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Statuto: a Sanremo a loro insaputa e altre storie degli operai della musica torinese

Oskar racconta 40 anni di musica: lo ska a Torino, l'incompatibilità col primo cantante perché juventino, le mosse della band votate in piazza, la rivalità coi dark, il concerto a Cuba, la cultura mod come missione

Foto press

Tutti i (maledetti?) sabati, da oltre 40 anni, a Palazzo Paravia, al numero 18 di piazza Statuto a Torino, si riunisce la comunità dei mod cittadini, in un incontro che coinvolge ormai almeno tre generazioni. Anziani oltre i 70 anni e giovani adolescenti, e tutte le altre età intermedie, si ritrovano insieme per celebrare la cultura di questo movimento nato in Gran Bretagna nel dopoguerra, che in Italia conta una comunità certo meno numerosa, ma convintissima dei suoi ideali – ai quali si aggiunge, nella capitale piemontese, una fede inamovibile nella squadra del Torino Calcio, il Toro.

È in questo contesto che nel 1983 nascono gli Statuto, forse la prima band a dare il via allo ska revival italiano (e comunque prima dei ferraresi Strike, e molto prima dei Casino Royale, che pure sono rimasti il gruppo di maggiore notorietà). Lo scorso 28 gennaio sono iniziati i festeggiamenti per il loro quarantennale di attività con un concerto celebrativo al CAP 10100, un locale che sta diventando anch’esso un punto d’incontro intergenerazionale: concerto sold out per un pubblico eterogeneo di ogni età, dai pensionati ai ragazzini.

Ma chi sono veramente gli Statuto? Abbiamo fatto una chiacchierata con Oskar, fondatore, leader e cantante della band, per raccontarvi in modo semiserio la storia del gruppo.

Oskar, torna indietro di quarant’anni: come nascono gli Statuto, quali sono i primi passi della band?
Parte tutto da piazza Statuto, ai raduni settimanali dei mod. All’epoca io ero uno dei pochi che sapeva qualcosa di musica, perché studiavo contrabbasso al Conservatorio. A un certo punto mi fecero pressione per formare un gruppo, perché ce n’erano già altri a rappresentare i mod sia a Milano (i Four by Art) che a Roma (gli Underground Arrows). Ora, io ai tempi avevo in mente di suonare solo musica classica. Mi piaceva lo ska, ma da lì a formare un gruppo… ad ogni modo, ci provai. C’era un ragazzo che suonava la chitarra, io mi misi alle tastiere e provammo a fare qualcosa, un paio di cover dei Madness. Di lì a poco si aggiunse un altro chitarrista, un tipo che faceva il salumiere, ma ci mancava il batterista. Incontrammo un ragazzino con la maglietta dei Jam, quindi per forza un mod, che ci disse che suonava la batteria in un gruppo che faceva cover dei Beatles; si chiamava Naska. Facemmo un provino che andò piuttosto bene, ma c’era un problema: era minorenne, e la madre non lo lasciava uscire di sera…

Il chitarrista/salumiere provò a suonare lui la batteria. Era un disastro, ma per un po’ ce lo facemmo andar bene. Poi lanciammo un contest tra i mod di piazza Statuto per trovare un cantante: lo vinse un certo Ometto, così chiamato per via della sua taglia minuscola. Qui il problema era un altro: Ometto tifava Juve, l’incompatibilità era sostanziale. Infatti ci portò male, perché al concerto d’esordio, avuto grazie un invito dai concittadini Blind Alley, Ometto non si presentò: era andato allo stadio, a vedere Juve-Inter. Così inizia, un po’ per caso, la mia carriera di cantante, quando suonavo anche il basso. Ad ogni modo, il 1° maggio 1983 è il nostro esordio ufficiale: due cover degli Specials in italiano e scene pietose del batterista che continuava a perdere le bacchette e interrompeva la canzone per recuperarle… fortunatamente, di lì a poco sarebbe tornato Naska a dare al gruppo tutt’altra stabilità.

A quei tempi Torino era una città dark. Ovunque si vedevano questi tipi emaciati e nerovestiti con la morte nel cuore, e una band allegra e positiva come gli Statuto non era esattamente in linea con loro. Si dice che tra voi i rapporti non fossero idilliaci…
I rapporti erano pessimi, diciamolo pure. Non che ci fossero motivi sociali o politici, in realtà tutta la questione nacque da una festa di Capodanno organizzata dai dark, in cui non vollero far entrare i mod. Poi non è che sia mai successo niente di eclatante, un paio di scazzottate e una perenne rivalità. Musicalmente la tensione era minima, anzi col passare del tempo entrambi i gruppi si sono trovati a rivalutare e ad apprezzare band che inizialmente si schifavano per partito preso.

Com’è avvenuta la crescita del pubblico da settoriale a generalista?
In realtà abbastanza velocemente. È chiaro che ai primi tempi eravamo la band dei mod e ci seguivano soltanto le persone di quel gruppo. Ma il nostro genere è divertente, ballabile e di facile ascolto, presto anche ascoltatori di diversa provenienza hanno cominciato ad apprezzarlo. Anche i testi sono serviti: abbiamo sempre cercato di trattare tematiche attuali, anche se in genere riferite a un immaginario giovanile, e se una volta queste riguardavano direttamente noi adesso creano un’identificazione nei nostri figli, per cui anche adesso acquisiamo nuovi fan, fan tradizionali, che magari invece di ascoltarci su Spotify hanno voglia di comprare il vinile.

