Tiziano Ferro, senza fine | Rolling Stone Italia
Cover Story

Tiziano Ferro
Senza fine

Ha rischiato di perdere la voce e se stesso, e ora lo canta nell’album ‘Sono un grande’. La sua storia continua con una nuova etichetta, un nuovo management, una nuova consapevolezza. «Mettersi una maschera non serve a niente»

Foto: Andrea Bianchera

Tiziano Ferro parla come uno che ha attraversato un inferno e ne è uscito con la voce spezzata, ma ancora in grado di parlare al pubblico. Dopo 25 anni di carriera, nove album, oltre 20 milioni di dischi venduti, si presenta come un uomo che ha smesso di fingere. Ammette di essere una persona perennemente insoddisfatta e spiega che la ricerca della perfezione può essere un veleno. Il suo perfezionismo non si placa mai, ma ha imparato che la salute mentale è fondamentale.

Nel titolo del nuovo disco Sono un grande che uscirà domani non c’è presunzione. È un mantra contro la paura: «I dottori sostenevano che non avrei potuto farcela o, ancora peggio, che sarei stato costretto a smettere di cantare». Eppure, rieccolo a trasformare le fragilità in emozioni. La musica «è una sorta di missione», spiega con la calma di chi sembra aver scoperto una via d’uscita dal caos. Così «il match di pugilato continuo tra il me malato di fama e il me malato di anonimato» è diventato carburante creativo, materia viva di un album dove il suono è in perfetto equilibrio tra le origini R&B e produzioni contemporanee. Ma, ancor di più, i testi contengono l’urgenza di chi non si sente più costretto a piacere a tutti e può scrollarsi di dosso le logiche tossiche della discografia: «Mi dicevano: “Stai male?”. Rispondevo: “Non riesco a parlare”. E loro: “Un’iniezione e via sul palco”».

Ora che ha rischiato di perdere la voce e se stesso, nei nuovi 11 brani (più una bonus track) si è spogliato di tutto: «Ho imparato che indossare una maschera non serve a niente». Torna con una nuova etichetta (Sugar), un nuovo management (Paola Zukar) e una visione chiara del suo destino: «Non ho paura delle critiche, ma dei falsi applausi». E dopo essersi curato le cicatrici private e smentito che sarà a Sanremo 2026 («In gara con Madame? Non ho presentato nessuna canzone»), Tiziano Ferro non vuole più essere perfetto, vuole essere vero: «Il dolore si è trasformato in un tesoro». Per vederlo live non c’è molto da attendere: oggi, 23 ottobre, lo presenterà dal vivo al launch party che fa parte del nuovo progetto di TIM New Music Night, il format musicale che accende i riflettori sui party di release, trasmettendoli in diretta su TimVision. Tornerà poi negli stadi nel 2026 con dieci date nelle principali città italiane.

Come ci si sente, dopo 25 anni, a pubblicare un disco così intimo?
Bene, perché mi sento nel posto giusto. E soprattutto con le persone giuste.

La musica ha sempre scandito la tua vita, nel bene e nel male. Chi sei oggi?
Una persona più realista, un padre integerrimo, un grande sostenitore della disciplina nella vita, sia da parte degli altri verso di me, sia da parte mia verso gli altri. Sono un uomo innamorato perdutamente del mio lavoro, ma anche una persona perennemente insoddisfatta. 

Perché sei perennemente insoddisfatto?
Ho imparato che l’insoddisfazione è legata al mio perfezionismo. Non posso dirti che sono insoddisfatto perché avrei voluto questo disco diverso, però sento sempre che manca qualcosa. Quella cosa lì ho capito che devo lasciarla in sospeso perché prenderà forma nel prossimo disco.

È il demone del perfezionismo?
È complesso liberarsi di questo maledetto demone. 

