Stranglers, il punk nell’età della pensione | Rolling Stone Italia
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Stranglers, il punk nell’età della pensione

Erano più vecchi degli altri gruppi inglesi già nel 1977. Usavano le tastiere, facevano pezzi lunghi, erano fuori moda. Sono ancora degli outsider. «Le scelte impopolari sono una costante della nostra storia»

Stranglers, il punk nell’età della pensione

The Stranglers

Gli Stranglers sono un’anomalia del punk britannico, oggi come 45 anni fa, quando esordirono dal vivo con un sound decisamente primitivo, e nel 1977, quando pubblicarono l’album di debutto Rattus Norvegicus. Erano decisamente più vecchi degli altri gruppi, suonavano come una versione punk dei Doors, avevano in formazione un tastierista coi baffi e osavano persino fare dei pezzi da cinque o sei minuti. Eterni outsider, hanno attraversato tra alti e bassi i decenni successivi, fino ad arrivare al giorno d’oggi con una carica e una lucidità che pochi possono vantare. «È vero, siamo in età pensionabile», racconta il bassista storico Jean-Jacques Burnel al telefono, «ma ci sentiamo in ottima forma. Siamo costantemente in tour, abbiamo richieste da tutto il mondo e siamo stati costretti a rimandare le registrazioni del nuovo disco all’anno prossimo per poter tener fede agli impegni live».

Prima che pensiate a un gruppo che sfrutta l’effetto nostalgia o che capitalizza intuizioni giovanili, andate a un loro concerto (saranno a Bologna il 30 novembre, a Roma l’1 dicembre, a Torino il 2 dicembre, ndr) o guardatene uno in rete: forza, potenza, un repertorio imbattibile e, incredibile a dirsi, un pubblico molto più giovane di quanto ci si aspetterebbe da una band di veterani. «Ogni tanto mi fermo a parlare coi ragazzi che vengono ai nostri show per capire cosa ci trovino negli Stranglers. Molti di loro sono attratti dalla nostra storia personale, dalle vicissitudini del passato, dall’alone maledetto che in qualche modo ancora ci accompagna. Sembriamo veri e genuini, cosa che la maggior parte dei gruppi attuali non è».

Nel caso vi siate persi le puntate precedenti, ecco alcuni episodi salienti dei quattro Men In Black (all’epoca Burnel, Dave Greenfield, Hugh Cornwell e Jet Black, gli ultimi due ora sostituiti da Baz Warne e Jim Macaulay): arrestati per aver incitato alla violenza il proprio pubblico a Nizza durante un concerto o per detenzione di sostanze stupefacenti, boicottati da radio, televisioni e stampa grazie alle loro abitudini piuttosto violente verso i giornalisti, ignorati dalla quasi totalità dei colleghi musicisti. Eppure, capaci di guadagnarsi rispetto e fama a dispetto di tutto e tutti.

È di qualche giorno fa la pubblicazione del nuovo numero del magazine britannico Vive Le Rock. In copertina ci sono gli Stranglers accompagnati dal titolo di miglior band del 2019. «Dai, su, dimmi quale altro gruppo ha ricevuto un’onorificenza del genere dopo 45 anni», ride JJ. «C’è voluto un po’ di tempo, ora dobbiamo solo evitare di montarci la testa e continuare con la nostra carriera». Eppure gli Stranglers restano sempre “the men they love to hate”, per citare una loro canzone di qualche tempo fa, mai celebrati realmente per gli indubbi meriti artistici, persino in anni come questi, in cui una ristampa deluxe o un cofanetto con demo e inediti non si nega a nessuno. Black and White del 1978 e The Raven del 1979, per esempio, sono due capolavori che finiscono spesso per scivolare attraverso le pieghe del tempo senza che se ne parli con adeguata attenzione. Poco punk per i puristi, troppo punk per chi cerca del rock’n’roll, non sono mai stati capaci di adeguarsi ai gusti e alle mode, troppo avanti o indietro o chissà dove.

«Le scelte sbagliate o impopolari sono una costante della nostra storia, ogni decisione è stata istintiva e di pancia. Anche quando abbiamo cercato di pianificare qualche cosa, abbiamo combinato disastri. Però le nostre intuizioni, a volte, erano esatte, ma si scontravano però con quelle delle case discografiche per cui incidevamo. Costringemmo la EMI a pubblicare come singolo Golden Brown e finì in cima alle classifiche in mezzo mondo, Regno Unito compreso. Ci chiesero di fare il bis e gli consegnammo un pezzo lento, in francese, con un testo che parlava di un ragazzo che prima uccideva e poi mangiava la sua fidanzata. Non ci parlarono più per anni». La Folie, questo era il titolo del singolo, si adatta ancora alla perfezione alla parabola di questi vecchi punk. Verificate di persona, senza paura…

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