Rolling Stone Italia

Tiziano Ferro: «L’unica cosa che vi devo è la verità. Poi fatene quello che volete»

Tiziano è nel mezzo di un tour trionfale negli stadi italiani. Ci ha raccontato la sua intimità e la sua voglia di “non esserci sempre”

Tiziano fotografato da Giovanni Gastel

Tiziano legge i miei libri, io ascolto i suoi dischi, come tutti. Ci siamo scritti mail e messaggi, ma ci siamo incontrati per la prima volta durante questa intervista. Di persona, alla vigilia di un nuovo tour negli stadi italiani, Tiziano Ferro sembra aver messo a punto una forma di riservatezza socievole che per lui funziona molto bene. Parla e ride tanto, però mi guarda poco negli occhi, e spesso cerca un contatto con l’ufficio stampa e il manager che assistono alla nostra chiacchierata. Detto ciò, sempre e comunque: avercene. Quanto segue è il riassunto delle due ore passate ad affrontare con lui grandi e piccoli temi.

Tiziano Ferro, 37 anni. Foto di Giovanni Gastel, abiti Dolce e Gabbana

Sulla felicità e l’infelicità nello scrivere canzoni.
La retorica dello scrittore vuole che l’infelicità sia il carburante numero uno. In realtà non sono d’accordo. Quando siamo felici non abbiamo il tempo di fermarci a contemplare quello che proviamo, quindi siamo più pigri e più dediti a goderci il momento, ma non è che la felicità sia meno d’ispirazione. Solo che, quando io sono triste o in difficoltà, reagisco con l’isolamento, che per me è legato alla scrittura. La felicità, essendo per me una cosa un po’ strana, anche rara, è un momento di connessione: non ti fermi a scrivere. Però ho scoperto che nella felicità e in quel tipo di follia c’è molta ispirazione. Raffaella è mia è stata una canzone di puro cazzeggio.

Il problema più grande è che le persone sono molto più disposte ad ascoltare le canzoni tristi. Molto spesso le persone mi utilizzano come “mezzo di trasporto” per quello che non sanno o non vogliono dire, allora le canzoni che ricordano più facilmente sono quelle legate a un mondo di dolore. È quello di cui hanno bisogno loro. Io ti sfido: facciamo una gara tra le canzoni mie tristi e quelle ballabili, e ti giuro che almeno le pareggiamo. Per una triste che mi dai tu, io te ne do una altrettanto allegra.

Tiziano fotografato da Giovanni Gastel

Sull’amore assoluto che provano i fan per te.
Io racconto la mia vita in maniera abbastanza trasparente, e quando dico “abbastanza” intendo del tutto. Per cui c’è questa sorta di giuramento implicito: l’unica cosa che vi devo è continuare a dirvi la verità. E poi, voi, fatene quello che volete. La cosa più bella e più importante dell’andare in tour è creare questo momento di intimità con le persone, perché per me l’intimità non è lo stare da soli in una stanza, è l’avere la disponibilità all’ascolto. Quindi, anche in uno stadio si può essere intimi. Io in un disco, quando sento di aver detto tutto quello che volevo dire, proprio come lo volevo dire… ecco, allora sì, il disco è finito. Però, quando ancora ho quella sorta di micro-senso di colpa, la notte, che non mi fa sentire a posto, è perché so che sono pigro e che quella strofa di quella canzone poteva essere un po’ più chiara. Questo atteggiamento, secondo me, i fan lo capiscono.

Sulle interviste degli altri.
Il peggio è quando dicono: “Il mio difetto più grande? Sono troppo buono, mi do troppo alle persone”… Ma vaffanculo, va’.

