Stewart Copeland: «I Police con l’orchestra mi fanno sentire un vero musicista» | Rolling Stone Italia
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Stewart Copeland: «I Police con l’orchestra mi fanno sentire un vero musicista»

Il batterista racconta il suo ultimo progetto: stravolgere le canzoni del gruppo mischiando testi e riff. E poi, un'opera, le session nel suo studio, la reunion con gli Oysterhead e l’amicizia con Neil Peart dei Rush

Stewart Copeland: «I Police con l’orchestra mi fanno sentire un vero musicista»

Stewart Copeland

Foto: Manuel Nauta/Nurphoto/Shutterstock

Prima dell’inizio della pandemia, Stewart Copeland ha riunito gli Oysterhead, la jam band con Les Claypool dei Primus e Trey Anastasio di Phish per un paio di concerti a Broomfield, Colorado. Era la prima apparizione del gruppo dopo 14 anni e c’erano altri concerti in programma, ma quando il virus ha iniziato a diffondersi sono stati tutti rimandati.

«Avevamo tutti una gran voglia di suonare», dice l’ex batterista dei Police, al telefono dalla sua casa di Los Angeles. «I concerti erano davvero divertenti, eravamo entusiasti all’idea di farne altri». Alla fine, Copeland ha passato il suo periodo in quarantena facendo quello che chiama «lavoro da scrivania», cioè comporre e fare pratica nel suo studio casalingo, il Sacred Grove. «Sono molto impegnato, per fortuna», dice. «Ho finito un’opera che ho appena consegnato alla German National Opera, ma non andrà in scena ad agosto 2020 come previsto, ma l’anno dopo». Copeland sta anche lavorando a Police Deranged for Orchestra – un altro tour dal futuro incerto – in cui reinterpreterà le canzoni della vecchia band con arrangiamenti orchestrali. Gli abbiamo chiesto di raccontarci come sta vivendo la pandemia, se i Police potranno mai riunirsi e molto altro.

Come va? 

Beh, sono grato di essere dove sono, ma sono preoccupato per i miei 70 mila vicini di casa. È una forma strana di apocalisse, sempre dietro l’angolo. Non la vedi. Pensavo che l’apocalisse sarebbe stata come nei film, una devastazione visibile ovunque. A Los Angeles invece non possiamo vederla, siamo tutti chiusi in casa. Finisci per sentirti un po’ come Stalin. Devo ricordarmi di guardare fuori dalla finestra e riesco ad arrivare alla fine della giornata senza telefonate o cene – grazie a dio! – con tutte le benedizioni che ne derivano.

Che cos’è precisamente Police Deranged for Orchestra? 

Sto orchestrando alcune canzoni dei Police e le sto “stravolgendo” (deranging it in inglese, ndt), il che significa che prendo il testo di un pezzo e lo uso su un altro. Ho questo riff di chitarra che Andy Summers ha suonato in Can’t Stand Losing You e l’ho messo su Walking in Your Footsteps. Ho mischiato e messo insieme cose diverse. Questi stravolgimenti sono figli della colonna sonora di Everyone Stares, il piccolo film che ho messo insieme con i Super8 girati in passato. Ci sono anche i cantanti, mentre i vecchi tour erano tutti strumentali. Andy e Sting sono ovviamente insostituibili.

Ho iniziato nel mondo dell’arte dopo aver finito di comporre musica per film. Scrivevo concerti per la Pittsburgh Symphony e la Colorado Symphony, facevo concerti davvero eleganti dove sono in scaletta con Stravinsky e Ravel. Iniziavo a sentirmi un vero musicista. Poi mi hanno convinto a suonare alcune colonne sonore – musica che la gente conosce meglio – ed è stato fantastico. Sono partito in tour in Germania e Inghilterra, suonavo con un’orchestra di 60 elementi. È stata un’esperienza musicale straordinaria. Poi ho avuto problemi al braccio. Suonavo un paio di canzoni dei Police, quelle che ho scritto io. Canzoni oscure, interessanti. Questa volta, invece, sarà una cosa alla Roxanne, Can’t Stand Losing You e Message in a Bottle.

Hai imparato qualcosa di nuovo durante la quarantena? 

Tutti i miei amici musicisti stanno sperimentando una sorta di crescita personale. Stanno imparando a lavorare nel loro studio casalingo. I più giovani lo sanno già fare, scrivono le loro hit sul portatile. Ma nessuno di quelli della mia età lavora senza un fonico. E visto che faccio queste cose da anni, sono una sorta di roadie esaltato, mi chiamano e li aiuto a gestire la cosa. Quando torneranno al lavoro, sarà un bel problema per i fonici. Tutti i musicisti scopriranno la gioia di poter andare nel loro studio in qualunque momento del giorno e della notte, premere l’interruttore e iniziare a lavorare in una splendida solitudine creativa.

