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The Achille Lauro Experience

Oltre la trap, oltre Sanremo. Achille Lauro è il cannibale pop che vuole portare altrove la musica italiana. Un progetto di rockstar nel senso più primitivo e brutale. Ce la farà?
Achille Lauro fotografato da Fabio Leidi per Rolling Stone

Achille Lauro fotografato da Fabio Leidi per Rolling Stone

«Che roba. Se l’avessi saputo prima, l’avrei messa sulla copertina del disco». Achille Lauro osserva su un monitor la fotografia che Fabio Leidi ha appena scattato per la digital cover di Rolling Stone. L’immagine ammicca alla scandalosa copertina di Electric Ladyland della Jimi Hendrix Experience, con Lauro che posa da dio del rock circondato da electric ladies in versione 2019.

Camicia: Stefano De Lellis. Jeans: Diesel. Accessori: Rosantica. Cappello: Ilariuss. Make-Up: Touche Éclat YSL Beauty.

Non è un caso. Sulla copertina del nuovo album di Achille Lauro, 1969, c’è proprio Hendrix, ma anche Elvis Presley, Marilyn Monroe, James Dean e una pioggia di banconote. Dentro c’è un immaginario anche rock e ci sono canzoni che cannibalizzano cinquant’anni di musica per creare uno stile primitivo, sintetico, eccitante, a tratti poetico.

Ve l’hanno raccontato come il tizio che travia i ragazzini infilando di nascosto nelle canzoni riferimenti all’ecstasy. In quest’intervista, Achille Lauro si descrive come un uomo che conosce i propri limiti e cerca di superarli, che distingue il Bene dal Male, che getta uno sguardo consapevole sulla vita di strada. E qualunque cosa sia, 1969 non è un disco trap. Mentre là fuori si dibatte di vizi e virtù del genere, Lauro è già altrove.

Tu e Boss Doms siete cannibali. Siete barbari che calano su un genere musicale, prendono un bottino di materie grezze, le portano a casa e le usano in modo dirompente.
Siamo outsider alla ricerca di cose nuove. Non è marketing, è voglia di prendere il vecchio e riproporlo in chiave inedita. Fondere generi per creare qualcosa di nuovo è alla base dell’arte. Lo dimostrano i più grandi, Freddie Mercury, David Bowie.

Boss Doms dice che la vostra è un’arte stronza.
Siamo il cantante e il chitarrista meno talentuosi d’Italia. Abbiamo rispetto di chi studia e conosce la musica, ma da soli abbiamo creato qualcosa di figo e imperfetto.

Ecco, imperfetto. La tua dizione è sporca, il tuo canto ha qualcosa di volgare.
La mia voce è una chitarra scordata, ma l’imperfezione è un punto di forza. Potrei citare Lucio Battisti o Rino Gaetano, a cui sarebbe presuntuoso paragonarsi: pur non avendo voci perfette riuscivano a trovare la giusta chiave emotiva. Prima della perfezione viene la comunicazione.

Camicia: AMEN. Pantalone: Stefano De Lellis. Cappello: Superduper. Make-Up: Touche Éclat YSL Beauty.

Perché 1969?
Perché sono accaduti tanti avvenimenti che hanno cambiato il mondo. Perché negli anni ’60 e ’70 l’espressione artistica era ai massimi livelli, il mondo cambiava, c’era voglia di libertà, di esprimersi, di ribellarsi.

Una voglia che oggi non vedi, nella musica italiana?
Negli ultimi vent’anni c’è stato un grande appiattimento. C’è bisogno di cambiamento e di fare cose diverse, ripartendo dalle radici.

