Stefano Bollani, la musica che accade | Rolling Stone Italia
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Stefano Bollani, la musica che accade

Sta portando in giro otto progetti diversi. Lo abbiamo intervistato: la bellezza dell’improvvisazione, la necessità di evitare la routine, il mondo del pop visto da fuori, la faccia tosta che a volte ci vuole

Stefano Bollani, la musica che accade

Stefano Bollani

Foto press

In un’epoca in cui i musicisti si rincorrono per finire in classifica con una canzone da due minuti studiata per le piattaforme o per diventare virale sui social, Stefano Bollani è l’oggetto volante non identificato che dimostra che esiste vita – e una vita molto intensa – anche oltre a questo ansiogeno pianeta. La sua cifra è l’improvvisazione: suonando il pianoforte, scrivendo libri di paradossi, duellando sul palco con le parole di Alessandro Baricco, mettendo d’accordo ogni genere in tv con Valentina Cenni a Via dei Matti nº 0, componendo la colonna sonora di un film d’animazione selezionato a Cannes e preparandosi a un tour estivo di una trentina di concerti con otto diversi progetti e un nuovo quintetto. Il tutto come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Lo faccio perché il suo esatto opposto mi spaventa. Pensa a un musicista dei Rolling Stones che suona tutte le sere da 40 anni gli stessi pezzi».

Così Bollani in questa intervista non ci ha rivelato il segreto del suo eclettismo, ma qualcosa di più profondo: l’avversione al rischio di diventare un ingranaggio. E infatti predica l’imperfezione quando parla di Auto-Tune («non è questione di intonare gli stonati, non abbiamo bisogno di un suono che raffredda le emozioni»), rivendica il limite come cifra identitaria rispetto all’intelligenza artificiale («conosce talmente tante cose che non ha personalità»), sottolinea la distanza dalle logiche di Sanremo o delle major («io sono sempre stato alla larga dal pop che corre il rischio di giocarsi tutto in un brano o due nell’arco di un mese»). In un futuro distopico, che lo abbiamo forzato a immaginare, condividerebbe il ministero della cultura con un altro artista decisamente fuori dagli schemi: «Antonio Rezza, lui ministro e io vice».

Hai attraversato generi musicali diversissimi, dal pop al jazz, dalla classica al rock, calcando ogni tipo di palco e attraverso qualsiasi mezzo di comunicazione: come riesci a tenere insieme tutto in modo così coerente?
Non ne ho la più pallida idea, ovviamente. Posso dirti, però, che faccio tutto molto volentieri perché il suo esatto opposto, invece, mi spaventa di più. Cioè, per esempio, a uno dei Rolling Stones, che suona tutte le sere da 40 anni gli stessi pezzi con gli stessi arrangiamenti e insieme agli stessi musicisti, ecco, a lui sì che chiederei come fa a suonare sempre così.

La tua è una sorta di fuga dalla routine?
Sì, per me è naturale fare tante cose. Perché mi tiene vivo.

Infatti la tua carriera non è etichettabile. C’è stato un qualche frangente in cui ti sei sentito in difficoltà o l’attitudine al cambiamento vince sempre?
La mia faccia tosta vince, direi. Perché davvero, più o meno ci metto sempre la mia faccia tosta in ogni cosa che faccio. Se però devo ripensare a un episodio, direi l’esordio in veste classica con la Gewandhausorchester di Lipsia per registrare con loro la Rhapsody in Blue – Concerto in F. Be’, lì mi sono sentito più emozionato del solito. Perché in quel tipo di mondo ci sono delle questioni speciali da rispettare. La prima è che esistono delle note scritte e quindi esiste anche il concetto di errore, che nel mondo dell’improvvisazione non c’è. E la seconda è che bisogna vestirsi molto bene.

Non fa per te?
Ho sempre evitato di avere un costume di scena. Vorrei sempre salire sul palco come mi va quella sera. Invece lì, giustamente, hanno un’etichetta da rispettare. E allora ho fatto un po’ più di resistenza.

La faccia tosta è fondamentale per un musicista che vuole arrivare a certi livelli?
Direi di sì. Perché, diciamoci la verità, specialmente nell’epoca attuale, nella quale un musicista può vedere come suonavano tutti i grandi del passato, se non ha un po’ di faccia tosta rischia di smettere prima ancora di cominciare. Se ascolti Chick Corea, Arturo Benedetti Michelangeli o Steve Wonder, così come tutte le canzoni dei Beatles, non puoi che pensare che sia meglio lasciar perdere. Invece, per fortuna, il bello della musica è che c’è sempre bisogno di qualcuno che la porti avanti nel presente e che la declini nell’attualità.

