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Tash Sultana: «Omofobi, transfobici e razzisti, siete i benvenuti ai miei concerti»


Un tempo chiedeva loro di andarsene. Ora è convinta che «potrebbero imparare qualcosa stando mezzo al mio pubblico». E un'altra cosa: basta considerarla la ragazza con la loop station. «Sono molto altro»

Foto: Dara Munnis

La musica le ha salvato la pelle: all’età di 17 anni, dopo aver ingerito dei funghetti allucinogeni, Tash Sultana si è ritrovata in uno stato di psicosi durato mesi, non riusciva nemmeno più a distinguere tra fantasia e realtà. Per fortuna una registrazione casalinga della sua Jungle condivisa su YouTube nel 2016 le è valsa decine di milioni di visualizzazioni e le ha regalato visibilità: la songwriter australiana ha talento da vendere, sarebbe stato un peccato se la sua storia fosse finita male.

Certo, la storia dell’artista maledetta che strimpella da quando aveva 3 anni, suona una quindicina di strumenti e ha fatto la gavetta proponendosi come busker per le strade di Melbourne cattura l’attenzione, ma basta guardarsi una performance di Tash per pensare che ogni tanto la meritocrazia fa il suo mestiere. Dal vivo, chitarra elettrica, loop station, pedaliera, tastiere, drum machine, tromba e grande abilità nel beatboxing, forte di quel miscuglio di pop, reggae, folk, blues dal groove contagioso che caratterizza l’album d’esordio del 2018 Flow State, la polistrumentista oggi 25enne sembra una sorta di Ed Sheeran dall’animo più selvatico e ribelle. Una “one-woman band”, l’hanno definita, ma Tash Sultana, che lo scorso maggio ha pubblicato il nuovo singolo Pretty Lady, non ha intenzione di lasciarsi imprigionare in un’etichetta. Ci si è messa di mezzo la pandemia e ha dovuto annullare tutto, ma lo scorso dicembre aveva annunciato un tour europeo che l’avrebbe portata anche in Italia, per la prima volta con un gruppo. «Però ho sempre un sacco di piani diversi in testa», precisa.

La pandemia ti ha fatto cambiare idea?
No, ma intanto dipende da quando potremo di nuovo fare concerti e a parte questo sono sempre piena di progetti. Di certo adesso devo finire il secondo disco, dopodiché voglio provare un sacco con la band per il prossimo tour, ma questo non cambierà ciò che ho fatto finora: ci sarà una parte di live con me da sola sul palco, dopodiché si aggiungeranno gli altri musicisti ad accompagnarmi.

Com’è nato il singolo Pretty Lady?
Ho scritto questa canzone sei anni fa, mi capitava di proporla quando suonavo per strada, ma se già allora la modificavo di continuo improvvisando anche nuove parole e facendo freestyle, la versione che ho pubblicato adesso è ancora diversa, è praticamente una riscrittura. L’ho riesumata come singolo di lancio del nuovo disco, dopodiché, dato che la pandemia ci ha costretti alla quarantena, ho deciso di accompagnarla con un video realizzato con i fan, le loro famiglie, i loro amici: una specie di sfida danzante per un brano semplice che credo trasmetta gioia e metta di buonumore.

La quarantena com’è andata?
In sé la quarantena è una merda, meno male che vivo in mezzo ai boschi in una grande proprietà, non posso lamentarmi. Quando è scoppiato questo casino ho immediatamente avvertito la frustrazione di non poter più suonare dal vivo almeno per un po’, ma poi ho pensato che siamo tutti sulla stessa barca e alla fortuna di vivere in un Paese con un buon sistema sanitario, oltre che di avere tutto ciò che mi serve: un tetto sulla testa, la possibilità di comprare il cibo che voglio… Nei territori più poveri è molto più difficile affrontare una pandemia.

Puoi anticipare qualcosa del nuovo disco a cui stai lavorando?
Innanzitutto rappresenta un passo in avanti rispetto a Flow State, o almeno spero. Quell’esordio era una raccolta di canzoni che avevo nel cassetto e che non avevo mai registrato, le avevo buttato giù mentre ero in giro a suonare. Per questo secondo disco l’approccio è diverso, sto scrivendo e arrangiando tutto in studio, sfruttando tutto il tempo che mi serve e con la massima libertà. E rispetto ai tempi di Flow State sono più grande, credo sia normale maturare, no?