Anche io ho vissuto una crescita personale. La lavastoviglie adesso è la mia schiava. Controllo la lavastoviglie, cari familiari. State lontani dalla mia lavastoviglie! La controllo indossando guanti di plastica che non mettevo dai tempi del college. Ora so gestire lo sporco più viscido. Mandatemi i vostri piatti melmosi, li consegnerò alla lavastoviglie! State lontani dalla mia lavastoviglie! Questa è stata la mia crescita personale. I miei amici sanno lavorare con ProTools, io ho imparato a far funzionare la lavastoviglie.

L’industria dei concerti è in grande difficoltà, e nessuno sa cosa succederà in futuro. Riesci a immaginare un mondo senza grandi concerti fino al 2022? 

Sì.

Riusciresti a suonare dal vivo prima che il vaccino venga distribuito? 

No. Amo suonare dal vivo. Non posso usare la parola “tragedia”, ma è un grande dispiacere. La tragedia sono i miei 70 mila vicini. Quella è una tragedia. Il fatto che io non possa fare il figo di fronte a tanta gente è un rammarico. Insomma, adoro farlo. È davvero il senso della vita per tutti i musicisti, ma non è letteralmente necessario per vivere. Fare musica lo è, farlo con altre persone lo è. Il Sacred Grove al momento è popolato da una sola persona, ma non è la fine del mondo.

È una situazione particolarmente strana per gruppi come i Rage Against the Machine, che avevano pianificato la reunion. Pensa se fosse successo ai Police!
Sarebbe stato un problema per tutti. È davvero un peccato. Ho amici che mi dicono: «Se non riesco ad andare dietro a un microfono, dovrò vendere delle cose». Lo capisco. È l’apocalisse e colpisce le persone in maniera ingiusta. È strano, ma gli eroi dell’apocalisse, i combattenti, non sono i soldati, i giovani uomini e le giovani donne allenati per stare sul campo di battaglia. Gli eroi sono le persone più comuni. Chi lavora nel delivery o al supermercato. Gli infermieri e i dottori, ovviamente. Loro potrebbero aspettarsi un po’ di gratitudine per quello che fanno nella vita. Ma chi avrebbe mai pensato che ci saremmo ritrovati a ringraziare i tizi del delivery che girano al posto nostro? È bello, in un certo senso, che chi ha preso la strada più comune della vita sia diventato l’eroe del nostro tempo.

La crisi è diversa da un posto all’altro. Qui a New York, la polizia è accusata di aver arrestato delle persone per pregiudizi razziali, anche durante la pandemia.
Nel mio gruppo sociale si parla molto al telefono, sono in contatto con persone che non sentivo da anni. Anche nel mio mondo c’è una grande differenza razziale. I miei amici afroamericani conoscono tutti 10 persone che sono morte. I miei amici bianchi no. Ed è davvero strano, perché gli afroamericani che conosco sono benestanti e nella mia stessa fascia socioeconomica. L’unica cosa che ci distingue è l’infanzia. E invece l’apocalisse sembra prendersela con loro.

Prima della pandemia hai suonato con gli Oysterhead in Colorado. Com’è stato tornare sul palco con Les e Trey? 

Fantastico. Suonare negli istituti di cultura è una normalità per me. Certo, i concerti nelle arene sono i miei preferiti. C’è il palco, spazio per tante luci, e quelle degli Oysterhead spaccano. Sono le luci di Phish, le fa Chris Kuroda che è un genio.

È stato divertente, un evento eccitante, e non suonavamo insieme da 14 anni. Abbiamo sempre voluto farlo, ma il problema è che quei due tizi hanno delle carriere da seguire. Aspettavamo di iniziare il concerto, ascoltavamo la canzone che ci accompagna sul palco – una specie di sirena, come nell’inizio del nostro album –, e appena sentiamo il rumore del pubblico perdiamo la testa. Siamo saliti sul palco e l’atmosfera era incredibile. Ora, ho sentito quell’atmosfera solo con i Police. Con gli Oysterhead è diverso, certo. Con i Police il concerto è una cerimonia. Nella crew ci sono 200 persone che si occupano di tutto. Io sono solo un ingranaggio in una macchina gigantesca. Non ci appartiene più. Il pubblico possiede la musica, la crew il concerto.

Ma gli Oysterhead, cavolo. Io, Les e Trey saliamo sul palco e inventiamo roba per due ore e mezza. Suoniamo quello che tutti descrivono come “del materiale”. Ma in realtà serve solo a farci iniziare. Poi decolliamo e ci buttiamo nel vuoto, nessuno sa cosa potrebbe succedere. Noi non lo sappiamo di sicuro. Certo, qualche volta ci schiantiamo. Ci fermiamo e ci guardiamo. “Ok, qualcuno sa dove ripartire?”. Da musicista pop è mortificante. Ma il pubblico di una jam band, che è il migliore del mondo, viene a sentirti per quei momenti. Quello che sta accadendo non è mai accaduto prima e non succederà più: i tizi inventano roba sul palco davanti ai nostri occhi. Solo un certo pubblico è disposto a pagare per un’esperienza del genere. Lo senti nell’aria durante il concerto, non è diverso dal quel che succede quando un gruppo pop suona il ritornello che aspettano tutti.