Stefano Bollani - Rhapsody in Blue, Gershwin. United Soloists Orchestra

Dopo tanti anni di carriera, tra creazioni, esibizioni e divulgazioni, ti senti più un musicista, un artigiano o un intellettuale?
Mi sento più un musicista perché mi sembra che racchiuda le altre due definizioni che hai citato. Nel senso che racchiude l’artigiano, di sicuro, e a suo modo anche l’intellettuale per come intendo io un musicista, cioè come uno che sta utilizzando un linguaggio che è più alto della parola e che, quindi, presuppone una responsabilità morale e intellettuale.

Dell’improvvisazione hai detto spesso che è una forma di verità.
L’improvvisazione significa accettare quello che stai suonando in quel momento. E la prima persona che lo deve accettare sei tu, poi arrivano gli altri musicisti e il pubblico. Quindi la vera censura può arrivare solo da te. Se un artista si pone il problema di dover piacere a tutti, non esce. L’obiettivo che mi sono posto io, da sempre, non è raggiungere la perfezione, che è un obiettivo interessante e anche molto bello, ma suonare il momento e quindi, in quel momento, accettare ciò che salta fuori.

Dall’intenzione iniziale al risultato finale ci può essere uno scarto ampio?
Certo, perché magari avevi in mente un’altra cosa e la tua mano non ha fatto quello che pensavi. Oppure, mentre stai improvvisando il bassista fa un’altra variazione che ti stimola ad andare in una direzione diversa. Insomma, devi essere sempre aperto, sempre sveglio, sempre sul pezzo. A me piace molto quest’idea di musica che ti tiene in continua tensione.

Sull’improvvisazione c’è un grande equivoco. Alcuni la interpretano come fare un po’ quello che ti pare, magari senza preparazione, lasciandosi trasportare dall’emozione.
Questo succede perché generalmente utilizziamo nella vita reale quel vocabolo, ma in senso negativo. La cosa improvvisata viene intesa come sbagliata. Invece in musica questa accezione non esiste. Perché hanno improvvisato sempre tutti, da Bach a Mozart e Beethoven. Che improvvisavano tutti non me l’avevano detto in conservatorio, l’ho dovuto scoprire dopo. Semplicemente allora nessuno li ha registrati e quello che ci è rimasto sono le partiture che rappresentano il meglio di ciò che avevano improvvisato.

Non a caso nel tuo ultimo libro, Il tempo della stravaganza, premetti: «Preparatevi a camminare sul filo del paradosso».
Perché i paradossi possono essere milioni di milioni e a me piacciono tutti. A me piacciono tutte le teorie storiografiche alternative a quella principale e apprezzo anche quella principale, anche se penso che abbia dei limiti. Il suo limite è quello di rappresentare una sorta di pensiero unico, per cui la storia è andata in questo modo perché l’hanno detto Erodoto, Tucidide e tutti gli altri. A me questo spiace sempre un po’, perché voglio sentire più punti di vista anche sulla storia e credo che ogni narrazione abbia diritto di esistere. Nel momento in cui la storia viene narrata ha un significato, che sia accaduta o non accaduta.

Un esempio?
Che Gesù sia esistito o meno è qualcosa su cui possiamo dibattere, e io sono anche appassionato dell’argomento e ho letto parecchio in merito, ma di fatto è lo stesso perché il suo pensiero, quello che è arrivato fino a noi, è così importante che lui è presente nella vita di milioni di persone. Di quelli che credono, ma anche quelli che non credono. Quindi, alla fine, che differenza fa che sia esistito o meno, se è esistito nella nostra cultura? Così, tra Gesù e Il grande Lebowski non c’è grande differenza. Sono entrambi presenti nella nostra cultura, che siano esistiti o meno. Per me il Drugo è uno di famiglia, al di là del cinema.

Il paragone è forte, ma pensi che il paradosso anche più assurdo, in alcuni casi, possa essere più efficace della denuncia sociale?
Io sono un grande appassionato di romanzi di fantascienza e penso che questi stiano assolvendo questa funzione da sempre. Cioè, stanno raccontando le storture, secondo l’autore, del mondo moderno, collocandole nel futuro come hanno dimostrato Philip K. Dick, Kurt Vonnegut o Douglas Adams o scrittori anche più divertenti e in maniera ancor più evidente. Lo si potrebbe definire un escamotage, ma in realtà trovo un buon modo per fare arte e dire la propria sul mondo.

