Synecdoche, Ben Frost | Rolling Stone Italia
Dentro ‘Scope Neglect’

Synecdoche, Ben Frost

Dopo i successi al cinema, serie e teatro, il compositore torna con un album intricato che ricorda la meta-narrazione del film di Charlie Kaufman tra rimandi ai Talk Talk e a Terry Riley. Ce lo siamo fatti raccontare

Synecdoche, Ben Frost

Ben Frost

Topper Komm

Dopo anni trascorsi a scrivere musica per cinema, a dirigere due opere teatrali (The Wasp Factory nel 2013 e The Murder of Halit Yozgat nel 2020), e dopo l’incredibile successo di Dark e 1899 di cui ha curato le colonne sonore, il ritorno discografico di Ben Frost con Scope Neglect è un racconto autobiografico della sua mutevole carriera.

Scope Neglect è infatti un’ennesima sfida per l’artista australiano (trapiantato in Islanda) dopo aver trascorso gli ultimi anni tra svariati lavori collaborativi (l’ultimo, Vakning, uscito lo scorso anno con l’italiano Francesco Fabris) e un’idea di musica che non si ferma al dialogo con una sola platea, ma che punta a stimolarne di altre (Netflix, le collaborazioni con Amnesty International, il gigante di sviluppo videogame Ubisoft e un tour con gli Swans). Quando lo raggiungiamo per approfondire il racconto, Frost ne parla come qualcosa che si muove in maniera diversa rispetto a quanto realizzato nelle ultime (fortunate) esperienze: «Quest’album è in qualche modo connesso al lavoro come compositore per il cinema, ma direi che è più una reazione contraria piuttosto che un’evoluzione. Per il modo in cui è costruito rifiuta in maniera feroce quel modo di comporre, vuole invece essere una struttura indipendente. Volevo dare vita a una creatura unica, che avesse una forza diversa, e non credo che una scrittura neo-classica, da score per film music, ne avesse le potenzialità».

Nonostante siano passati ben sette anni dall’ultimo lavoro in studio The Centre Cannot Hold, nella vita artistica di Frost è successo un po’ di tutto. «Sì, non si è mai trattato esattamente di una pausa. Da quando faccio musica ho sempre cercato di collaborare con più persone e specialmente durante gli ultimi anni è accaduto in larga scala, per lavori molto grandi. Sono molto contento di ciò che è successo, e ad essere totalmente onesti mi ha forse tolto più tempo di quanto prevedessi. Si è trattato di una dispersione di energie che ha influito sulla mia capacità di scrivere musica per il gusto di farlo, ma si sa, a questi livelli può diventare un gioco pericoloso».

Ben Frost - The River of Light and Radiation (Official Visualiser)

Frost ha deciso di tenere tutto il comparto strumentale come centro di questo lavoro, eliminando testi e batterie così da concentrare l’attenzione su chitarre (spesso detunate), basso e synth, in modo da costruire un’energia quantomeno disturbante. A voler parlare di ispirazioni e di generi, Scope Neglect contiene infatti tutto e il contrario di tutto: il disco esplora elettronica glitch, atmosfere industrial e momenti ambient, con l’eco metallico di una chitarra a guidare l’ascolto. Il risultato è un po’ figlio del titolo che fa riferimento all’atto di “trascurare il contesto”. Registrato insieme al chitarrista Greg Kubacki (della band newyorkese Car Bomb), il bassista Liam Andrews (dei My Disco di Melbourne) e con l’apporto dell’ingegnere del suono Ingo Krauss (noto per lavori con Swans, Nick Cave e Mick Harvey), Scope Neglect fotografa da molto vicino le possibilità versatili del linguaggio di Frost, in grado di costruire e distruggere temi dove chitarre elettriche suonano su partiture ambient e costanti echi drone dialogano con cupi inserti di basso.

E il suo, per tornare alla metafora che guida la conversazione, è quasi un ruolo da attento regista: «So come produrre un disco, ma come per un’opera teatrale ho sentito il bisogno di avere dei personaggi che entrassero a prendersi la scena. Un qualcosa che avevo già sperimentato lavorando con Steve Albini un po’ di tempo fa (per The Centre Cannot Hold nel 2017, ndr): rendendomi conto che avevo davvero l’opportunità di poter lavorare con una leggenda di quel calibro, l’album era a quel punto scritto, non c’era davvero molto a cui pensare. Stessa cosa con Greg (Kubacki, ndr), che non avevo mai incontrato e che ho deciso di invitare in studio per iniziare a pensare a Scope Neglect: gli ho chiesto di salire su un aereo diretto a Berlino e l’album a quel punto aveva già preso vita propria. Una volta scelti gli interpreti, il resto andava solo stimolato in corso d’opera come succede nel teatro».