Sono un grande è un titolo che a prima vista potrebbe sembrare presuntuoso. Invece, come si comprende ascoltando il disco, è un monito che fai a te stesso e agli altri.
Non c’è presunzione, dirsi «sono un grande» è un mantra. Come quando tenti di iniziare una giornata al meglio e ti dici: oggi sarà un bel giorno, stavolta sarà migliore… Credo molto nella psicanalisi, come nella capacità di esprimere a voce concetti che non dico possano materializzarsi, ma perlomeno predisporti nel modo migliore. Se è vero che la voce ha un peso, come insegnano gli psicologi, io me lo voglio dire Sei un grande. Perché è giusto, corretto e dovuto guardarsi allo specchio e prendersi i meriti di alcune cose riuscite bene.

Ha funzionato?
Sì, ma non perché abbia bisogno di attaccarmi delle medaglie al petto. È una questione di salute mentale. Se crediamo in noi stessi, non possiamo essere considerati degli arroganti: ogni tanto bisogna riconoscersi delle capacità. Conta anche la fortuna, se sai investire nel momento giusto nelle cose giuste. In fondo, arrivi al primo posto in classifica se giochi meglio di tutti, no? È una condizione scomodissima, melliflua e imprevedibile, però mi piace l’idea che essere un grande sia un’opzione. L’importante è non commettere l’errore di sentirsi grandi e basta. Io parto da una condizione di insicurezza, ma almeno recito il mantra: «Sono un grande, sono un grande, sono un grande…». Anche soltanto per cucinare la pasta. Se neanche tu ci credi, allora il meglio non verrà mai.

Vivere negli Stati Uniti aiuta a credere di più in se stessi?
Sicuramente sì, anche se in America parliamo di artisti con numeri molto più importanti. Io mi do semplicemente la possibilità di considerare l’opzione che ci sia una capacità dietro a un risultato. Infatti canto: “Perché se non sono ancora morto / Sarà per caso, sarà per torto / Oppure sarà perché sono un grande / E non me ne sono mai accorto”.

«Non riuscivo neanche a parlare, ma mi dicevano: un’iniezione e via sul palco»

Hai detto che il disco è frutto di tutto quello che ti è accaduto negli ultimi due anni. Facciamo finta che la domanda venga da chi, in questo lasso di tempo, ha vissuto in una bolla e non conosce ciò che scrivono i giornali: come gli spiegheresti cosa ti è accaduto? 
Nel 2023 ho fatto il tour del mio precedente disco mentre mio padre era in chemio per la prostata. Io avevo un nodulo alle corde vocali, che è come per un calciatore avere un tendine lesionato e giocare comunque tutto il campionato. Mi stavo allontanando da mio marito, infatti ne è seguito un divorzio. Nel frattempo ho proseguito un tour piuttosto intenso.

Guardandoti indietro rifaresti tutto, oppure c’è qualcosa che cambieresti?
Bisogna guardare ogni cosa dalla giusta prospettiva. Ho fatto tutto bene o qualcosa anche male? Alcune cose le avrei fatte meglio. Per esempio, se non avessi avuto il nodulo alle corde vocali avrei cantato meglio. È una condizione che mi avrebbe potuto portare a smettere di cantare. L’importante è guardarsi allo specchio e non essere né troppo gentili, né troppo critici. Ma stavolta me lo dico: Tiziano, hai esagerato, così non è giusto, la prossima volta prenditi più cura di te. La differenza oggi la fa anche l’età.

A 45 anni cosa cambia?
Fino a qualche tempo fa ero più magnanimo con me stesso. Mi perdonavo di più. È vero che me ne frego anche di certe cose e faccio meno rispetto al passato, concentrandomi di più solo sulle persone che contano. Il pubblico, per esempio, mi è stato vicino. Potrei condurre uno studio scientifico su come il supporto del pubblico ti sostiene anche fisicamente. 

Anche per la voce?
I migliori foniatri italiani e internazionali mi dicevano: «Tiziano, fermati!». Ma non potevo fermarmi, perché erano i concerti che non ho potuto fare nel 2020-21 a causa della pandemia. Ho restituito i biglietti a chi l’ha richiesto, sono arrivato nel 2023 che le prenotazioni erano persino aumentate (sono state 570mila, nda) e non mi sono concesso alcuna possibilità di cadere nell’autocommiserazione. Lì, in qualche modo, il corpo ha sentito quel supporto. Perché fisicamente non potevo cantare. Tutti i dottori sostenevano che non avrei potuto farcela o, ancora peggio, che sarei stato costretto a smettere di cantare.