Io racconto la mia vita in maniera abbastanza trasparente. L’unica cosa che vi devo è continuare a dirvi la verità. E poi, voi, fatene quello che volete

Sull’essere “autentici” nell’epoca dei social.
La sincerità non è il dirsi tutto in faccia sempre. La sincerità è trovare il modo e i tempi di dire le cose, e anche tenersi le cose che non sono necessarie. Ad esempio, io sono pochissimo sui social network. Ci sono perché non sono pazzo, ma ho delle piattaforme che non gestisco io ufficialmente, le persone lo sanno, quando scrivo io un messaggio è perché ho qualcosa da dare o da mostrare, quindi lo firmo io, ma succede sei volte l’anno. Non vivo della smania di pensare che per essere sincero mi devi veder girare il sugo questa sera e domani farmi il bagno con la schiuma fino al mento. La sincerità è guardare il mio pubblico e dire, anche nel 2017, io non uso i social network, mi dispiace, però quello che ascoltate nei dischi e nelle canzoni mi prosciuga e per me è abbastanza.

Se non facessi così, non sarei a mio agio. Probabilmente do modo alle persone di scegliere di rispettarmi, invece di seguire la tendenza perché voglio compiacere, ma farlo in modo un po’ rabbiosetto. Se io fossi nato l’anno scorso come artista, questo discorso non avrebbe neanche senso, avrei capito benissimo di doverlo fare… Quando iniziò il nonno dei social che fu MySpace io fui il primo ad aprirlo. Ero gasatissimo, accettavo le amicizie, mi occupavo di tutto… Ne sono uscito dopo quattro-cinque mesi distrutto psicologicamente, vittima dell’unico messaggio bruttissimo in mezzo a mille messaggi bellissimi, depresso dalla mania di alcune persone di localizzarti nel tempo e nello spazio.

Quando poi i social sono diventati quello che sono diventati, io ho detto no, mi rifiuto. A oggi non ho mai visto la schermata di Twitter. Mentre Facebook c’ho provato, da privato, e non mi ha divertito, ne ho previsto la pericolosità per la mia salute mentale. Sono felice di aver mantenuto questa linea. Però vi giuro e vi spergiuro che in ogni disco ci sarà fino all’ultimo milligrammo di esperienza degli ultimi due anni, di sangue, di lacrime, di risate…. c’è tutto, ve lo giuro.

Tiziano fotografato da Giovanni Gastel

Sul paradosso dell’essere una superstar gay in un Paese abbastanza omofobo.
O noi non capiamo nulla, io e te, oppure quando mi trovo due sere di seguito San Siro pieno io mi chiedo, ma tutti ’sti omofobi dove stanno? Novantamila persone a Milano vuol dire una percentuale molto grande, quindi dov’è l’inghippo, cos’è che non capisco? Mi è successo anche che dei politici molto a sfavore delle unioni civili mi chiedessero i biglietti per i miei concerti… C’è un’atmosfera di grande ipocrisia. Nessuno nasce omofobo, nessuno nasce razzista, nessuno nasce intollerante verso le diversità, però ci sentiamo obbligati ad appartenere a una casta, a catalogarci.

A oggi non ho mai visto la schermata di Twitter. Ho provato Facebook e non mi ha divertito, ne ho previsto la pericolosità per la mia salute mentale

Anch’io sono sorpreso dalla realtà, ma la mia vita mi dimostra il contrario. Perché io non ho mai avuto esperienze negative. Sono passati sette anni buoni dal coming out, e non ho neanche una casistica del tipo: beh, guarda, allora, su 10 persone 3 mi hanno insultato però 7 no… No, zero a dieci. Prendo aerei, prendo treni, sono pure di Latina, che è una città discretamente di destra, anche se in questo momento c’è una lista civica e nella giornata contro l’omofobia è stata esposta la bandiera arcobaleno fuori dal Comune. Forse vivo in una bolla, però San Siro non è tanto una bolla, non è che fai il teatro d’élite dove viene solo un pubblico molto selezionato… Due stadi a Bari, non è che parliamo di Ginevra…

Tiziano fotografato da Giovanni Gastel

Sui social (di nuovo, tema caldo).
Lo spazio bianco in cui devi scrivere come ti senti adesso ti obbliga moralmente ad avere un’opinione su qualcosa anche se non ce l’hai. Per cui: fai refresh, ti viene fuori una nuova foto, e tu sei talmente annoiato, e libero, che devi scrivere qualcosa. Invece, nella vita di tutti i giorni se una persona ti interroga su un argomento e tu non ne sai, non ne sai. Io sono molto spaventato dai social. Li trovo l’antitesi di quello che ho scelto di fare nella vita.