Tra una pellicola di Michel Gondry e una sceneggiatura di Charlie Kaufman, l’anima del disco sembra un’ambiziosa trasposizione musicale di entrambe le nature. Come in Synecdoche, New York (a regia proprio di Kaufman), in cui il regista Caden Cotard inizia a lavorare su un progetto teatrale che annulla la linea tra la vita reale e la finzione – in un espediente meta-narrativo tipico del regista e sceneggiatore statunitense – Frost ha messo insieme un puzzle che sfida le aspettative convenzionali della produzione: durante le registrazioni ha rivelato solo alcuni parti dell’arrangiamento ai suoi collaboratori Kubacki e Andrews, che hanno così dovuto fare affidamento al proprio istinto per inserirsi musicalmente nei brani. Meta-narrazione, meta-produzione, ma sempre con uno scopo, senza mai finzione.

Il making di Scope Neglect ha poi due riferimenti molto specifici e persino molto particolari se accostati, come la carica di esperimenti trasversali non bastasse già, lungo le otto tracce dell’album. Da una parte, il padrino del minimalismo Terry Riley, artista dell’incontro col caso e della relazione con la dimensione aleatoria della musica: «Di Terry Riley ricordo le sue performance con macchine a nastro e loop, in cui improvvisava live su degli organi. Sembrava come esibirsi con sé stesso, con un piano da seguire ma allo stesso tempo non veramente in controllo delle cose. Con così tante variazioni alla formula diventava un dialogo di continua azione e risposta, una creazione spontanea aperta agli impulsi. A Rainbow in Curved Air ne è un perfetto esempio». Il tutto con innovative tecniche di registrazione ispirate a Mark Hollis dei Talk Talk e lo storico ingegnere del suono Phill Brown: «Tra le cose che ho letto su quelle sessioni in studio c’era questo particolare processo che prevedeva delle normali registrazioni della band seguite dall’ingresso di collaboratori, a pezzi praticamente finiti, che non avevano però veramente idea di cosa fosse stato suonato. Questo perché gli venivano date delle cuffie per ascoltare solo una parte dell’arrangiamento, quella dove loro volevano che il collaboratore intervenisse, così per capire che tipo di magia poteva nascere. In modo molto simile è quello che ho provato a fare con Greg e Liam, fornendogli un’architettura dei suoni e di quello che stavo scrivendo».

Ben Frost - DARK Netflix Series Soundtrack

Lo spazio di contaminazione cercato così fortemente fa centro in brani come Chimera, Turning The Prism o Tritium Bath, portati verso confini insicuri ma in qualche modo previsti da questo processo di scrittura e che confermano lo sviluppo di una trama, con dietro la “direzione” dello stesso Frost, che rimane sempre molto sfuggente, con echi da thriller psicologico dalla difficile lettura. Come lui stesso conferma: «Mi interessava soprattutto nutrirmi di nuovi spazi in cui non ero ancora stato, in questo il mio interesse per la musica e per l’arte in generale somiglia metaforicamente alla scalata di una montagna: una volta in cima è finita, mi annoierò a rifarlo. Questa è musica che non esisteva ancora, e questo è il motivo per cui voglio contribuire a portarla in vita».

Il discorso sulla musica elettronica in grado di uscire dal suo seminato e ibridarsi in contesti in cui in passato era probabilmente rigetta sembra un traino fondamentale nel linguaggio che Scope Neglect porta alla luce, e che per Frost è in tal senso un vaso di Pandora da scoperchiare per giusta causa: «Credo qualcosa si sia perso nell’ondata di novità portata dai produttori di musica elettronica da cameretta, i cosiddetti bedroom producer. Perché in fondo la musica non è fatta solo da studio e attrezzature che utilizzi. C’è un’enorme quantità di conoscenze tra produttori ed ingegneri del suono di musica rock’n’roll o world music più tradizionale che andrebbe sfruttata, coinvolta. Perché non si va ad approcciare gente come Alan Moulder, Flood o Spike Stent? Le generazioni più giovani sentono che questi mondi non sono davvero collegati. Per me al contrario è davvero entusiasmante l’idea che quella, di generazione, viva di musica e sia ancora da qualche parte del mondo in studio. E che possa darti una conoscenza quasi enciclopedica sulla scrittura musicale».

Ben Frost farà tappa anche in Italia, nel corso di un tour che, tra Europa e Nordamerica, si fermerà all’Hangar Club di Foligno per Dancity Echoes (19 aprile), a Catania (a Zō Centro Culture Contemporanee (20 aprile) e in Triennale a Milano (23 aprile). Sulle aspettative, le idee sembrano molto simili a quelle che hanno contraddistinto la realizzazione dell’album: «Ha una natura davvero unica, ciascuno mette il suo apporto in un’architettura di cose probabilmente mai fatte prima, o quantomeno non in questa maniera. Specie nell’unione tra chitarra elettrica ed il setup elettronico, che stiamo affinando performance dopo performance e che rimane un campo a metà tra la sfida e il fascino. E qui torniamo a Terry Riley: ciò che accade sul palco assume forma propria tutte le volte, non c’è nessuno che preme play e che rende le cose sempre uguali».

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