Rolling Stone Italia

Storie di stage diving, ossa rotte e concerti indimenticabili



Piero Pelù, Ministri, Punkreas, Fast Animals and Slow Kids, Auroro Borealo e Gomma raccontano com’è stato e come sarà dopo il Covid-19 buttarsi sul pubblico. A costo di uscirne senza scarpe e con una costola incrinata

Foto: Matteo Scalet

Tuffarsi dal palco, buttarsi sul pubblico, surfare sulla folla. In tempi di coronavirus parrà strano parlare di certe follie da performer scatenati che durante i concerti non vedono l’ora di mischiarsi ai fan in uno scambio collettivo ad alto tasso di sudore. Qualcuno lo riterrà persino fuori luogo, visto che ad oggi non si può sapere quando i concerti riprenderanno in un formato che prevederà numero chiuso e distanziamento sociale, figuriamoci se possiamo ipotizzare il ritorno ai live senza misure restrittive. Però pensateci bene: al netto dell’atteggiamento irritante dei tuttologhi da salotto che amano sottolineare come la ripartenza degli spettacoli dal vivo sia l’ultimo dei problemi (e quanto è facile mortificare i tanti professionisti del settore in un Paese dove la musica non è considerata né cultura, né lavoro), non c’è niente di male nel ricordare quella speciale energia che si respira quando ti ritrovi a cantare e a ballare con tutto te stesso in mezzo a decine, centinaia o migliaia di persone riunite nello stesso luogo per rendere omaggio a un artista, a una band e alle loro canzoni.

Si parla sempre dell’importanza di conservare la memoria per abbracciare uno sguardo più lucido e consapevole sul futuro, e allora rammentiamolo quanto è bello, esaltante ed emozionante andare a un concerto, e magari – perché no? – proprio a uno di quei concerti dove il cantante e musicista decide, d’un tratto, di lanciarsi sulle nostre teste per farsi portare in giro per il locale in un rituale catartico volto all’unione di tutti con tutti. Si chiama stage diving, diventa crowdsurfing, è un gesto che ha segnato la storia del punk e del rock in primis, ma abbracciato nel tempo anche da altre scene musicali. Ed è un abbraccio, un moto di fiducia reciproca, qualcosa per cui molti hanno dato l’anima e che ora manca, ad alcuni terribilmente. 

«Io non smetterò di buttarmi nella folla», afferma Piero Pelù, veterano della pratica dei tuffi dal palco. «La musica live ricomincerà dai teatri con distanze di sicurezza, immagino, ma troverò sempre e comunque un modo per infilarmi tra il pubblico. Non toccateci i concerti, se no quelli come me diventano matti». Il primo stage diving non si scorda mai, assicura: «Fu durante il primo concerto dei Litfiba, il 6 dicembre 1980 alla Rokkoteca Brighton di Settignano, fuori Firenze: una cantina stracolma di gente e amici belli carichi, dove in realtà non mi buttai una volta sola, ma ben tre. Mi ispirai a delle foto di Iggy Pop ai tempi degli Stooges. Niente di così pericoloso, il palco era alto pochi centimetri e il pubblico, un centinaio di persone, era vicino. Ad ogni modo al terzo tuffo la gente si aprì e atterrai in terra; fortunatamente ero una molla atomica, schizzai in piedi come se niente fosse».

In seguito sarebbero arrivati i grandi concerti nei palazzetti. «E quando devi lanciarti da un palco alto due metri, con le transenne lontane tre, cambia tutto: lì serve molta forza per evitare di schiantarti sul ferro, e pure tanta incoscienza, lo sanno bene le mie costole, ho la cassa toracica abbastanza deformata». Il tuffo più pericoloso? «Uno a volo d’angelo durante una data del tour di El Diablo nell’estate ’91, allo Stadio del Baseball di Rimini. Ero gasatissimo, c’era un botto di gente e avevo scommesso con due della security che non sarebbero riusciti a recuperarmi per i piedi, tra la folla, come facevano di solito. Finì che mi lanciai talmente lontano che effettivamente non riuscirono a ripescarmi e la gente pian piano mi portò giù, così mi ritrovai con centinaia di scalmanati su di me: ci vollero almeno venti persone del servizio d’ordine per tirarmi fuori, rischiai di soffocare».

