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Suede: «Vogliamo ancora sorprendervi»

Pochi gruppi invecchiano bene come Brett Anderson e soci, appena ritornati in scena con un disco che ha stupito tutti: «Quando vedo band della nostra generazione che fanno sempre lo stesso disco mi viene la depressione»

Foto press

Oggi le band non si sciolgono più, neanche quando dovrebbero. Eppure è difficile trovare formazioni storiche più toniche degli Suede, che giocano questo gioco dagli inizi degli anni ’90, e, dopo la reunion del 2010, continuano a pubblicare ottimi album. Non era facile per il frontman Brett Anderson non fare rimpiangere il talento di Bernard Butler, il chitarrista uscito dalla band nel 1994, che insieme a lui formava una versione minore, ma non meno eccitante (e litigiosa) della coppia Morris- sey-Johnny Marr. (Anderson e Butler si sono ritrovati per uno splendido disco insieme sotto il nome di The Tears, nel 2005. Su Morrissey e Marr, invece, ab- biamo perso le speranze).

Anderson vive un momento particolarmente fecondo: letteralmente (ha da poco avuto un figlio) e artisticamente. Ieri è uscito The Blue Hour, l’ottavo album in studio della band inglese, che arriva solo due anni dopo il precedente, Night Thoughts. Inoltre ha appena scritto un bellissimo memoir intitolato Coal Black Mornings, che racconta le origini umili e l’educazione artistica del cantante, e con molta classe interrompe il racconto nel 1993, appena pri- ma che gli Suede diventassero la migliore band d’Inghilterra (alla faccia di Oasis e Blur, e alla pari, forse, solo con i Pulp).

Il primo pezzo di The Blue Hour, As One, è una sorta di manifesto, l’annuncio che la band proverà cose nuove: «Ne vado piuttosto fiero, sì», commenta Anderson al telefono da Londra, «penso sempre che la prima traccia di un disco sia una sorta di àncora, un po’ come avevamo fatto con Introducing the Band in Dog Man Star (il loro capolavoro del 1994, nda). As One ha un suono unico, non assomiglia a nulla che abbiamo fatto in passato. Ha sorpreso anche noi». Il primo singolo, invece, è The Invisibles, un pezzo non esattamente catchy la cui scelta è già di per sé simbolica di un certo coraggio.

Wastelands, altra potente canzone con pedigree 100% Suede, avrebbe potuto essere una scelta più banale, ma anche più rassicurante: «Probabilmente sì, ma non volevamo che la gente pensasse: “Oh, è soltanto un altro album degli Suede”. Quando vedo band della nostra generazione che fanno sempre lo stesso disco, penso: “Mamma mia, che depressione”. Non voglio essere una di quelle band. Voglio ancora sorprendere la gente». Alcune canzoni dell’album sono inframezzate da parti spoken word: «Non mi pare una scelta così strana, è solo un altro tipo di suono, come può essere una chitarra. Forse ha qualcosa a che fare con il memoir, ho più fiducia nelle mie capacità di scrittura. Un altro brano in cui cerco di fare qualcosa di nuovo a livello narrativo è Roadkill».

Tra i molti meriti degli Suede, c’è quello di avere pubblicato uno dei migliori album di b-side di tutti i tempi: Sci-Fi Lullabies, del 1997. Anche oggi tengono fuori dai propri dischi un sacco di roba buona? «Uhm, no, oggi è diverso», riflette Anderson, con un filo di notalgia nella voce. «Scriviamo ancora un sacco di musica, ma abbiamo più chiaro quali canzoni funzionano e quali meno. Oggi rimpiango di non avere inserito pezzi come My Insatiable One o The Big Time, che ritengo l’apice della mia carriera, nei nostri album in studio. Ma che vuoi che ti dica! È tutto nel passato. Non posso farci nulla».

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