Intervista ai The Specials: «La rivoluzione non può passare da internet» | Rolling Stone Italia
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The Specials: «La rivoluzione non può passare da internet»

La band simbolo dello ska inglese torna con un disco di inediti, il primo dopo vent'anni. Il frontman Terry Hall racconta della Gran Bretagna dilaniata dalla Brexit e della musica per dimenticare gli abusi dell'infanzia

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Foto Press

Quarant’anni di Specials, un gruppo a cui tanti artisti – Blur, Rancid, Gwen Stefani e i No Doubt, la buonanima di Amy Winehouse, solo per citarne alcuni – devono davvero tanto. Nel 1979, sono stati gli Specials a dare infatti il là al primo revival dello ska jamaicano, fondando a Coventry, loro città natale, l’etichetta 2 Tone Records. Bello, bellissimo il logo: l’elegantissimo omino stilizzato e gli scacchi bianchi e neri.

Oltre i dischi degli Specials, la 2 Tone Records ha pubblicato album e singoli di Selecter, Beat e Madness, gruppi che mischiavano reggae, ska, mod-beat e punk rock riuscendo a conquistare i primi posti delle classifiche inglesi, trasformandosi dunque in icone pop, almeno nel grigio Regno Unito dell’epoca. Un suggerimento: se non l’avete mai visto, guardate il documentario Dance Craze, che racconta quel periodo magico.

Per festeggiare i 40 anni di carriera, gli Specials hanno pubblicato un nuovo album che si chiama Encore, il primo di inediti da 20 anni a questa parte. E c’è stato un passaggio di testimone: fuori un membro storico come Neville Staple e dentro Terry Hall, che aveva lasciato il gruppo nel 1981 per poi tornare in occasione di un altro, precedente anniversario, il 30esimo. Da sempre, si prendono e si lasciano, anche per questo sono speciali.

È proprio il cantante Terry Hall – 60 anni – a spiegare al telefono da Londra una scelta che racconta lo stile e l’attitudine degli Specials. La prima canzone di Encore è comunque una cover, Black Skin Blue Eyed Boys degli Equals.

Perché questo pezzo?
Da ragazzini eravamo tutti grandi fan degli Equals e, prima che nascesse il movimento skinhead, intorno al 1969, sono stati molto importanti per noi perché erano il primo gruppo britannico formato da bianchi e neri. Quindi è un tributo a quella band e all’influenza che ha avuto su di noi.

Li hai mai visti dal vivo?
Io no, ero davvero troppo piccolo. Forse ci è riuscito Lynval (Golding, chitarrista degli Specials, nda), che ha visto Derv Gordon recentemente a Seattle e mi ha detto che è in gran forma.

Un passo indietro. Gli Equals sono stati una band inglese degli anni Sessanta a cavallo tra pop, r&b, reggae e rock (il loro pezzo più famoso è forse Police On My Back, ripreso poi dai Clash): erano due ragazzi bianchi e tre neri, tra cui il ben noto Eddy Grant e Derv Gordon, tornato ultimamente in pista con una backing band americana. Crossover di generi musicali e una formazione multi-etnica, esattamente come gli Specials.

Il primo singolo dell’album, invece, è stato Vote for Me. Qual è il messaggio della canzone?
È un pezzo che racconta la situazione degli ultimi due anni nel Regno Unito. Ci hanno chiesto di votare per la Brexit e hanno creato un casino. I politici non si aspettavano sicuramente quel risultato, così il Governo si sta sgretolando. Se segui i telegiornali e i dibattiti ti accorgi che sparano dichiarazioni assurde senza avere alcun argomento a supporto. E il pubblico inglese è molto, molto confuso.

Hai votato a favore o contro la Brexit?
Ho votato contro perché credo che siamo parte dell’Europa. Mi rendo conto di essere un cittadino britannico solo quando mi chiedono il passaporto in aeroporto. Ma molte persone hanno votato a favore solo come reazione ai messaggi dei media. Le decisioni si prendono qui a Londra, ma fuori c’è un mondo vastissimo che è stato ignorato per troppo tempo.