Eppure, dice Pelù, c’è qualcosa che va oltre il senso del pericolo. «È l’adrenalina, non posso farne a meno». I danni collaterali, invece, sono come ferite di guerra: «Mi sono incrinato non so quante costole, le considero piccole medaglie appuntate sul petto. E non so quanti orecchini, collane e altro mi abbiano strappato di dosso; una volta per avere indietro una croce berbera cui tenevo molto ho dovuto barattare del merchandise! Ma è il bello del rock, mi è capitato persino di fare body surf facendomi trascinare dal palco al bancone per bermi degli shottini e tornare indietro: incredibile». 

Francesco Roggero alias Auroro Borealo la pensa allo stesso modo. Anzi, con l’ironia che lo contraddistingue si spinge oltre: «Lo stage diving è il motivo per cui faccio musica, facendo cagare come cantante e compositore, e non avendo messaggi da comunicare, è l’unica cosa che mi rimane. Ed è la più vicina a volare, perché ti dà la libertà di demandare ogni tipo di funzione motoria, di paura e di responsabilità: ti butti e vedi che succede». È anche una questione di fiducia, quella fiducia che nella vita di tutti i giorni abbiamo sempre più timore di dare. «Nel momento in cui ti lanci i fan sanno che se non ti prendono ti farai male, di fatto è come mettere la propria salute nelle loro mani», spiega il 35enne bresciano, un passato nei PAY, nei Da Rozzo Criù e nei Culo Di Mario. «Venendo dal punk quella cosa lì ce l’ho nel sangue: il primo stage diving da spettatore lo vidi a un concerto dei Meganoidi nel 2001; il mio primo da performer lo tentai al Nautilus di Cardano al Campo nel 2006 con i PAY».

Da quel giorno non ha più smesso. «E posso dirlo? Facile fare stage diving con davanti 1000 persone, prova a davanti a 20 e dal bancone di un bar! Io non mi sono lasciato sfuggire un’occasione, per fortuna peso 59 chili, mi si sorregge facilmente. Una volta sono anche andato dal palco a una sorta di pertica che stava in mezzo al pubblico, su cui mi sono arrampicato per poi ributtarmi sulla gente e farmi riportare indietro: doppio stage diving!». Le sensazioni sono tanto ineffabili quanto potenti, confida Auroro Borealo: «Non ho mai avuto paura, lo faccio in media tre volte a concerto e una volta tra il pubblico non mi accorgo di nulla: se mi palpano, se mi strattonano, se mi stringono… zero. In quel momento sono da un’altra parte, in un altro mondo».

Di qui l’idea di sfidare il Guinness dei Primati per il crowdsurfing più lungo della storia; il record attuale, detenuto dal dj olandese Giel Beelen, è di 2 ore, 30 minuti e 30 secondi. «Vorrei tentare il prossimo dicembre ai Magazzini Generali di Milano, ma chissà se dovremo posticipare la data. Quel che spero è che questa pandemia non cambi la testa alle persone, la musica italiana stava vivendo uno stato di grazia e ora sarebbe un peccato perdere quel tesoretto di attenzione. Di mio potrei anche buttarmi dal palco e surfare sulla folla con mascherina e guanti o dentro a una palla di plastica trasparente come Wayne Coyne dei Flaming Lips, ma sinceramente preferirei tornare alle vecchie abitudini e al massimo tentare qualcosa alla cantante dei Beatsteaks, gruppo punk-pop tedesco: lui gira sulle teste del pubblico in piedi su una tavola da surf, dev’essere difficilissimo».