I miei idoli da ragazzino, le band anni ’80 che hanno portato a Morrissey – e ho abitato 10 anni a Manchester per colpa di Morrissey e degli Oasis! – sono tutte persone che sono vissute per fare qualcosa che rimanesse. A me piace l’idea che il mio disco, quella cosa con la custodia di plastica e la copertina ristampata, anche 60 anni dopo la mia morte sarà sempre quella cosa lì. E che lo ascolti una persona o cento non mi interessa.

Tiziano fotografato da Giovanni Gastel

Sulla tecnica per imparare dai propri errori.
Se tu ti dai la possibilità di vivere il momento dell’errore come un momento di rivelazione e di fare una svolta verso l’alto, allora hai vinto. La tentazione all’autolesione, invece… In inglese è bellissimo, si dice pity party, noi diciamo “crogiolarsi nell’autocommiserazione”, loro dicono “ti organizzi una festa in cui si celebra quanto sei povero te”. Quella tentazione è dietro l’angolo, però bisogna avere la forza di uscire dal momento di compiacimento di quando il dolore prende piede dopo un errore, uscire da lì e chiedersi subito: cosa sto imparando da questo errore? Subito, subito, subito. Trasformare subito la visione delle cose da “che palle, proprio a me” a “sta succedendo a me perché qua c’è un messaggio nascosto, devo decifrare il messaggio, c’è già, ora devo capire”.

Il 90% delle volte lo trovi subito, se ti ci metti. Quando ho capito anch’io che non c’era bisogno di piacere a tutti, ho cominciato a divertirmi. È stato il momento in cui sono passato dal fare un pezzo insieme a Mina al fare un pezzo con i Linea 77, al produrre Baby K, al fare un pezzo con Marracash, perché mi piace… Perché se ascolto la voce di Alessandra Amoroso e mi ispira dieci canzoni io voglio produrre il suo disco, e me ne frego che mi dicano che viene da un talent show, non mi interessa.

Se ascolto il demo di un artista nuovo che mi manda canzoni talmente belle da non poter rinunciare a quelle canzoni, io lo chiamo, lo faccio venire a Milano, finiamo di scrivere la canzone che diventa Il conforto e chiamo Carmen Consoli invece di provare a contattare, che ne so, Kylie Minogue, perché a me piace Carmen Consoli, fine. Devi mantenere un po’ vergine l’istinto del farlo solo per te, questo lavoro. Devi tornare ogni tanto lì da dove sei partito e dire: io questa cosa la voglio fare così.

C’è un’atmosfera di grande ipocrisia. Nessuno nasce omofobo, nessuno nasce intollerante verso le diversità, però ci sentiamo obbligati ad appartenere a una casta,
a catalogarci

Sulla parte della tua vita in cui eri molto infelice.
C’è stato un inizio-inizio-inizio, col primo singolo, Xdono, che è stato bellissimo, perché mi alzavo la mattina, aprivo gli occhi e dicevo: “Cazzo, faccio il cantante”. Giuro, lo dicevo proprio. Dal secondo singolo in poi è iniziato il successo all’estero, quindi mi mandavano sempre all’estero e io non volevo andare via, perché volevo vedere che succedeva qua, volevo andare a Radio Deejay… avrei venduto un decimo dei dischi, però… E invece ero sempre lontano, ero da solo, mi chiedevano di fare cose nelle quali non mi riconoscevo… Mi mandavano a fare promozione nei Paesi Bassi dove dicevano: “Ah, sei italiano, facciamo la pizza”, e io dicevo: “Scusate, ma il mio è un disco R’n’B”…

