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Tedua: «Ragazzi, imparate a controllare le emozioni anziché fare brutto»

Ritratto di un rapper diverso dagli altri che con ‘Vita vera’ ha tenuto Lady Gaga lontana dal primo posto in classifica: l’infanzia difficile, la musica come scuola di vita, il flow originale, la sua ‘Divina commedia’

Foto press

Nonostante la sua musica sia inequivocabilmente rap, ascoltare per la prima volta un pezzo di Tedua ti dà la stessa sensazione straniante e un po’ caotica di quando ti imbatti per la prima volta nel free jazz: c’è qualcosa di magnetico e ipnotico in quello che stai ascoltando, ma l’apparente mancanza di struttura, regole e prevedibilità ti fa girare la testa e ti lascia con più domande che risposte. Ti è piaciuto? Non ti è piaciuto? Ci hai capito qualcosa? Nel dubbio, te lo riascolti. E un riascolto dopo l’altro, un ascoltatore dopo l’altro, questo ventiseienne nato a Genova e cresciuto tra Milano e la Liguria è riuscito a conquistarsi un pubblico estremamente eterogeneo, che va dai ragazzi giovanissimi ai suoi coetanei e sfocia perfino in fan e artisti che hanno il doppio della sua età. Cosa che nel solo 2019 ha portato, come diretta conseguenza, a dieci dischi di platino e nove d’oro per i singoli, più altri due dischi di platino per i suoi primi due album, Orange County California e Mowgli. Attualmente è primo in classifica per la seconda settimana di seguito con il suo mixtape Vita vera – Aspettando la Divina commedia, che ha debuttato in due tranche il 5 e il 12 giugno.

A rendere Tedua così unico e disorientante è la sua passione per i flussi di coscienza intimisti e accorati, ma soprattutto il suo flow, che gioca sul tempo dilatandolo o contraendolo come nessun altro aveva ancora fatto finora. «Non è una scelta, è il mio modo di fare musica», spiega semplicemente. «Non studio a tavolino la struttura delle canzoni, non voglio fare hit senza contenuti o stile». È ben consapevole che non tutti hanno gli strumenti per comprenderlo, però: «Non mi aspetto per forza di essere capito: il mio è un rap fatto per i rapper, o per chi già ascolta questo genere. Per me, che non ho letto tanti libri, questa musica è stata una vera scuola di vita. Da Gué Pequeno, che è un classicista, ai tempi di Mi fist e Penna capitale ho imparato tantissime cose. E Dargen D’Amico faceva testi talmente complicati che dovevo andare a rileggermeli per comprenderli. Purtroppo non si può dire lo stesso di gran parte del rap attuale». Ci tiene a sottolineare che non ha nulla contro le rime fini a sé stesse, perché sa bene che anche questo fa parte del dna del genere: «Non pretendo profondità da ogni pezzo, altrimenti sarebbe una palla infinita. Una volta, però, sapevamo distinguere tra chi valeva e chi non aveva né arte né parte. Da quando abbiamo iniziato a fare i wannabe americani, senza mantenere lo spessore italiano, il livello medio si è abbassato. Penso di essere arrivato dove sono proprio perché ho mantenuto questa identità molto locale».

Questa italianità è evidente anche dal prossimo album che ha annunciato proprio qualche settimana fa, ispirato da Dante e dalla Divina commedia. Sarebbe dovuto uscire nella prima metà del 2020, e molti hanno interpretato la scelta di pubblicare un semplice mixtape, per quanto doppio, come una sorta di “sostituzione in corsa” per non bruciarsi il disco vero e proprio nel bel mezzo dell’emergenza Covid19. In realtà non è proprio così. «Già a gennaio avevo scelto di uscire con un mixtape che avrebbe anticipato l’album», racconta. «Percepivo che ci sarebbe stata molta attenzione attorno a me e, dopo un anno di tour e di successi, avevo avuto poco tempo per stare in studio: per il mio nuovo lavoro volevo assolutamente tirare fuori qualche pezzo che battesse Vertigini (uno dei suoi brani più famosi e apprezzati, nda). Non volevo trasformare il mio percorso artistico in un percorso agonistico, solo per la fretta».