Raccogliendo aneddoti è facile intuire che per certi artisti il contatto con i fan è vitale e non importa se si corre il rischio di ferirsi, vedi la caduta di Cosmo al Concerto del Primo Maggio a Roma nel 2018. Certo, non sempre va per il meglio e capita pure che a finirci di mezzo siano le parti intime, basti ricordare il resoconto di un concerto degli Afterhours durante il quale Manuel Agnelli si tuffò, salvo poi ritrovarsi con i pantaloni in pelle strappati e una fan intenta a strattonargli i genitali. «Non parliamo di situazioni adatte all’intimità sessuale», commenta scherzoso Pelù, salvo aggiungere che «del resto, se ci offriamo sull’altare…». È innegabile, però, che la questione palpeggiamenti indesiderati esiste e può rappresentare ancor più un problema per le donne. «Io tendo a non pensarci, ma non siamo tutte uguali», dice Ilaria Formisano, la voce dei Gomma. «Per quanto mi riguarda ho fiducia negli esseri umani e questo, benché possa essere un errore, mi consente di affrontare liberamente anche un gesto come lo stage diving. Mi sembra assurdo che una donna debba limitarsi per paura di essere toccata irrispettosamente, sono convinta che se accadesse una cosa del genere sarei pronta a reagire e a gestire la situazione, ma questo vale per me, molte ragazze probabilmente si paralizzerebbero, non si può generalizzare».

Altro tema sono gli ‘scippi’. Se a Pelù hanno rubato monili di vario genere, Auroro Borealo racconta che la merce più ambita mentre sei là per aria sulle mani della gente sono le scarpe. E dato che non ci si può permettere di perderne un paio a concerto, si passa alle strategie: «Mi sono fatto furbo, uso delle Adidas Gazelle che persino io fatico a sfilarmi». Mentre Divi dei Ministri sostiene che da questo punto di vista l’ideale sono le Converse alla caviglia: «Scavallarle è dura e in più sono leggere, non possono fare male a nessuno». Il suo stage diving più clamoroso – aggettivo suo – risale al 2007: «Suonavamo alla Festa dell’Unità di Osnago, mi sono sentito un dio in terra sollevato dalle mani». E non si pensi sia mero narcisismo, precisa: «Ho iniziato a buttarmi dal palco per ammazzare un po’ di timidezza; c’è chi lo vede come un gesto da smargiasso, ma in realtà stai solo cercando del contatto fisico in un momento in cui la gente ha tantissime aspettative nei tuoi confronti: mischiarsi a quella stessa gente è un modo per spezzare l’ansia». Poi c’è l’ebbrezza: «Devi mettere in conto botte e lividi, ma ti aiuta una sana anestesia dovuta al delirio collettivo che si genera, è un po’ come quando ti fai male durante una sbronza».

I Ministri al Carroponte di Sesto San Giovanni. Foto: Chiara Mirelli

Sull’agognata ripartenza post coronavirus, Divi non ha dubbi: «Dopo l’attentato al Bataclan avevamo paura? Forse un po’, ma ai concerti abbiamo continuato ad andarci. Io non mi farò condizionare, altrimenti mi sarei già fatto condizionare tempo fa dagli attacchi terroristici o da quegli idioti con lo spray al peperoncino, tra l’altro uno lo abbiamo avuto a un concerto dei Ministri. L’alternativa sarebbe diventare ipocondriaci, ma che senso avrebbe con tutte le malattie che circolano oltre al Covid-19? Ai concerti può succedere di tutto e la libertà della musica sta proprio in questo, se cominciamo a dire “e però c’è il rischio di contagi”, “e però se poghi ti fai male”, allora chiudiamo baracca e burattini: guardatevi la tv e fatevi le dirette su Instagram».

Già, Instagram, i social: in questo periodo sono dei complici, ma la forza della musica non può essere relegata alla dimensione digitale. «Non potrà mai esserlo», dichiara Paletta, bassista dei Punkreas dal 1989. «Ai nostri concerti sono gli stessi spettatori a fare stage diving e non sono esibizionisti come molti credono, ma conquistatori: non è da tutti sgusciare tra la security, salire sul palco e tuffarsi prima di essere braccati». Parola di chi lo stage diving lo ha praticato fino al 2005 o giù di lì: «E sempre senza abbandonare il basso! Che momenti… Il colpo d’occhio alle prime file, il tuffo, la gente che ti porta in giro per il locale tenendoti sollevato per aria: è qualcosa di impareggiabile, ti senti importante, un po’ come il capovillaggio di Asterix portato in giro sul suo scudo».

