The Get Up Kids, guarda come invecchiano gli emo | Rolling Stone Italia
Col senno di poi

The Get Up Kids, guarda come invecchiano gli emo

La band è in Italia per un tour celebrativo di ‘Something to Write Home About’. Abbiamo chiesto al chitarrista e fondatore Jim Suptic di raccontarci la loro storia: alti e bassi vertiginosi, pochi rimpianti, un po’ di nostalgia

The Get Up Kids, guarda come invecchiano gli emo

The Get Up Kids

Foto press

La storia dei Get Up Kids è fatta di successi che portano a delusioni, di amicizie che si sfaldano e si ritrovano, di traguardi sognati e poi boicottati, una storia che si interrompe per anni per poi arrivare al lieto fine. Non capita a tutti di fare la tombola della vita a 20 anni, scrivendo un disco come Something to Write Home About, che oggi viene celebrato con un tour in occasione dei 25 anni dall’uscita che ieri ha toccato Livorno, oggi Pinarella di Cervia, domani Milano. L’album è amatissimo dai fan e ha avuto un’influenza enorme su una valanga di band che – a differenza dei Kids – capitalizzeranno tantissimo sulle loro intuizioni. Ma la gestione del successo, soprattutto in giovane età, non è cosa semplice e quando la strada verso i palazzetti sembra ormai spianata, il quintetto di Kansas City ingrana la retromarcia alla ricerca della purezza perduta.

Una storia emo per un gruppo emo, se vogliamo. Ma qui non ci sono eyeliner o autolesionismo, e neanche i grandi numeri figli della nostalgia pop impacchettata per i mall delle grandi città americane. La storia dei Kids comincia prima che il termine emo assumesse quel significato. «Il termine emo esisteva già», dice Jim Suptic, chitarrista, fondatore e, a volte, cantante della band, «ma era diverso. Noi arrivavamo da una scena che era tosta, stavamo su un’etichetta hardcore. Voglio dire, la scena punk era completamente diversa allora, si suonava negli scantinati. Oggi non lo so, sono un po’ fuori dal giro, sarei il vecchio nello scantinato che tutti guardano chiedendosi: che ci fa il nonno qui?».

Col primo disco Four Minute Mile vi siete inseriti nella seconda ondata dell’emo, quella che segue gli antesignani Rites of Spring e precede la sbornia di inizio millennio dei My Chemical Romance.
Eravamo adolescenti. Il nostro primo album era praticamente un disco live, registrato in due giorni e mezzo così come, immagino, il primo disco di molte band. Per Something abbiamo trascorso due mesi a Los Angeles, avevamo tempo per farlo esattamente come volevamo. È stata la prima volta che abbiamo fatto dei demo, un nostro amico aveva un registratore DAT, era un lusso allora. Abbiamo anche fatto una settimana di pre-produzione, affittando una sala prove con il produttore per rifinire le canzoni. Vivevamo tutti insieme in una casa a Westwood, Los Angeles. Io avevo appena fatto 21 anni, Bryan il nostro batterista 19. Eravamo ragazzini. Forse è stato un bene non sapere cosa stessimo facendo.

Dopo il debutto le major hanno capito che le band emo potevano essere le nuove galline dalle uova d’oro. Ma voi, nonostante le offerte da alcune della label più ricche d’America, avete firmare con l’allora semisconosciuta Vagrant.
Abbiamo puntato su noi stessi. Stavamo quasi per firmare con Sub Pop, sembrava un sogno, ma non ci piaceva il contratto che ci era stato offerto. Eravamo cresciuti troppo per la Doghouse, la nostra prima etichetta. Gli amici mi dicevano che non riuscivano a trovare il nostro disco nei negozi e la loro distribuzione non era granché. Vagrant fece un contratto su misura per noi, con royalties migliori. Pensammo che avremmo guadagnato di più vendendo 200 mila copie con loro che un milione con una major. Le major ti fanno indebitare, perché recuperi solo una piccola percentuale da ogni disco venduto: se avessimo speso un milione di dollari per registrarlo – e non lo abbiamo fatto – sarebbe stato difficile rientrare dei costi. Oggi non avremmo fatto questo tipo di ragionamento perché le vendite di dischi non contano più niente.

L’etichetta è diventata famosa grazie al vostro disco.

Sì, poi hanno messo sotto contratto band che hanno venduto più di noi. Bel lavoro Chris Carrabba (ride). Hanno pubblicato buoni dischi che la gente voleva sentire. Non voglio prendermi tutto il merito per questo, ma sì, è stato pazzesco. Noi venivamo dai concerti nei seminterrati, poi i Jimmy Eat World e altre band, improvvisamente, vendevano milioni di copie. Un momento folle.