Pensi che dopo tutto questo apprezzeremo di più la musica?
No (ride). Penso che la gente sarà un po’ più… non avrà voglia di pogare. Insomma, chi conosce la psiche umana? Stiamo facendo ipotesi. Ma al momento il virus è un problema per le esperienze collettive.

Eri molto vicino a Neil Peart. Sarai ancora scioccato dalla sua morte… 

Sì. Rispetto alla sua famiglia e ai suoi cari, ci è voluto più tempo perché mi colpisse. Era un grande amico e una persona unica. E gran parte del divertimento della mia vita era andare alla Bubba Cave e parlare di macchine con lui, oppure invitarlo al Sacred Grove con Danny Carey e altri. È triste, mi mancano quei momenti.

Quando se n’è andato ero contento per lui, perché la malattia andava avanti da quasi tre anni. A un certo punto aveva detto: «Guarda, sono ben oltre la mia data di scadenza. E sono ancora qui». Poi è passato un altro anno. Quando se n’è andato, il mio primo pensiero è stato: ha avuto una vita incredibile. È un bel modo per andarsene. Ha visto un treno in arrivo e si è preso un posto in prima classe. Lui era così. Poi ho realizzato: aspetta, non è più qui. Non posso più chiamarlo. Ho sentito la sua mancanza. Vorrei che fosse qui. Vorrei dirgli: «Questo era molto figo, Neil! Wow! Hai spaccato qui, amico! Ok, ora puoi tornare». E questa è la parte che continua a farmi male. Vorrei che fosse qui.

Puoi raccontarci l’ultima volta in cui vi siete visti? 

Alla sua festa di compleanno, quattro mesi prima della morte. Aveva ancora dignità. Si vedeva che era felice di esserci, ma allo stesso tempo la malattia iniziava a chiedere il conto. È passato molto rapidamente da stare non così bene a stare davvero male. Il deterioramento è stato graduale. Socialmente era ancora Neil. Era ancora il Dottore, il Professore. Poi ha detto: «Non salirò più su una moto e non mi siederò più dietro a una batteria». Era deluso, ma felice di essere ancora con noi.

C’è un suo ricordo che ami particolarmente? 

Ce ne sono un po’… Il preferito è sicuramente quando è venuto qui al Sacred Grove. Di solito la gente entra qui e dice: «Wow, un sassofono! Non l’ho mai suonato!», perché ho la più grande collezione del mondo di strumenti economici. Ho un esemplare di tutto. Ho una tuba, un sax baritono, un violoncello, i timpani. Molti musicisti vengono qui e si ritrovano in un negozio di caramelle. Alex Lifeson è venuto, una volta. Anche Snoop Dogg, e lui ha preso in mano di tutto. Neil si sedeva dietro la batteria e prendeva il comando.

A LITTLE MORE NOISE Peart, Carey, Stone, Scannell & Copeland at the Sacred Grove

In pubblico sembrava silenzioso e serio, ma so che in realtà era divertente, seducente… 

Sì. Era impassibile. Aveva alcune stranezze. Una delle più assurde, e tutti i fan dei Rush lo sanno, così come chi amava Neil, è che non sapeva ricevere un complimento. Non gestiva l’adulazione. I complimenti toccavano un tasto dolente. Dovrei parlare al passato… aveva, suppongo, un’aria austera, ma quell’aria così dura lo rendeva ancora più pungente (piercing in inglese, ndt), se permetti il gioco di parole.

In questo periodo abbiamo visto molte reunion “virtuali”, sia di band che dei cast di famose serie tv. Succederà qualcosa del genere con i Police? 

Siamo in contatto. È strano, ma tutti i miei amici cantautori – non farò nomi – sono online mentre lavorano nel loro studio, suonano la chitarra e cantano guardando in camera. Tutti dicono: “State al sicuro, lavatevi le mani” e… non è il loro lavoro migliore. Dall’altra parte, i miei amici batteristi stanno alla grande. Chad Smith, Travis Barker, Pocket Queen, Sheila E., Brad Wilk… Per qualche ragione, quando Ash Sean o Elise Trouw sono su Instagram, sono a casa. Funziona. I batteristi sembrano gestire questo fenomeno online meglio dei cantautori.

Per quanto riguarda le band… non so come potrebbe funzionare. Noi comunichiamo come sempre. E in più io, Les e Trey abbiamo un costante flusso di video idioti che continuiamo a far girare. Molti meme. Quindi sì, siamo in contatto. Ma non andiamo oltre alle videochiamate su Zoom.

C’è qualcos’altro che vorresti dire ai fan? 

Ricordatevi dell’amore. Amare è facile. È ricordaselo che è difficile. Se qualcuno vi taglia la strada o gira senza mascherina, potete giudicarlo, ma poi dovere amare.

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