Punkreas, Leoncavallo, Milano. Foto: Angelo Becci

Secondo Paletta «esiste una cultura dello stage diving», ma se per Piero Pelù «il vero stage diving è il tuffo a volo d’angelo, con il viso rivolto verso la platea e le braccia aperte», per il bassista dei Punkreas la tecnica corretta è quella del salto in alto alla Fosbury, con torsione e atterraggio di schiena. «Il mio ultimo risale a una quindicina di anni fa, suonavamo al Pedro di Padova su un palco alto circa due metri e mezzo, mi sono lanciato così lontano che i primi spettatori che mi hanno afferrato mi hanno messo involontariamente le mani sui glutei facendomi ribaltare all’indietro e nel caos, benché non fossi caduto, mi si è scaraventato il basso in faccia. Risultato: mento tagliato e a fine serata corsa in ospedale a farmi ricucire».

Imprevisti del mestiere a parte, le emozioni che regalano stage diving e crowdsurfing sono qualcosa di unico per chi le ha provate. «Ti restano dentro», confida Aimone Romizi, il frontman dei Fast Animals and Slow Kids. Il quale prima si è esercitato da spettatore: «Avevo 12 anni, mio fratello maggiore mi aveva portato a un concerto hardcore di non ricordo chi, vedendo delle persone salire sul palco e lanciarsi chiesi come mai e attorno a me cominciarono a incitarmi a fare lo stesso. Il bello è che lo feci sul serio e non una volta, ma una decina! Essendo un bambino divenni lo show nello show, la gente urlava, la band mi caricava, fu molto divertente». La prima volta da cantante fu, invece, con i suoi FASK circa dieci anni fa. «Non avevamo ancora nemmeno il nome, ma ci avevano chiamato a suonare di spalla a due band in una specie di spazio occupato e ci mettemmo alla prova. Fu catastrofico, per l’ansia bevvi qualche birra in più e dato che la gente non mi sembrava abbastanza partecipe approfittai della presenza di un amico sotto al palco per buttarmi. Solo che lo feci con la chitarra e il cavo attaccato all’amplificatore e per non far cadere quest’ultimo Jacopo, il bassista, pestò il cavo ritirandomi indietro come un elastico e facendo franare la gente verso il palco assieme a me».

Fast Animals and Slow Kids all’Urban di Perugia. Foto: Giacomo Bai/dariopichini.it

Come in tutto l’esperienza conta, tempo dopo Aimone è riuscito a fare stage diving persino con la spalla rotta, bloccata con un tutore. «Suonavamo al Magnolia, a uno dei primi Woodworm Festival, non so perché mi tuffai lo stesso e lì avvenne qualcosa di speciale: i fan, sapendo che ero infortunato, furono delicati, mi crearono una sorta di culla». Memorabile anche il live del 2018 ai Magazzini Generali, quando Aimone si tuffò sulla folla dalla balconata del club, ossia da più o meno cinque metri d’altezza. «Pazzesco, ma ci sono anche stage diving patetici in cui ho fatto la balena spiaggiata. Tutto dipende dall’empatia che si crea con il pubblico. Durante alcuni concerti per quanto ti sbatti non si accende la scintilla, quindi lo stage diving non lo fai. Altre volte lo scambio viscerale diventa quasi incontrollabile e allora ti lanci senza remore».

Quanto al futuro che ci aspetta, la sua visione è chiara: «Non so quando ripartirà la musica dal vivo in Italia, ma so quanto ai nostri live non si possa prescindere dal contatto fisico. Il che significa che finché non potremo viverceli fino in fondo come in passato, infilandoci nella folla e tutto il resto, continueremo a scrivere e a incidere brani e album, ma non suoneremo dal vivo. Con limitazioni o misure restrittive non avrebbe senso, non per noi».

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