Eri spaventato dal successo?
No, perché la crescita è stata lenta. I discografici ci vedevano come una band venuta dal basso e penso che puntassero su di noi proprio per questo, perché vedevano qualcosa da costruire, non avevamo soltanto un singolo di successo e basta. Avrei voluto vendere anche di più, essere una band di maggior successo, ma dopo tanti anni giriamo l’Europa con concerti sold out, quindi va bene così. C’è anche il fattore longevità: in questo tour europeo torneremo a suonare al Pukkelpop, penso sia la terza volta che ci andiamo, ho visto band suonarci una volta e poi non tornarci più. Siamo stati in grado di sopravvivere alle mode.

The Get Up Kids - Action & Action [OFFICIAL MUSIC VIDEO]

Nonostante la scelta di non firmare per una major, Something to Write Home About esplode trainato dalla forza di Action & Action. E Matt Pryor era una macchina da ritornelli…
Le venue diventavano sempre più grandi, sempre sold out, ogni data dovevano fare due concerti perché c’era troppa gente che rimaneva fuori. Tipo una volta, in North Carolina, c’era tanta di quella gente che facemmo due concerti. Poi arrivò il tour bus e i puristi si incazzarono tutti, tantissimo. Roba del tipo «come vi permettete di prendere un tour bus?». Beh, siamo per strada da dieci settimane… Oggi questa cosa fa ridere, voglio dire, è solo un veicolo che ci porta da un posto a un altro, ma all’epoca non era così. Band come la nostra, o come i Jimmy, non erano in radio, a fine anni ’90 c’erano solo il nu metal e i Blink-182. Noi arrivavamo da una scena underground dove eravamo tutti interconnessi e questa cosa era fantastica perché ci permetteva di avere una piccola fanbase ovunque, come la prima volta che suonammo in Italia e trovammo 200 persone ad aspettarci.

Quindi vi han chiamato venduti per aver preso un tour bus?
Sì, ma la cosa non ci ha colpiti. Non abbiamo mai voluto essere incasellati in una categoria, mentre oggi sembra che le persone cerchino proprio quello, un’etichetta, un recinto. Tutti che dicono «io sono questo, sono quello». Anche i miei figli sono così. Ed è buffo, perché io ho sempre odiato le etichette e ho sempre avuto la sensazione che il punk-rock avesse dei confini da rispettare, cosa che come artista non ho mai apprezzato.

Vi aspettavate che Something to Write Home About diventasse così importante?
No. Ricordo il volo di ritorno da Los Angeles con il CD masterizzato. Lo ascoltai tre volte e pensai: «Abbiamo fatto un buon disco, ci sono delle gran canzoni». Ma non ci aspettavamo che lo avremmo venduto ancora oggi o che la gente ne parlasse nel modo in cui ne parla. Non volevamo dare forma a un movimento. I Jimmy Eat World avevano appena pubblicato Clarity, i Promise Ring avevano fatto Nothing Feels Good e questi erano i nostri amici e contemporanei. Volevamo solo fare qualcosa di altrettanto buono. Avevamo sentito i demo di Lucky Denver Mint dei Jimmy e pensato: «I nostri amici hanno scritto della roba così bella? Dobbiamo alzare il livello». Era sana competizione.

Quando vi siete ritrovati associati alla parola emo?
Direi quasi subito, ma è un termine che crea confusione, ci sono così tante band diverse chiamate emo. Inoltre il termine, inizialmente, aveva un significato diverso, era una roba più nerd, più indie rock. Indie punk. Poi, di fatto, è diventato il goth, voglio dire, se chiedi a un tizio per la strada cosa sia l’emo ti risponde quello, tipo i My Chemical Romance che non è la roba nostra. Anche loro venivano dai seminterrati come noi, ma poi sono diventati altro e se diventi una band così importante, poi la gente pensa che l’emo sia tu. Non pensano ai Rites of Spring o ai Sunny Day Real Estate.

The Get Up Kids - Ten Minutes [OFFICIAL MUSIC VIDEO]

Al posto di pubblicare un disco che vi fa fare il grande salto, dopo due anni di tour, stanchi di suonare sempre le solite canzoni, avete cambiato direzione con On a Wire, un album più intimo, lento, con molte parti acustiche che pure erano presenti su Something, ma privo di quella sfrontatezza. Parte dei fan vi hanno mollato. Mentre l’emo diventava mainstream, voi siete andati da un’altra parte.
Tutti pubblicavano dischi simili a Something to Write Home About, noi ne abbiamo fatto uno completamente diverso. Col senno di poi, forse avremmo dovuto pubblicare un disco intermedio per rendere il cambiamento più naturale. Ma continuavamo a crescere, a diventare sempre più grandi e a ricevere sempre più offerte. La verità è che avremmo dovuto interrompere il tour almeno un anno prima, ma ci offrirono di aprire per i Green Day, poi per gli Weezer… era impossibile rifiutare. Credo, inoltre, che siamo sempre stati dei bastian contrari. Abbiamo sempre voluto fare quello che volevamo. Dopo On a Wire, ad esempio, siamo usciti con Guilt Show, che era un altro disco power pop. Poi abbiamo fatto There Are Rules che è un disco post punk e infine Problems, che è un po’ un mix di tutte queste cose. Il punk-rock ha troppe regole: tutti si comportano come se non ce ne fossero, poi però pretendono che tu faccia sempre lo stesso disco. Che senso ha? Io preferisco gli artisti che evolvono. Forse è per questo che siamo ancora qui. Ci sono altre band che fanno sempre lo stesso disco, e va bene così, ma non sono quelle che ascolto io.