Foto press

Nel frattempo sei partito con il tour estivo e un calendario fittissimo: 30 date, otto progetti, un nuovo quintetto, il ritorno di grandi collaborazioni e nuove avventure. Hai un metodo per passare da una situazione all’altra senza perderti?
Un metodo non l’ho mai sviluppato. Quando ho un nuovo gruppo, come quest’estate, o quando sono in duo con Trilok Gurtu, i brani sono per lo più dei pretesti per suonare insieme e improvvisare, e quindi non organizzo più di tanto. Poi dipende dai punti di vista: per alcuni organizzo anche troppo, per altri troppo poco. Secondo me, autogiudicandomi, sono un organizzatore medio-basso. Perché voglio che la musica accada lì, sul momento, insieme ai miei compagni di viaggio.

E il nuovo quintetto come suonerà?
Mi sono fatto il dream team, come si dice. Vincent Peirani è un fisarmonicista pazzesco, con cui ho suonato in un disco e vari live, ma avevo voglia di fare qualcosa di più stabile con lui. Mauro Refosco alle percussioni, invece, non l’ho mai incontrato ma l’ho chiamato perché l’ho visto suonare con i Red Hot Chili Peppers e in altre occasioni, in più è brasiliano e quindi porterà un colore che io amo molto. Jeff Ballard alla batteria e Larry Grenadier al basso sono vecchi amici che hanno suonato tanto con il pianista Brad Mehldau. Li ho conosciuti tantissimi anni fa, nel ’98. E poi sono presenti in molte cose che ho fatto, per cui mi faceva piacere suonarci di nuovo.

Tanto per non farti mancare nulla, hai anche composto le musiche originali per il film Marcel et Monsieur Pagnol di Sylvain Chomet presentato a Cannes. Un altro approccio ancora alla musica.
Qui parliamo davvero di un’altra cosa. Perché questo è un lavoro, scusami, è un compito, il lavoro è un’altra cosa. Si tratta di aiutare un regista a dare il meglio. Sono al servizio di qualcun altro ed è bello, divertente, stimolante. In questo caso lui, fin da quando ne abbiamo parlato la prima volta, aveva in mente di fare le cose in grande e le abbiamo fatte in grande. C’è molta musica nel filn, tanto che uscirà un disco, anche se non so ancora quando, ma è tutta musica registrata con una jazz band e un’orchestra sinfonica.

Negli ultimi anni si discute molto di musica in modo polemico, passando dai talent show all’Auto-Tune, dalle piattaforme streaming alle canzoni usa e getta. Tu come vivi questi dibattiti?
Intanto con Valentina (Cenni, sua compagna e co-conduttrice del programma Via dei Matti nº0 su Rai 3, nda) riusciamo a tenere un faro acceso anche sui giovani, in tutti i campi musicali. E in questo senso devo dire che i giovani stanno bene. Perché crescono in un mondo in cui hanno un sacco di informazioni e i più caparbi riescono a condensarle per trasformarle in linfa utile alla musica. Poi c’è un altro mondo, che è quello della musica di Sanremo, tanto per semplificare, oppure quella gestita in prima persona dalle major, e questo è un altro capitolo, ma ha sempre rappresentato una ragnatela difficile nella quale districarsi. Io sono amico di Irene Grandi da quando eravamo giovanissimi e ho patito per lei le difficoltà che si è ritrovata a incontrare. Perché tu artista hai un’idea, vuoi fare delle cose, ma hai anche intorno a te molte persone che ti spingono da un’altra parte. E non è facile tenere la barra dritta, non è assolutamente facile da quello che ho visto in diversi colleghi.

Hai mai avuto problemi con qualcuno che voleva farti fare qualcosa?
No, ma mi sono tenuto abbastanza alla larga dal mondo di cui stiamo parlando. Dall’ambiente di certe case discografiche e dei cantanti pop che devono sfornare successi. Quello è un settore che conosco solo per averlo sfiorato. Ho tanti amici che ci stanno dentro e vedo che la loro principale difficoltà è quella di gestire questa ragnatela.

L’ansia da numeri, anche dello streaming, non ti ha mai sfiorato.
Ma no, figurati. Anzi, poverini loro, quelli che nel pop corrono sempre il rischio di giocarsi tutto in un brano o due e nell’arco di un mese, o in un’apparizione a Sanremo. Questo è il loro grosso problema. Mentre se tu suoni uno strumento, ti costruisci la tua carriera passo dopo passo e tutti quei problemi te li eviti. Non c’è il rischio di giocarsi tutto in una notte. Io non mi sono mai sentito neanche una volta nella mia vita sotto un esame così forte come quelli che vanno in finale a Sanremo. Una sensazione che non auguro a nessuno. Non è nel mio carattere. Non so come facciano a gestire quella pressione, che è simile alla pressione di Jannik Sinner nelle partite importanti. Io quella non la conosco.