Curiosamente, proprio nel 2020 è uscito un altro album rap a tema Divina Commedia, Infernvm di Murubutu e Claver Gold, due pesi massimi della scena underground, musicalmente e anagraficamente molto distanti da Tedua (il primo ha 45 anni, il secondo 34). La cosa ha colpito molti fan, anche se si tratta di una semplice coincidenza, visto che entrambi i progetti, non annunciati, erano in cantiere da più di un anno. «È un beffardo incrocio di destini, di cui magari prima o poi rideremo insieme», dice Tedua. «Rispetto moltissimo Claver Gold e Murubutu: il loro disco l’ho ascoltato di sfuggita per non farmi condizionare, visto che il mio non è ancora terminato, ma posso già dire che saranno totalmente diversi, anche perché siamo artisti diversissimi. Sono sicuro che il pubblico riuscirà ad apprezzarli entrambi».

Nell’ambiente hip hop c’è la leggenda metropolitana che i mixtape siano tendenzialmente costituiti dagli scarti di lavorazione degli album: brani che per un motivo o per l’altro sarebbe impossibile o inopportuno inserire in tracklist, e quindi confluiscono in prodotti minori per importanza e diffusione. Non è il caso di Vita vera, però. «Dante ha scritto la sua Vita nova prima della Divina commedia, a me sembrava giusto scrivere la mia Vita vera”», sorride. «In realtà avevo la necessità di fare musica senza alcun paletto radiofonico o discografico. Non sono avanzi, ma canzoni fatte senza sbatti e ossessioni, in maniera genuina, con le persone che avevo intorno». Persone del calibro di Massimo Pericolo, Ghali, Shiva, Dargen D’Amico, Gemitaiz e MadMan, ma anche amici di sempre come Ernia, Bresh, Vaz Té e tanti altri. Paradossalmente, il fatto di avere già quasi pronto il tape è stato una vera benedizione per lui, spiega con grande onestà: «Mi sono sentito fortunatissimo, perché nonostante il coronavirus avrei potuto guadagnare qualcosa anche per il 2020. Se non avessi buttato fuori nuova musica, vista la situazione avrei incassato pochissimo dalle royalties e dalla Siae, e zero dai live. Non faccio musica per soldi, ma non voglio essere ipocrita: non ho una famiglia alle spalle che può aiutarmi, a differenza di tanti altri io ho bisogno di guadagnare».

Fin da piccolissimo, Tedua non ha certo avuto una vita semplice: abbandonato dal padre a pochi mesi, si trasferisce a Milano con la madre in una casa di accoglienza, poi a 3 anni in una famiglia affidataria, e poi in un’altra ancora. Tornerà nella sua Genova solo in terza media, ma ci vorranno anni – e il successo discografico – prima che possa dirsi finalmente fuori dai guai. Tra i rapper italiani di nuova generazione è uno dei pochi che ha davvero visto e vissuto certe situazioni, ma non ce l’ha con chi si costruisce un personaggio di quel tipo pur non avendone le credenziali. «Non sono un frustrato, quindi non patisco chi millanta: ognuno farà i conti con la propria coscienza». È anche consapevolissimo del fatto che esistono diverse gradazioni di disagio, e che tutto è relativo. «Ho avuto un passato difficile, ma ho anche viaggiato tanto, dalle favelas di Bogotà alle tendopoli in Cambogia. Non posso ritenermi alla pari di un bambino cresciuto nelle baraccopoli o rapito dalle milizie afghane. La nostra percezione della povertà è basata sulla società occidentale, ma è chiaro che un bambino povero italiano avrà comunque dei traumi grossi: alla sua età non è in grado di fare il paragone con quelli del terzo mondo, che sono ancora più sfortunati». Non nega di essere stato lui stesso una testa calda in passato, «vittima del machismo di strada in un quartiere in cui si cresceva a pane e pugni», ma ora ha decisamente cambiato registro. «Mi considero un rapper/assistente sociale: parlo di strada, ma il mio impegno è per il recupero sociale dei ragazzi cresciuti come me. Voglio che studino, che non si droghino, che si allenino e imparino a controllare le loro emozioni anziché fare brutto». L’augurio è che questo nuovo album, anche se ancora in lavorazione, lo aiuti a diventare a suo modo il sommo poeta del rap.

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