Adesso ci rido, ma è stato un periodo da incubo per me, mi sentivo veramente alienato, e non capivo perché lo stavo facendo. Lì ho avuto la lucidità di capire che, siccome non capivo, dovevo tener duro. Mi ricordo che prendevo ’sti aerei da solo e andavo… Non mi piaceva niente, cento interviste al giorno su temi che non riguardavano mai nulla, mai la musica, tutto girava intorno a questo mondo italiota all’estero al quale non mi sentivo legato per niente. Case discografiche locali mi chiedevano di fare l’italiano e io non sapevo manco che volesse dire. Riuscire a guardare attraverso tutto quel casino e prendere la mira… un po’ ho avuto culo, un po’ sono stato diligente, e un po’ non lo so. Sono certo che, se non avessi avuto 20 anni in quel momento, se ne avessi avuti anche solo 27, non ce l’avrei fatta.

Tiziano fotografato da Giovanni Gastel

Su quello che ti ha salvato.
A 23 anni sono andato in Messico a frequentare l’università di Lingue. Quando ti trovi a dare gli esami, comunque hai un binario che ti riporta sempre a degli appuntamenti, delle scadenze: c’è una linea dritta, e tu la segui. Poi sono diventato famoso pure in Messico e sono andato in Inghilterra.

Quello è stato un parcheggio provvisorio abbastanza complesso, e controverso: da una parte ci ho trovato la libertà, la civiltà, l’ispirazione, dall’altra ho trovato un muro, perché gli inglesi sono dei separatisti tremendi, io ero a Manchester, quindi la Britannia degli hooligan, della classe medio-bassa lavoratrice, gli eredi della rivoluzione industriale più ferroviaria, e ancora adesso io lì non ho un amico. È stata tosta tosta tosta. Ti scontri con una realtà che non ti culla, non puoi adagiarti. Non sei facilitato in niente.

Avevo bisogno di una grande separazione dagli stalker e dagli hater. Anche lì, non so se ho avuto fortuna, o se il mio inconscio ci aveva visto lungo, però mi sono salvato da certi meccanismi che mi avrebbero chiuso in una bolla per cui non esci di casa e hai l’assistente che ti fa tutto, e arrivi a 30 anni e passa che manco sai come si fa la spesa, e ne conosco.

Tiziano fotografato da Giovanni Gastel

Sull’isolamento.
Non so come fanno le persone a esserci sempre. Per me devi riprenderti un po’ di vita, un disco esce ogni 2/3 anni e deve diventare il canale attraverso cui racconti quello che hai raccolto. Devi fare, rifare, buttare via, limare, tenere… ma è un processo che per me non può avvenire sotto gli occhi di tutti. Quando mi chiedono di parlare dei talent show, io invidio chi li fa. Questi ragazzi vengono seguiti dall’inizio alla ne, nel momento del processo creativo, nello studio di una canzone, nella registrazione, nella performance.

Quando si esibiscono in prima serata, tu li hai già visti provare la canzone mille volte. Io li invidio quei ragazzi lì, e mi terrorizza l’idea che, se avessi avuto 18 anni adesso, sicuramente ci avrei provato, perché altrimenti dove vai? Ma io non sarei mai riuscito a fare un talent, perché non avevo la faccia da culo di sostenere la telecamera in tutti i momenti della giornata. Chi lo fa è un vero artista con quel carattere là, e basta. Io ho bisogno di riprendermi il mio tempo. Quest’anno è arrivata Los Angeles per motivi che non ho ancora capito. Sono andato lì per i provini dell’ultimo disco ed è quasi da un anno che ci sto. Non so com’è successo.

Mi stanca essere impaurito dalle cose. Io sono un pianificatore nato, invece ora mi capita di stare nei posti e dire: “cosa cazzo ci faccio qui?”