Questa generosità si paga una volta scesi dal palco?
Purtroppo sì, c’era il divorzio che mi aspettava… È stato duro, ma diciamocelo: la vita è vita. Non faccio il mestiere dell’impiegato, me lo porto a casa. È una sorta di missione, a un certo punto non lo fai per nient’altro. Non è per i soldi, non è per la fama, ne ho avuti abbastanza. Lo faccio perché ci tengo alla musica, perché sento che è quello che devo fare, perché sono stato chiamato a fare questo. Quindi è stata dura attraversare tutto, ma utile perché quell’esperienza è diventata il disco.

Foto: Andrea Bianchera

È un disco particolarmente sincero, tanto che alcune canzoni non avresti voluto inserirle.
Perché dentro ci sono le persone che mi hanno sostenuto, i miei figli, mia nipote appena nata, il pugilato continuo tra il me malato di fama e l’altro me malato di anonimato. L’avere tanti soldi, il perdere tanti soldi, perché l’Agenzia delle Entrate te li pignora e poi chissà se e come te li restituisce. Io che mi vedo prima troppo dimagrito e poi troppo ingrassato. Gli amici che non mi invitano in vacanza perché sanno che ho sempre troppo da fare. Questi sono tutti pensieri che è importante mettere sulla bilancia. Ma una cosa è certa: se hai la fortuna di farlo per mestiere, devi essere vero.

In Fingo & spingo canti: “Fingo e spingo / E tutti mi convincono / Che se fingo ancora / Un giorno sembrerà normale rimanere muto / Se non hai speranza / Perché chiedi aiuto?”. È una critica, neanche tanto velata, alla discografia da cui ti sei staccato?
È una critica a una certa discografia. Mi dicevano: «Dài, continua così. Stai male? Ok, ma dài che ce la fai». Rispondevo: «Ma non riesco a parlare». E loro: «Un’iniezione e via sul palco». È chiaro che, in quei momenti, devi capire quando è il caso di fare quell’iniezione, se hai di fronte una data molto importante, e quando è invece il momento di fermarti un attimo e prenderti cura di te. Perché quando danneggi il tuo strumento, la voce, poi non sempre puoi tornare indietro. Sono stato un po’ incosciente, ma non potevo rimandare ancora, mi aspettavano da sei anni. Diciamo che è tutta esperienza. E, come tutte le esperienze di questo tipo, devi assicurarti di avere un’àncora di salvezza pronta. Prima o poi sai che cadrai, però si impara anche a cadere. 

E si impara anche a rialzarsi?
Lì ho imparato che indossare una maschera non serve a niente. A un mio concerto vedo ragazzini di 12 anni e signore di 60, e mi sento sinceramente in obbligo nei loro confronti di mettercela tutta. Poi, però, c’è un momento nel quale se non ce la fai devi riconoscere che non ce la fai. Ma se racconti il perché, con sincerità, la gente capisce.

L’hai definito un album terapeutico. Sembra esserci un ritorno della musica come terapia.
Le persone non sono stupide. Se dài loro la possibilità di capire, capiscono. L’importante è che tu sia coerente. Però devi anche prenderti la responsabilità di essere sempre quello, senza maschere. Te ne racconto una: la mia psicanalista americana è venuta all’ultimo tour nella data di Firenze, perché era in vacanza. Lei mi sente parlare dei miei problemi dal 2017, sa che lavoro faccio, ma non parla italiano, e vedere esibirsi qualcuno sul web non è come essere fisicamente allo stadio. Dopo lo spettacolo, anche se non ha capito cosa cantavo e cosa dicevo al pubblico, mi ha fatto notare qualcosa che mi ha colpito: «Quella sera mi guardavo attorno e vedevo giovani e meno giovani che, oltre a cantare ogni tua canzone, ti ascoltavano con un’attenzione che non ho mai visto con persone che fanno il tuo stesso lavoro». È un privilegio. Come cantava Marco Masini: la loro religione è di credere ai cantanti. E aveva ragione.