I testi del disco sono pieni d’immagini semplici, di flash. Viene in mente il percorso di Vasco Rossi che negli anni ’80, ispirandosi al linguaggio della pubblicità, cominciò a esprimersi in modo sempre più sintetico.
Un tempo le mie canzoni erano racconti, erano piccoli capitoli di un libro. In questo disco ho iniziato a snellirle, un po’ come gli impressionisti. Dietro alla parola giusta c’è un mondo, non c’è bisogno d’aggiungere altro. In una canzone che mette assieme delle icone, citare un marchio come Rolls Royce dice tutto. È successo, lusso, farcela.

Forse a Sanremo non è passata una cosa e cioè che la tua è una storia a lieto fine: la musica come via d’uscita dal posto da cui provieni.
Da una parte, sono un operaio che ha lavorato giorno e notte per creare il suo successo, credendo in quel che faceva, dall’altra sono stato fortunato. Bisogna gettarsi, rischiare, anche fallire. Non mi sento un esempio, spero però che la mia storia rappresenti un buon consiglio per i ragazzi. Le scorciatoie non portano da nessuna parte. Insistendo a sbattere la testa contro il muro, uno il buco prima o poi lo fa.

Nelle tue canzoni ci sono Cristo, Lucifero, gli angeli. Da dove viene quest’immaginario religioso che usi specialmente parlando d’amore?
Le due facce dell’amore sono paragonabili al Bene e al Male che nell’immaginario italiano corrispondono a Paradiso e Inferno. Per questo descrivo una ragazza come una Lucifero vestita bene che s’incatena in mezzo al fuoco e mi dice: vienimi a prendere. Parlo anche di Dio. Viene tutto dalla mia educazione cattolica. Non credo nel cristianesimo, ma credo che qualcosa esista.

Nel finale di Roma c’è un’idea di sacrificio e risurrezione che rimanda al Cristo: “Innalzato a morire su un colle / Trafitto nel costato a Vigna / Perito e intombato a Sempione / Risorto da qualche parte lì / A Montesacro / Pe’ i miei ragazzi, pe’ sempre”. Che immagine potente. Da dove viene?
Sono una persona malinconica che ha la fortuna di poter mettere quel che prova su un foglio e quindi farne tesoro. Scrivendo uno si conosce, è autoterapia, acchiappare i pensieri e trascriverli diventa più facile. Quel che mi è accaduto, il cambiamento, arrivare a Milano, lavorare per il successo, tutto questo è una specie di risurrezione.

Sempre a proposito di Roma, è cambiata la tua prospettiva sulla vita di strada?
Adesso c’è un’analisi più profonda. Da ragazzo uno vede tutto filtrato dal suo ego, gli sembra figo ed è uno sbaglio che porta a far cazzate. Quando si cresce – io adesso ho 28 anni ed è come se avessi vissuto tre esistenze – ci si trova a fare i conti con la vita. Ho ancora gli amici fraterni di una volta, quando posso li aiuto, sono i protagonisti delle mie canzoni, sono gli artefici del mio successo. Li guardo e so che per 10 o 15 anni hanno perso tempo appresso a stronzate. Non hanno costruito niente, hanno avuto problemi di ogni genere e si trovano a pagarne il conto. Ritrovarsi adulti senza nulla, senza soldi, né possibilità è la cosa peggiore.

Sei l’unico capace di gettare uno sguardo compassionevole su quel mondo. Riesci a renderlo poetico. Cerchi la bellezza anche nella disperazione?
Nella disperazione c’è poesia. La vita è una tragica poesia dentro cui siamo tutti. Grazie alla musica, riesco a vedere questa disperazione come un bicchiere mezzo pieno. Nella vita che passa c’è qualcosa di poetico, di assurdo, di incontrollabile dall’essere umano.

Perché chiudi l’album con una richiesta di scuse?
Perché c’è sempre da chiedere scusa. Nella canzone mi rivolgo a mia madre, ho avuto la fortuna di avere lei, un riferimento sano. È la persona a cui rendere conto, quella che ti mette di fronte al fatto che un Bene esiste e ti fa riflettere su quel che non vuoi diventare, su quel che è sbagliato.