Gli Specials cantavano il disagio dell’Inghilterra tra gli anni Settanta e Ottanta. Com’è cambiato il Regno Unito da allora?
Purtroppo non ci sono troppe differenze tra l’Inghilterra degli anni Settanta e oggi. È aumentato di nuovo il razzismo, è aumentata la disoccupazione, anche se qualcuno dice che non è vero. E sono calati i salari. Se esci da Londra e vai in posti come Middlesbrough, nel nord ovest o nel nord est del Paese, vedi che le persone fanno davvero fatica a sopravvivere, costrette a lottare quotidianamente. L’unica differenza è che oggi c’è internet, ma non credo serva molto.

Terry Hall era conosciuto come quello degli Specials che non sorrideva mai. Al telefono parla lentamente, la voce è sommessa. Soffre da sempre di sindrome maniaco-depressiva (recentemente, ha raccontato in un’intervista di essere stato adescato da un pedofilo quando era poco più di un bambino) e c’è una canzone di Encore che parla proprio di questo suo malessere.

Chi è il protagonista di The Life and Times (of a Man Called Depression)?
Sono io, quella canzone parla di me. Racconta come ci si sente a essere un maniaco-depressivo, schizofrenico, come sono io. È difficile comunicare con le persone che ti chiedono “perché non sorridi mai?”. Ma cosa vi aspettate da me, che sono maniaco-depressivo? Da quando sono stato in ospedale 10 anni fa, prendo molte medicine che mi permettono di vivere normalmente. Più se ne parla, meglio è. Almeno, per me è un aiuto.

Che impressione ti ha fatto la fine di artisti come Chris Cornell o Chester Bennington?
È una lista senza fine. Prendi Amy Winehouse, per esempio. Se non chiedi aiuto a qualcuno, se non ti fai curare, provi da solo con le droghe e con l’alcol. L’ho fatto anche io: ti aiuta per un po’ a sopportare la vita, ma col passare del tempo peggiora solo le cose. Quando ho smesso di bere e ho cominciato a seguire le indicazioni dei medici mi sono reso conto che la vita può essere migliore. Certo, non è il paradiso, ma riesco almeno ad affrontare i momenti più duri.

Eri depresso anche agli inizi con gli Specials?
La depressione mi è stata diagnosticata intorno ai 12 anni. Ma le cure erano a uno stato primitivo, così a 14 anni ero già dipendente dal valium. È questo il motivo per cui ho mollato la scuola, ed è per questo che per i vent’anni seguenti mi sono rifiutato di prendere medicine. Perché mi avevano fatto male.

Quanto ti ha aiutato la musica?
La musica e il calcio mi hanno aiutato, sono le mie più grandi passioni. Quella botta che ti danno le cose appena scoperte, è stato fantastico. Da ragazzino ho cominciato ad andare a vedere le partite e mi sentivo sollevato.

Qual è stata la tua prima partita?
Intorno agli 11 anni i miei genitori mi hanno portato a vedere il Manchester United. credo fosse una partita contro il Burnley. E da allora è diventata una vera passione.

Sei di Coventry, perché tifi Manchester United?
Nessuno tifava Coventry! Forse pochissime persone. Ma quando a 9 anni ho visto George Best in finale di Coppa dei Campioni ho deciso che volevo essere come lui, e quindi ho iniziato a tifare Manchester United.

E il primo contatto con la musica, dischi e concerti?
Il primo disco che ho comprato è stato Fire Brigade dei Move, ma mia sorella ascoltava tanta roba Motown. Ed è stata lei a portarmi al primo concerto: i Pink Floyd con Captain Beefheart, un evento imponente. Poi a metà anni Settanta ho cominciato con Bowie, i Roxy Music e infine è arrivato il punk, c’erano un sacco di concerti.

Curiosità: i tuoi gruppi punk preferiti?
Richard Hell & the Voidoids. Poi Talking Heads, Patti Smith, Blondie… Mi piacevano i gruppi americani, la scena di New York.

Gli Specials sono una band che mette d’accordo tutti – punk, mod, skinhead – e la 2 Tone Records cercava di trasmettere un messaggio di unità, anti-razzista. Ma nell’Inghilterra di fine anni Settanta c’erano risse e attacchi premeditati ai loro concerti.

Come vivevate quei giorni?
La 2 Tone era espressione di una comunità formata da bianchi e neri. Eravamo cresciuti insieme, affrontavamo tutto insieme, uscivamo insieme ascoltando musica reggae. Noi non ci pensavamo neanche, per noi era la normalità. Ma per altri non era così, la pensavano diversamente. E a un certo punto abbiamo dovuto smettere di suonare perché c’erano gruppi di estrema destra che volevano solo fare casino, spargere violenza. Ma alla fine non hanno vinto.