La vostra etichetta vi ha mai chiesto di rimanere fedeli al suono di Something?

Un po’ sì, ma alla fine ci hanno lasciato fare. Volevano che facessimo la nostra cosa o forse volevano solo vederci felici (ride). Una major probabilmente avrebbe rifiutato il disco, ad essere onesti. La verità è che non lo sapremo mai. Avremmo potuto fare un altro disco come Something e avrebbe potuto non vendere bene, è difficile dirlo. On a Wire ha comunque avuto successo, il video era su 120 Minutes di MTV, è stato il nostro maggior successo in Giappone. Molti oggi lo apprezzano più di allora, ne comprendono il songwriting, il fatto che non tutto debba essere sempre potente. Brani come Overdue sono tra i migliori che Matt abbia scritto.

Cosa ricordi del tour coi Green Day?
Erano gentili ed erano già famosi. Un periodo strano, perché loro erano usciti con Warning, che probabilmente è il loro disco che ha venduto meno, ma parliamo comunque di platino. Poi hanno fatto American Idiot e sono tornati ad essere la più grande band del pianeta. Quindi, che dire? Sicuramente interessante, superfico. Ricordo che siamo andati a fare shopping di chitarre con Billie Joe in Texas. Penso che Fat Mike abbia detto la cosa più giusta: i Green Day non si sono mai venduti perché non sono mai cambiati, è il mondo che è andato verso di loro. Anche loro arrivano dal punk-rock, dal suonare nei seminterrati e quando hanno iniziato musica del loro tipo non andava sulle radio. Capisci che voglio dire? È il mondo che è cambiato.

The Get Up Kids - Overdue Music Video

Vi siete poi sciolti e rimessi assieme, fatto altri album e oggi le vostre canzoni adolescenziali vengono cantate dagli adulti…
Adesso sono anch’io un genitore, i miei figli hanno l’età che avevamo noi quando abbiamo dato vita ai Get Up Kids, una roba folle a pensarci. È interessante cantare canzoni scritte da adolescenti. Penso che abbiano un appeal universale, altrimenti non saremmo qui a cantarle dopo tutti questi anni. Nel bene e nel male, noi siamo sempre stati sinceri. E quando sei sincero, beh, a volte ti prendi la merda. Ma credo che questo sia quello che ci ha permesso di essere ancora qua.

È vero che il titolo dell’album Something to Write Home About è tuo?
In realtà è di mia madre. Ero in studio, circa a metà dell’album, l’ho chiamata per aggiornarla su quello che stavo facendo, per farle sapere che stavo bene, raccontarle un po’ di cose buffe che ci stavano capitando. Mi disse: «Beh, almeno hai qualcosa di cui scrivere a casa». Era perfetto, il disco parla proprio di star via di casa, crescere, trovare te stesso.

Oggi che tipo di rapporto hai con questo disco che è il più importante della vostra carriera?
Buono. Amo anche fare cose nuove e credo che il nostro ultimo lavoro, Problems, sia uno dei migliori. Credo che chi ha amato Something lo apprezzerebbe, se solo gli desse una possibilità. Ma mi sta bene un po’ di nostalgia, non sono uno di quelli che vuol suonare solo cose nuove.

Un’ultima cosa: hai qualche rimpianto riguardo la vostra carriera? Come non aver firmato con una major o non aver proseguito nel segno di Something.
Ne ho uno, ma non ha a che fare con la musica. Il mio rimpianto è esserci sciolti. Molti pensano che sia stato per poco, in realtà ci siamo sciolti nel 2004. Poi abbiamo fatto dei tour perché avevamo già preso l’impegno… Qualcuno avrebbe dovuto dirci: ragazzi, non serve che vi sciogliate, basta che vi allontaniate l’uno dall’altro per un anno o due. Credo sarebbe stata la cosa migliore. Ma, in quel momento Rob, il nostro bassista, è andato a suonare con gli Spoon e ha fatto cose molto fiche, Ryan e Rob hanno aperto un bar, io avevo un’altra band di cui ero il leader ed era bello. Avremmo potuto fare tutte queste cose rimanendo uniti come band. Oggi tutti si sciolgono e poi tornano assieme, quindi forse è anche sciocco da dire, ma al tempo non ci sopportavamo più, non ci piacevamo più, c’era bisogno di una pausa. È questo il mio rimpianto.

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