Ora sembri aver ritrovato la serenità anche grazie al cambio di etichetta, la Sugar, e di management, con Paola Zukar. Cosa ti hanno dato che prima ti mancava?
Prima di tutto le loro opinioni. Io e Paola non avevamo mai lavorato assieme e spero che abbia trovato in me una persona pronta ad ascoltare. Io non ho mandato via nessuno, voglio vedermi attraverso nuovi occhi. Fatemi vedere quello che vedete, perché magari scopro cose nuove che mi piacciono ancora più di prima. Ammetto che mi fa paura, perché non conosco più nessuno. Però, piano piano, più ti fidi e più scopri che, anche facendo un passo nel buio, si crea una sinergia. Io oggi finalmente, con questa squadra, non ho paura delle critiche, ma dei falsi applausi.

Con Mara Maionchi e Alberto Salerno, produttori dei tuoi primi album, vi siete chiariti? Perché lo scorso anno, tra botta e risposta, c’è stata molta confusione
Non ci siamo chiariti e non è necessario farlo. Mi hanno dato fiducia quando ero giovanissimo e ai tempi hanno ritenuto sbagliate alcune caratteristiche del mio aspetto fisico. Per cui hanno fatto in modo di cambiarle, ma devo ammetterlo: è stata colpa mia, non loro. Io ero troppo giovane per oppormi a dei magnati della musica come loro. Non riuscivo a seguire una dieta, e in quel momento o facevo una dieta o non facevo musica. Sono passato dalla bulimia all’anoressia perdendo molti chili. Loro hanno ritenuto che il dimagrimento fosse diretta conseguenza del dietologo dal quale mi hanno portato, in realtà avevo solo cambiato il tipo di disordine alimentare. Ma vedere felici persone così importanti non mi sembrava vero. Al tempo era l’unica condizione che mi separava da un disco. Non ho fatto nomi o raccontato episodi precisi, ma oggi avrei affrontato tutto in maniera diversa. Solo che ero piccolo per prendere certe decisioni. Non avevo scelta, ma adesso il mondo è cambiato, per fortuna. 

Torniamo al disco. Dal punto di vista musicale c’è un ritorno alle tue origini, tra l’anima soul e i ritmi R&B, ma con produzioni molto attuali, persino con influenze trap.
Il primo singolo Cuore rotto è indicativo. È l’esempio di come il suono diventa testo. A un certo punto lascio parlare solo il cuore. Per dire: quanto più in giù devo scavare per dirvi la verità, persino togliendo le parole e facendo parlare soltanto il suono del mio cuore rotto? Mi piacciono la spudorata verità di queste canzoni e il fatto che a 45 anni non mi faccio problemi a non seguire le regole del pop utili a passare in radio. Cerco di inventare qualcosa che non suoni come tutto il resto. Mi fa schifo l’idea di essere famoso per qualcosa che non mi piace. Preferisco proporre qualcosa che mi gasi, anche se avrà meno successo. Se, però, in ciò in cui credi ci metti la cazzimma, è più facile che quel deragliamento possa trasformarsi in un nuovo binario da seguire. 

Quali di questi deragliamenti musicali ti rendono più fiero nel disco?
Ci sono molti aspetti che mi rendono fiero, soprattutto certe soluzioni inserite da Zef e Bias che sono da fuori di testa. Hanno portato avanti un lavoro, in un certo senso, da innovatori. Ci sono tante produzioni in questo disco che potrebbero andare in radio negli Stati Uniti senza nessun problema. Sono rimasto scioccato dalla loro naturale bravura, e sinceramente credo che molto presto li ritroveremo a produrre brani di Lady Gaga.

Sembri aver instaurato un rapporto speciale anche con il produttore Marco Sonzini, che è uno dei primi ai quali fai ascoltare qualcosa.
Marco lo considero come un fratello. È la prima persona che acchiappa le mie canzoni. Se scrivo qualcosa, lo chiamo e mi aiuta a fissare quello che ho realizzato. Anche se glielo giro con una base ancora traballante, gli dona un vestito utile a entrare in studio a registrare.