Che cosa rappresentano per te i soldi? In Je t’aime l’elenco delle cose che vorresti diventa talmente ricco che arrivi a dire che “più che una vita voglio sia un museo”.
Vengo da una famiglia di brave persone che si sono fatte il culo e sono riuscite a raggiungere i risultati dopo 30 anni. E sono questi 30 anni di frustrazioni che fanno scattare qualcosa in un figlio che vede i genitori sacrificarsi e non portare a casa il giusto. Qua non c’entra il possesso. Sono nato a cavallo di due generazioni, quella dei 2000 e quella dei ’90. Dai 14 anni ho vissuto in una comune di artisti con ragazzi più grandi di me e con mio fratello, che adesso ha 34 anni. E la cosa che noto è che oggi tutti vogliono mostrare i beni materiali, mentre un tempo si volevano mostrare le gesta, si voleva fare qualcosa che rimanesse. Ecco, voglio fare qualcosa di importante. Voglio fare qualcosa di generazionale.

Copricapo: Gianmarco Bersani.

Hai scritto che vuoi essere contagiato dalla femminilità. È un’idea controcorrente rispetto ad artisti trap tuoi contemporanei.
La donna è eleganza, è qualcosa di puro. Il mondo andrebbe avanti anche senza uomini. Le donne muovono il mondo, comanderanno il mondo. Mi sono allontanato da un ambiente maschilista e culturalmente povero, quello delle periferie. Era l’esempio di come non volevo diventare. A casa mia, invece, avevo l’esempio del Bene fatto donna.

Perché hai rimandato la partenza del Rolls Royce Tour?
La partecipazione a Sanremo ha fatto uscire la nostra natura di outsider totali e ha avverato il mio sogno di essere visto come artista a 360°. Mi ha anche catapultato in un nuovo mondo sconosciuto, in cui non si parla più di rap. Sono un perfezionista, un maniaco, voglio che ogni cosa sia fatta bene. Non m’interessa fare il tour in coda a Sanremo per guadagnare di più. Questo nuovo mood, questa nuova anima che finalmente tutti vedono mi impone di fermare tutto e costruire uno show giusto, calibrato, imponente, perfetto, mai visto.

Prima di Sanremo hai detto che avevi due dischi quasi pronti. Se questo è uno, l’altro com’è?
In realtà sto lavorando a vari progetti: ho un album completamente diverso da questo; ho un album che segue la linea di questo, anzi ne è un upgrade; e ho un album che forse sarà il più apprezzato in cui riprendo le mie canzoni e le trasformo. Un volta pescavo da altri, ora ripesco da me stesso.

Dai l’idea d’essere iperattivo. In Je t’aime c’è quella frase, «non ci fermiamo mai», che mi pare ti rappresenti, no?
Non riesco a stare fermo. Quando non ho impegni mi invento qualcosa. Dormo 4 ore a notte. Mi dicono: sei come Berlusconi. Io preferisco dire che sono come Steve Jobs.

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Crediti
Fotografo: Fabio Leidi
Art direction: Stefania Magli
Fashion Editor: Francesca Piovano
Stylist: Nicolò Cerioni
Assistenti Stylist: Michele Potenza e Arianna Beaschi
Hair: Ludovica Ciattaglia e Carlo Ruggiu
Make up: Touche Éclat YSL Beauty

Hanno posato
Sara Borghino, Penny Bonfanti (@Rolloverpeople), Chiara Brogna (@Rolloverpeople), Lisa Di Rella, Lea Evangelista, Stephanie Glitter, Natalia Gorbuleac (@Rolloverpeople), Miriam Iacopink, Asia Muggeo, Alessandro Pala, Gianluca Persia, Karyna Polianna, Carlotta Rossetti, Beatrice Ruggeri (@Rolloverpeople), Andy Savino, Guglielmo Tortarolo, Cher Trabalzi (@Rolloverpeople), Valentina Vitriolo, Luca Wegan, Paola Zanini

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