Su Los Angeles, appunto.
Se vivi la città in maniera completamente diversa da quella dei percorsi turistici, scopri che la California è una bolla di persone che vivono bene, perché il clima è bello, perché la testa è più aperta, perché non incontrerai mai nessuno che ha votato Trump. Il giorno dopo le elezioni per strada io ho visto gente scoppiare in lacrime. Quella settimana è stata molto dura. Come è stato poi meraviglioso vedere la marcia delle donne, 300mila persone radunate in un quartiere. Ti fa capire quanto il californiano in realtà sia una persona proiettata verso l’altro.

Quando ci andavo all’inizio li trovavo di una falsità impressionante. La prima cosa che ti dicono è: “How are you today?”. Sì, in effetti non credo che siano davvero interessati a sapere come stai in questo momento… Però ho trovato tante persone pronte a fare qualcosa. Poi, certo, la città è bella, ma anche alienante, ogni tanto ti ritrovi in questi parcheggi enormi e ci sei soltanto tu, e pensi: “Se io qua mi perdo?”. Ci sono dei posti in cui percepisci la distanza dall’Italia, percepisci che tu non appartieni a quel luogo, che non sarà la lingua a farti comunicare con quelle persone, perché siete su piani diversi. Quando riesco a essere spiritoso sulla vita a Los Angeles, me la godo tanto, quando sono serio, piombo in un canyon di alienazione grandissima.

Tiziano fotografato da Giovanni Gastel

Sui musicisti americani.
Anche quelli molto famosi hanno sempre voglia di fare musica. Magari li incontro negli studi, perché abbiamo amicizie comuni, e mi dicono: “Ah, canti? Voglio sentire quello che fai, adesso”. Come, adesso? “Sì, adesso, ce li hai dei video su YouTube?”. Recentemente mi è capitato con Ryan Tedder e lì mi sono giocato un Sere Nere a San Siro subito, lascia, ti faccio vedere la peggio subito e me ne frego, perché non posso rischiare di sbagliare… Gli artisti americani muovono dei numeri allucinanti, non hanno bisogno di una guerra a chi ha più click.

Quando uno ti ascolta e ha davvero voglia di ascoltarti, è come un ragazzino che ha appena scoperto la musica. Forse perché vivono in una società ossessionata dall’integrazione, e al tempo stesso nessuno capisce come funziona. Trump… Ecco, secondo me si sono accorti anche loro che l’hanno sbagliata, l’americano difficilmente fa autocritica, ma io comincio a vedere che un po’ ce n’è, non possono negare l’evidenza. Non vedo l’ora di incontrare un trumpista convinto e poterci parlare. Io un giorno vorrei una conversazione a tavola, quando tutti lo distruggono, con uno che dice, io l’ho votato, che cazzo vuoi?, adesso ti spiego perché. Oddio, c’è il padre di un mio amico, ma ha 70 anni, non posso mettermi a parlare con lui…

Sul futuro.
Mi stanca essere impaurito dalle cose. Mi piacerebbe molto restare in America scegliendola un po’ di più. Io sono un pianificatore nato, invece ora mi capita di stare nei posti, mi guardo intorno e dico: “Ma dove cazzo sto? Ma io sto davvero qua?”. E lo sai dove mi succede? Quando sto sdraiato sul divano di casa. Guardo fuori dalla finestra, vedo una palma, di quelle alte alte, e penso: “Ma io sto facendo una siesta sul divano di casa mia a Los Angeles, che sei mesi fa non esisteva nella mia testa, tanto meno nella realtà? Com’è possibile che ho comprato questo divano da Living Space e adesso guardo fuori dalla finestra?”.

Da una parte, non aver scelto una cosa così importante ti fa sentire matto, dall’altra ti fa sentire finalmente adulto. Non hai bisogno di camminare sempre sui tuoi passi, ne sai un po’ di più. Non è più questa cosa che se inciampi, oh mio Dio che facciamo… probabilmente quando ci si avvicina ai 40 anni, hai più consapevolezza dei tuoi limiti, ma anche delle tue capacità.

Iscriviti