È grazie a questa attenzione nella produzione che, per esempio, un brano come Gioia, dedicato a tua nipote, suona in modo così confidenziale pur rimanendo ballabile?
Questa è una delle canzoni che più mi hanno stupito, per come è stata prodotta. Ha un sound internazionale. Quanto all’intimità, ho un senso della famiglia molto spiccato, non solo dopo essere diventato padre. Sono molto legato a mio fratello, la famiglia è fondamentale. È chiaro che per i miei figli l’amore è incommensurabile, però essere zio ha un valore altrettanto importante, anche se diverso. Sei una sorta di portatore sano di affetto, di gioco, di gioia appunto, ma senza la stretta disciplina che dedichi ai figli. Tengo tanto alla disciplina e ci sto molto attento. Con mia nipote questo aspetto un po’ cambia. Diventare zio è stato un evento splendido, ha rappresentato tantissimo nell’ultimo anno.

Milite ignoto, invece, è una delle canzoni più potenti e attuali del disco: “Parlano nessuno ormai ascolta più / E non rimane un cazzo se non sei nessuno / Di mille volti noti se n’è spento a caso uno”.
È la prima canzone nata per il disco. Non è facile basare un pezzo su una metafora, soprattutto come il milite ignoto. Quest’uomo al quale viene dedicato un monumento, perché ha fatto qualcosa di importante ma senza sapere chi era. Ma non sappiamo neanche se quello che ha fatto è eroico, per alcune ricostruzioni sì, per altre no. Così un artista è come un soldato che usa, con grande fierezza, le armi a propria disposizione: la penna e la voce. Io sono fiero di andare sul palco. Invece, ogni tanto, ti ritorna contro. Milite ignoto parla dei momenti di depressione e di quel messaggio che ti sembrava estremamente forte, ma che poi ti riporta ad andare giù. È sicuramente una delle canzoni che mi rappresentano di più.

Foto: Andrea Bianchera

Dalla depressione agli attacchi di panico. In 1-2-3 citi la tecnica di contare per farli passare. Ti è mai successo in pubblico di averne uno?
Grazie a Dio non mi è mai capitato in pubblico, anche perché è difficile da gestire. Mi è successo qualcosa di simile a Tijuana in Messico dopo essermi lussato il braccio durante un concerto. Sono stato costretto a operarmi alla spalla. Di solito gli attacchi di panico sono figli dei momenti di isolamento, durante i quali la mente si autoalimenta. Forse se non mi fossero capitati quando ero solo, sarei riuscito a fermarli molto prima. Comunque, ho voluto parlarne perché spesso si utilizza l’espressione salute mentale, ma si entra poco nel merito. Mi piaceva l’idea di allargare il discorso, mettermi a disposizione per parlare di cure e rimedi, più che di problemi.

Curiosa anche la scelta di affidare Tra le mani un cuore a Massimo Ranieri, che l’ha portata a Sanremo 2025. Ora la riproponi nella tua versione come bonus track.
Quando il signor Massimo Ranieri chiama ci si deve mettere sull’attenti. Lo rispetto e lo ringrazio perché sono andato a lezione da lui e devo riconoscere che non sarei mai diventato quello che sono senza ciò che mi ha insegnato. Ho scelto Tra le mani un cuore, che ha portato a Sanremo, perché non mi sarei mai permesso di dargli un brano minore. E sono stato felice che l’abbia accettato. L’ho anche chiamato per avvisarlo che lo avrei inserito come bonus track del disco fisico, anche se non c’era bisogno di una mia versione, perché quella di Massimo Ranieri rimane la prima e unica versione ufficiale.

E, sempre per via delle curiosità contenute in questo disco, in Quello che si voleva hai inserito l’inciso di La vita che si voleva di Chiara Galiazzo.
Ho sempre ascoltato tanto anche i giovani, perché come io sono stato ascoltato e mi è stata data una credibilità, cerco di farlo anch’io con chi apprezzo. In questo Los Angeles aiuta, perché il lavoro della musica qui viene portato avanti da tutti, che tu abbia ricevuto mille premi o tu sia un esordiente, come se fossimo tutti sullo stesso piano. Credo che sia un atteggiamento sano, che fa bene sia a te, sia a chi ti sta attorno. La canzone di Chiara mi aveva colpito, avrei voluto farne una cover, invece l’ho inserita in questo contesto perché mi sembra di riuscire ad esaltarla ancora meglio. Lei è stata dolcissima, mi ha detto che è già la sua canzone preferita, che quel brano non aveva avuto fortuna perché era uscito durante la pandemia, che si sente onorata che io gli abbia dato un’altra opportunità.

