«Dopo il primo disco ho deciso che non avrei mai più tradito il mio istinto. Da allora seguo solo i suoni che mi fanno sentire bene, non farei mai nulla con lo scopo di compiacere un pubblico». Jack Barnett parla come suona: lucido, radicale, a tratti ascetico. Proprio come i suoi These New Puritans, la band che da più di vent’anni porta avanti con il gemello George.
Lo incontro appena dopo il soundcheck, qualche ora in anticipo rispetto all’inizio della prima data italiana di questo mini-tour nel nostro paese (oggi a Roma, domani a Bologna). I These New Puritans mancano in Italia da 10 anni, dal tour di Field of Reeds, loro capolavoro e punto di svolta discografico dopo l’avvento post-punk del fortunato esordio Beat Pyramid, che marchiò la band come ennesima next big thing della scena inglese, e del successivo Hidden. Da Field of Reeds, però, i These New Puritans sono cambiati. Il post-punk ha lasciato spazio a infiltrazioni colte, con la band (pian piano ridotta a duo) che ha scelto di abbandonare i fasti giovanili alla ricerca di una composizione alta, solenne, avanguardistica. Invece che guardare al rock, infatti, i fratelli Barnett hanno preferito porgere l’orecchio al minimalismo di Steve Reich. Non è un caso che, nella scaletta dei concerti, non siano presenti brani di Beat Pyramid, mentre Crooked Wing, pubblicato lo scorso maggio, occupa quasi mezza setlist. La proiezione è sempre al futuro.
L’album, come il concerto, apre con Waiting, una composizione ultraterrena, che sembra tratta dal folklore più esoterico delle campagne inglesi, con la registrazione di un bimbo soprano che canta “Sono seppellito / sono sottoterra / sto ascoltando / ogni suono” e che, nelle parole di Jack, è come se ci accogliesse «in questo mondo strano e alla fine ci salutasse, lasciandoci soli». Se nelle tracce degli ultimi dischi il suono si è espanso – tra vibrafoni, organi a canne, orchestrazioni e cori – il live fa di necessità virtù, visto che la formazione è composta solo da 4 elementi e le spese di trasporto sono schizzate alle stelle. «Non possiamo davvero replicare il disco, anche se volessimo», ammette Jack, anche se il problema non sembra interessargli, «per questioni tecniche, logistiche, economiche». Sul palco appaiono tastiere, sintetizzatori, percussioni, ma anche vibrafoni, xilofoni, campane tubolari. Una ricchezza timbrica e ritmica che prova (non senza difficoltà) a tradurre live le complessità degli album: «Non penso che la complessità sia una qualità da inseguire. Voglio creare qualcosa di semplice. Solo che un’idea finisce sempre per generarne un’altra, e poi un’altra ancora. Sere ispirazione per scolpire la pietra».
Ispirandosi a Reich e al minimalismo da lui rappresentato, la visione di Jack è di costruire architetture sonore a partire dalla ripetitività quasi ossessiva di piccole particelle. «All’inizio c’era solo il ritmo, quasi nient’altro», ammette la mente creativa del progetto riferendosi agli esordi con influenze hip-hop di Beat Pyramid: «Ora è tutto molto più armonico, stratificato. È cambiato tutto». Un minimalismo che accetta la stratificazione, il caos: «Amo inserire spesso registrazioni ambientali che permettono al caos del mondo di entrare nella musica. Evitano che diventi troppo prevedibile. Le distrazioni a volte sono la cosa migliore. Pensi di lavorare a un brano, poi un piccolo suono diventa tutt’altro». Nel disco, ad esempio, appaiono field recording vari, come quello di una campana in Grecia che dà la forma a Bells. «Faccio spesso registrazioni ambientali, ma non trovo mai quello che cerco nei suoni, piuttosto è il contrario, sono loro a trovare me», rivela mentre dalla strada fuori dalla Santeria di Milano un clacson risponde alla sua affermazione, strappandogli un sorriso. «Preferisco il rumore alla musica».
Una rock band, che dal post-punk ha guadato il fiume fino all’avanguardia, rimanendo fedele solo a se stessa. «Ci sentiamo ancora fuori posto come all’inizio. È una forza o una debolezza, a seconda di come la si guarda», continua. Per questo, dai successi degli esordi e dall’alta rotazione di un singolo come Elvis, siamo passati a un rock che flirta con la musica da camera, liturgie condotte dalla grandiosità del suono dell’organo a canne, spesso suono dominante delle composizioni, tanto che lo stesso Jack è volato dalla provincia inglese in Austria per registrarne uno del 1600 con una peculiare particolarità timbrica. «Non sono ossessionato dai suoni, o forse sì», ammette lui stesso divertito, «spostarmi da un posto all’altro mi tiene vivo, aperto a possibilità differenti».
Un’ossessione, quella per il suono, che è fondante nella ricerca artistica di Jack e che da una parte giustifica la lunga attesa tra gli album (questa volta ci sono voluti 6 anni) e dall’altra si allinea al credo dell’artista: «Faccio musica per me, non per compiacere qualcuno». Duro, puro, anglosassone. E nel live tutto questo è chiaro: un’ora tirata di musica grandiosa, senza aperture verso il pubblico. O cessioni ai brani più riconosciuti della loro discografia. Manca, ad esempio, la voce di Caroline Polachek dell’ultimo singolo Industrial Love Song, che la band preferisce eseguire senza alcuna base registrata. Sul brano Jack racconta: «Caroline ci ha scritto su Instagram per dirci che le era piaciuto il nostro Inside The Rose. E in quel periodo stavamo proprio ascoltando il disco di Caroline; è stato destino. Amo duettare con chi ha una voce bellissima, rende la mia ancora più brutta. Mi piace questo contrasto che si viene a creare».
In un mondo algoritmico, i These New Puritans fanno quello che gli pare. Questo gli ha concesso la libertà di fare, su disco e nei live, quello che volevamo, anche con grandi virate sonore. «Oggi molti scrivono per piacere all’algoritmo. Io non potrei farlo neanche volendo», è la considerazione di Jack. E in un periodo dove tutti hanno paura di suonare poco pop, la band lancia un messaggio di speranza: complessi o no, l’importante è essere fedeli a se stessi. Dite poco.