Mi pare di capire che tu non voglia più essere considerata “la ragazza con la loop station”, come sei stata definita in varie occasioni.
Non direi ragazza, direi persona. E sì, sono etichette superficiali quelle, se fossi stata bionda mi avrebbero descritta come “la ragazza dai capelli biondi”. Peccato che non si possa ridurre la personalità di un individuo focalizzandosi su un unico aspetto, per giunta esteriore. Io ho scritto pezzi in acustico per diversi anni e quando ho iniziato a fare qualche concertino nessuno ci badava; non appena ho cominciato a suonare chitarra elettrica e loop station ho catturato l’attenzione di molti e così ho continuato, divertendomi anche un sacco. Ma non scrivo solo in quel modo, a volte parto dal pianoforte, a volte dalla chitarra acustica, dipende. Nel prossimo album ci saranno solo due canzoni incentrate sulla loop station, non c’è dubbio che io sia anche questo, ma il resto sarà diverso, perché non sono solo quella cosa lì.

Foto: Dara Munnis

Prima mi hai corretto, quando ti ho chiamata “ragazza”: perché vuoi che dica “persona”?
Detesto essere chiamata in quel modo, come detesto quando ci si rivolge a me come “miss”. Persino sui documenti non mi piace usare quel termine.

Non ti riconosci in un genere, è questo che intendi?
Non guardo a me stessa da quella prospettiva: io sono Tash e mi considero semplicemente Tash, tutto qui. In questo senso non mi interessa nemmeno definirmi femminista, non amo le categorizzazioni, desidero solo vivere la mia vita e non penso che tutti debbano prendere posizione o politicizzarsi; c’è tanto spazio nel mondo per i militanti e forse io non ho così tanti problemi con il mio Paese, l’Australia, da essere spinta a protestare per qualcosa. Non ho mai subito discriminazioni, sono sempre stata trattata equamente, nessuno mi ha mai detto come comportarmi. Gli stronzi ci sono ovunque, ovvio, ma a quelli dico semplicemente di andarsene affanculo.

Però durante alcuni concerti è capitato che invitassi le persone omofobiche, transfobiche e razziste – se presenti – ad andarsene.
Vero, ma ho smesso.

Come mai?
Mi sono resa conto che non aveva senso: ai miei concerti c’è gente di tutti i tipi, giovani, vecchi, gay, etero, gender free, alieni. Se a un live si presentasse una piccola minoranza di intolleranti, beh, potrebbero solo imparare dall’esperienza di stare in mezzo a gente così variegata. Per cui non li mando più affanculo, do loro il benvenuto.

Com’è cambiato il tuo rapporto con la musica in questi anni?
Ora è diverso, sarà che la musica racconta la vita, cresce con noi. Parlando di scrittura dei pezzi, anche se adesso rifletto su tematiche su cui prima magari non mi soffermavo, come dicevo me ne sto lontana dalla politica: le mie sono piccole storie legate a ciò che provo in determinate circostanze, illustrano un mondo interiore.

La musica è una terapia?
Assolutamente sì, soprattutto quando ti mettono in quarantena forzata causa pandemia! (ride, nda). Non so se avrei superato tutto questo senza la musica, sul serio, creare aiuta molto.

Hai anche qualche hobby che ti fa stare bene?
Il giardinaggio e il surf. Ma durante il lockdown le spiagge erano chiuse… In quel periodo mi sono data alle pulizie. Oddio, ho pulito casa così tanto che potevi mangiare direttamente sul pavimento! È strano, è come se i ritmi si fossero rallentati all’improvviso, soprattutto per chi come me era abituata a stare sempre in giro è stato un cambio enorme. Però sono contenta di questo, ho dovuto imparare a rallentare e ad apprezzare il tempo con la mia famiglia, la mia partner, il mio cane. Non sentirsi tante pressioni addosso aiuta l’ispirazione.

Foto: Dara Munnis

I tuoi esordi da busker, invece, cosa ti hanno insegnato?
Che le monete pesano tantissimo. E che suonando per strada puoi incontrare persone incredibili, ma anche una marea di ubriaconi. C’è parecchia gente fuori di testa là fuori… Una volta una signora, vedendomi con la chitarra e il trolley con tutta la strumentazione, mi chiese come facessi a trasportare da sola tutta quella roba e quando le risposi scherzando che ero una maga prese a dirmi che mi odiava, che lei era molto religiosa e che io ero una strega; dopo che se ne è andata non l’ho mai più rivista. Ma ero ironica! Però mi divertivo così tanto a suonare in giro, purtroppo credo di essermene resa conto veramente solo quando quel periodo è finito.

Dopo è stata più dura? Qual è stato il momento più difficile, fino ad oggi?
Quello in cui ho avuto visibilità a livello internazionale e la gente ha iniziato a riconoscermi per strada: mi sono spaventata molto. Non sono una persona che vuole svelare tutto di sé, quando faccio le interviste o vado in televisione tiro fuori il 10% di ciò che sono, e questo proprio perché mi terrorizza l’attenzione dei media.

E i social media non aiutano.
Esatto. Trent’anni fa pochissimi avevano il computer, Internet non era ciò che è oggi, se volevi potevi non farti trovare. Adesso basta uscire di casa per correre il rischio che qualcuno ti fotografi o ti filmi con il cellulare. A me terrorizza.

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