un sacco di critiche surreali. Per esempio, all’inizio, quella di essere furbi e di fare le nostre scelte in base a dei calcoli. Eppure, se c’è qualcosa che siamo riusciti a dimostrare nel tempo, è che possiamo essere tutto, meno che furbi…».

Questo articolo è pubblicato su Rolling Stone di gennaio.
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