Forse ai giovani fa bene ricordarlo: con la musica si può vivere bene anche senza rincorrere il grande successo?
Ma certo, c’è vita oltre a certi ambienti e non lo dimostro solo io. In Italia abbiamo esempi in qualsiasi campo. Stando alla musica, ce ne sono nella classica, nel jazz, nell’indie.

Paolo Fresu feat Stefano Bollani - Non ti scordar di me

Non cantando, non rientri tra coloro a cui si può chiedere dell’infinita polemica legata all’Auto-Tune. Ma ti pongo la questione a livello di suono. Mario Biondi ha detto che l’Auto-Tune è entrato nello stile dei più giovani a tal punto che cantano come se lo avessero anche in sua assenza. Senti anche tu questo rischio, sempre che sia un rischio?
Sai che questo concetto di Mario Biondi lo firmerei? Anch’io ho questa impressione. Tanto che ascoltando alcuni, a tratti penso: ma qui l’Auto-Tune non c’è, eppure l’effetto è comunque computerizzato. A me non piace quell’effetto perché toglie calore della voce. Toglie anche le imperfezioni che sono quelle che mi piacciono, pensiamo solo a Billie Holiday o a Louis Armstrong. Sai cosa? Non c’è bisogno di quel suono. Tutto qua. Non è questione di intonare gli stonati. Il punto per me è proprio di suono. Non mi piace perché raffredda tutto quello che viene detto. Anche se un cantante sta interpretando qualcosa di struggente, ci sento un computer che lo dice e non mi emoziona.

Da amante della fantascienza, se in un futuro, che puoi definire tu plausibile o distopico, diventassi Ministro della cultura, quale sarebbe il tuo primo provvedimento?
Penso che mi dimetterei subito per far spazio a chi se lo merita. Anzi, potrei nominare co-ministro Antonio Rezza, in modo da condividerlo con lui. Forse lasciarglielo tutto sarebbe un po’ pericoloso (ride), ma insieme, lui ministro e io vice, perché no?

C’è un disco o un brano, di un altro artista, che avresti voluto realizzare?
Mamma mia, ci vorrebbe un mese per dirteli tutti. Per farla semplice mi sarebbe piaciuto essere uno dei Beatles. Uno qualsiasi, anche Ringo Starr. Perché dalla sua postazione si è inventato un modo di suonare la batteria che prima non c’era, per cui mi starebbe benissimo. Anzi, sapendo poi la fine che fanno un paio di loro, Ringo se la passa benone.

C’è invece un musicista o una musica che ti ha insegnato più col silenzio che con le note?
Questa è una bellissima e difficilissima domanda. Però ho la fortuna di aver partecipato a un disco con Hector Zazou, che mi ha fatto suonare mentre avevo in cuffia una quindicina di strumenti, per cui ero portato a fare il meno possibile. In seguito lui ha tolto tutti quegli strumenti senza dirmelo e nel disco che è uscito siamo rimasti solamente io e la cantante. In questo modo mi ha dato una bella lezione, perché a dir la verità non manca niente. In quel modo mi sono accorto che anche quando penso di suonare poco, in realtà sto suonando tanto. Quella di Zazou è stata la migliore lezione sul silenzio che potessi avere.

Il disco è Strong Currents, nel quale sono presenti anche Laurie Anderson, Jane Birkin e Ryuichi Sakamoto?
Esatto. Dopo aver suonato pensavo di aver fatto poco, ma in realtà risentendolo ho riempito tutti gli spazi. Sai, i pianisti hanno tanti tasti a disposizione e quindi rischiano di riempire tutti i silenzi che ci sarebbero a disposizione. Se andate a riascoltare quel disco fateci caso, perché sono davvero irriconoscibile. Suono molto, ma molto meno di quanto suono di solito.

Per chiudere, la questione che terrà banco sicuramente nel prossimo futuro: l’intelligenza artificiale è un pericolo per la musica o un’opportunità?
Ho sentito qualcosa di musica classica realizzato dall’intelligenza artificiale e per il momento non mi sembra che i musicisti possano sentirsi in pericolo. Probabilmente altrove c’è già una IA che sta componendo brani meravigliosi. Ma il mio pensiero è questo, sulla falsariga di ciò che ti spiegavo per la voce dei cantanti: quello che ci caratterizza come musicisti è che non sappiamo tutto e non siamo capaci di fare tutto. Invece l’intelligenza artificiale ha troppe informazioni, conosce persino i canti tradizionali del burundi. Se ci pensiamo era qualcosa di impossibile per Beethoven e per Bob Marley, così come per noi oggi. Ma sapendo così tanto, l’IA finisce per avere pochissima personalità.

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