Non mancano canzoni dedicate ai tuoi bambini come Le Ppiace per tua figlia Margherita. L’altro tuo figlio si chiama Andrés. Nel 2019 hai detto che se non fosse stato per la famiglia, «non so se vivrei ancora in America. Mi manca l’Europa, che per me rimane il continente più figo del mondo». Dopo il divorzio, hai pensato di tornare?
Per il momento no, perché non voglio togliere un tutore ai miei bambini. Se tornassi in Italia perderebbero Victor, il mio ex marito, una delle due persone che possono prendersi cura di loro. Voglio mantenere questa condizione, però mi piace la vita in Europa. Sono rimasto a Los Angeles perché la custodia che ho dei figli, che è totalmente mia, permette anche a Victor delle visite e lo faccio perché voglio che ci sia armonia e gioia tra di noi, anche se non siamo più una famiglia unita. Quando deciderò di cambiare, sarà importante non danneggiare i figli. E sarà in un posto dove sia io che Victor potremo accudirli. Purtroppo, al momento, in Italia non è possibile.

Nel 2023 hai criticato il disegno di legge del governo che identificava la maternità surrogata come un crimine. Nel 2024 è diventato legge e «reato universale».
Ormai c’è poco da dire, non posso farci nulla. Da padre, l’unico diritto che ho è di difendere i miei figli, e siccome posso farlo lo faccio. Per farlo, ahimè, li porto a vivere in posti dove hanno più possibilità di avere persone intorno che li supportino in tutto quello che serve.

«Il dolore si è trasformato in un tesoro»

Ora riabbraccerai il tuo pubblico, anche con brani nuovi come Meritiamo di più, che sembra un pezzo perfetto da cantare dal vivo. Primo appuntamento stasera, con il launch party e il format TIM New Music Night, e poi negli STADI26 con dieci date nelle principali città italiane.
Il pubblico per me è tutto, perché mi ha insegnato a perdonare, a capire, a comprendere, ad andare oltre le apparenze, a trovare nuova linfa, e ogni volta che torno ritrovo sempre tantissima gente pronta ad ascoltarmi. Lo ripeto: ti rendi conto del privilegio? Dobbiamo ricordarcelo, noi artisti, che viviamo sapendo che ci sono tantissime persone pronte ad ascoltarci, quando invece molte di loro vivono nell’indifferenza più assoluta. Questo lo trovo bellissimo. Il loro supporto nei miei confronti è stato reale, si può toccare, e sono molto geloso di questo rapporto. Quindi voglio fare di tutto affinché rimanga tale, cioè speciale.

Guardando indietro, dopo oltre 20 milioni di dischi venduti e 25 anni di carriera, il Tiziano di oggi cosa direbbe al Tiziano ventenne che muoveva i primi passi nella musica?
Di avere pazienza, arrabbiarsi meno, e continuare a canalizzare la rabbia, il risentimento, le aspettative e le ore nella scrittura sui quaderni dove sono nate le prime canzoni e melodie. E gli direi di guardarsi sempre attorno, senza però sperare di trovare pace. Perché non l’avrebbe trovata. Ma di proseguire nell’utilizzare quella mancanza come un’opportunità. Perché, alla fine, capitalizzando quel dolore si sarebbe trasformato in un tesoro e ne sarebbe valsa la pena. 

Ci salutiamo, ma ci rivediamo a Sanremo 2026?
No, non ho niente contro Sanremo. Mi piace, lo guardo, mi diverte, ma non abbiamo presentato nessuna canzone. Hanno messo in giro queste voci che, per quel che mi riguarda, sono senza fondamento. Addirittura hanno ipotizzato che sarei in gara in duo con Madame. Capisco che sparino negli articoli dei nomi cliccabili, un po’ come con il Calciomercato e gli acquisti che spesso si rivelano falsi, e infatti questa volta non ci hanno preso.

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