Vedi ancora skinhead di destra ai vostri concerti?
Ci hanno rinunciato. Ci sono ancora, ma non vengono più ai nostri concerti. E noi continuiamo a fare quello che ci pare.

Com’è cambiato il vostro pubblico nel corso degli anni?
Ora ci sono tanti ragazzi giovani. Quando c’è stata la reunion per i 30 anni, buona parte del pubblico aveva la nostra età. Ultimamente, invece, a un nostro concerto in California era pieno di giovani ispanici. È rigenerante suonare davanti a un pubblico così fresco.

Segui ancora la scena ska, gruppi come gli americani Interrupters o gli inglesi Death of Guitar Pop? Ci sono band del genere che ti piacciono?
Conosco di nome gli Interrupters, e mi hanno detto che sono molto bravi dal vivo. Ma non ho mai sentito Death of Guitar Pop! Ma se sento una band in grado di comunicare qualcosa, non mi interessa il genere musicale.

A prescindere dai generi, vedi allora in giro artisti in grado di trasmettere un messaggio come gli Specials?
Non vedo alcun artista rivoluzionario. So che c’è musica arrabbiata in giro, come il grime, ma non mi sembra un gran cosa. I ragazzi non si ribellano più, sono pigri, pensano di poter fare la rivoluzione su internet. E io ascolto ancora Gil Scott-Heron, Leonard Cohen, i Clash. Sarebbe bellissimo avere una nuova voce rivoluzionaria, ma non accadrà. C’è confusione, viviamo un momento davvero tremendo.

Nel nuovo album c’è un pezzo che si chiama We Sell Hope. C’è ancora speranza?
È un messaggio semplice: guarda il mondo e vedrai la bellezza. Dimostra amore, rispetto e tutto sarà più bello. Non abbandoniamo la speranza. Non è molto diverso dal messaggio di A Message to You, Rudy: proviamo a mostrare il lato positivo delle cose. Non seguire le mode, sii te stesso, crea il tuo mondo.

Che effetto ti fa sentire le canzoni degli Specials nelle pubblicità in tv: gelati, compagnie telefoniche, automobili…
(Ride) Non mi sorprende! E non mi piace, ma purtroppo in certi Paesi abbiamo perso il controllo delle nostre canzoni.

Ti senti ancora un rude-boy?
Sei rude-boy dentro. Non dipende da come ti vesti, i vestiti sono accessori. Essere modernista o punk è nella tua testa. A 60 anni non mi vesto più come a 20, sarebbe ridicolo, è una cosa da ragazzi. Ma la mia testa non è cambiata, vedo ancora il mondo con gli stessi occhi.

Ci sono stati diversi cambi di formazione nel corso degli anni. Chi sono gli Specials oggi?
Io, Lynval Golding (chitarra), Horace Panter (basso) e Nikolaj (tastiere), che suona con noi da 10 anni. C’è sempre gente che va e gente che viene.

E ora veniamo ai membri storici degli Specials che mancano all’appello. Jerry Dammers, fondatore della band e dell’etichetta 2 Tone, e Neville Staple, che ha resuscitato il gruppo durante la terza ondata ska, negli anni Novanta.

Senti ancora Jerry Dammers?
Ogni tanto, ma è molto riservato, piuttosto schivo.

E Neville, perché non c’è?
Per problemi di salute tempo fa ha perso un po’ di concerti, non ce la fa a sostenere troppi impegni.

Nota: Neville Staple – che suonava anche nel gruppo pop Fun Boy Three con Terry Hall e Lynval Golding – ha appena annunciato un tour europeo in solitaria, presentandosi come The Special 1 e facendo capire di aver avuto screzi con gli altri tre ex compagni di band. E la storia degli Specials è anche questa, prendi e lascia, lascia e prendi.

Quando tornerete in tour?
Da marzo si riparte, ma non so ancora tutte le date. Se me le dicono mi spavento.

Ma che effetto ti fa essere ancora in giro dopo 40 anni?
Ce lo stavamo dicendo l’altro giorno. Io ho 60 anni, Lynval ne ha 65. Siamo fortunati a fare quello che ci piace fare, è una benedizione.

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