Un primo allargamento del pubblico c’è stato quando abbiamo cominciato a frequentare i gruppi torinesi a noi affini: i Blind Alley di Gigi Restagno, le Funky Lips, i Sick Rose, gli Africa Unite. Già ai tempi del secondo singolo, Ghetto dell’87, la nostra platea di riferimento non era più limitata ai mod. Un altro aspetto che ci ha aiutato è stato secondo me il fatto che siamo stati i primi tra i gruppi indie a usare i fiati. All’epoca sax e trombe erano visti malissimo, non erano il tipo di strumentazione adatto a chi voleva fare rock alternativo. Invece noi abbiamo insistito su quel tipo di sound, che alla fine è diventato un nostro tratto distintivo e ha creato un valore aggiunto.

Ricordo in particolare il primo vero concerto che abbiamo fatto fuori città, o meglio non limitato alle solite date su Milano o su Genova, dove avevamo suonato a un raduno mod. Avvenne a Firenze, in un locale chiamato La Mecca. C’era moltissima gente, i mod erano pochissimi e l’atmosfera era da grande evento. Ci siamo sentiti quasi delle rockstar, stupiti da come la nostra musica potesse avere sbocco anche fuori dal nostro giro. Va anche detto che all’epoca avevamo nella band gente come Ezio Bosso, che suonava il basso, e Davide Rossi: personaggi che non hanno bisogno di presentazioni. Quello fu il preludio all’incisione del nostro primo album, Vacanze, che uscì su Toast nel 1988.

Un altro punto di svolta è stata la partecipazione al Festival di Sanremo del 1992.
Sì, è stata una situazione abbastanza particolare. Avevamo firmato un contratto con la EMI nel luglio del ’91, e subito dopo, doveva essere fine agosto, ci chiamò un discografico dell’etichetta che ci voleva proporre un’idea. Mi chiese di scrivere una canzone intitolata Abbiamo vinto il festival di Sanremo, che doveva essere una critica dal taglio ironico sui soliti stereotipi del caso, che è tutto un magna magna, che si vedono sempre le solite facce, eccetera. Mi ci metto con entusiasmo e dopo una settimana il pezzo è pronto, portiamo il provino alla EMI, a loro piace molto e decidono di farlo uscire in contemporanea al festival, naturalmente non in concorso perché gli Statuto mica ci vanno a Sanremo, non scherziamo.

Arriviamo a gennaio. Una sera in TV annunciano i partecipanti (ai tempi non c’era tutta l’enfasi odierna) e ascoltando distrattamente mi pare di sentire il nome degli Statuto tra le Nuove Proposte. Panico. Avrò sentito bene? Sì, perché dopo poco mi telefona il bassista che me lo conferma. La prima reazione è di ribellione totale, Sanremo per noi non è per niente un obiettivo, anzi corriamo il rischio di sputtanarci. Chiamiamo il nostro manager, ma non si fa trovare. Alla EMI non rispondono. Finalmente, dopo due giorni, ci annunciano la cosa in forma ufficiale. Che fare? All’inizio le resistenze sono grandi. Tuttavia, sentendo il parere di tanti mod di tutta Italia, sembra che la maggioranza sia favorevole alla partecipazione, purché gli Statuto mantengano la loro identità e facciano quello che han sempre fatto. Si risolve in definitiva con una votazione in piazza Statuto: 73 votanti, 71 favorevoli, 1 contrario e io astenuto. Si va.

E in prospettiva è andata benissimo. Ci siamo divertiti, non ci siamo sputtanati, e anche se non siamo diventati delle rockstar, piuttosto degli onesti operai della musica, da allora riusciamo a vivere di quella. Perlomeno ci siamo riusciti fino al lockdown. E abbiamo anche dei ricordi di situazioni molto divertenti. Ad esempio, siccome ai tempi per le Nuove Proposte c’era un meccanismo ad eliminatorie, sicuri come eravamo di non arrivare alla finale del sabato, la prenotazione dell’hotel c’era solo fino al venerdì. Quando, per la sorpresa di tutti, ci qualificammo, trovare posto per un giorno in più fu un’impresa epocale. Le segretarie della EMI se la ricordano ancor oggi…

In quello che mi racconti mi sembra di percepire come costante un bell’affiatamento della band, malgrado i 40 anni di attività e gli inevitabili cambi di formazione…
Tieni presente che in realtà, dal 1992 a oggi, il nucleo fondamentale è rimasto quasi identico; io alla voce, Naska alla batteria, Enrico Bontempi alla chitarra e Rudy Ruzza al basso. E a essere sinceri non siamo così stupiti di essere durati 40 anni. L’idea di far arrivare la cultura mod a un massimo di persone è stata per noi un motore inesauribile, l’abbiamo vissuta come una missione, superando tutte le avversità professionali o economiche. E quando suoniamo dal vivo siamo sempre gli stessi, il nostro approccio alla musica è inalterato, anche se ovviamente come persone siamo cambiati e com’è cambiata la visione della vita.

Non dimenticheremo mai certi episodi, cose che a ripensarci ti sembrano assurde e che invece sono stati momenti indimenticabili. Come quella volta a Vittorio Veneto quando, in formazione a nove con tanto di sezione fiati, avevamo un unico microfono per la voce, e siamo riusciti a farcela lo stesso. Oppure quando in un CSA ad Alessandria, quando ho attaccato Ragazzo ultrà, sono saliti sul palco tutti gli skin dell’Alessandria e del Genoa presenti, si sono impossessati del microfono e hanno cantato loro, mentre io li guardavo dal fondo della sala…

Molto divertente fu anche la nostra trasferta a Cuba, nel dicembre del 1997. Le autorità locali (c’era ancora Fidel) ci avevano invitato per un grande evento, per festeggiare l’amicizia tra il popolo italiano e quello cubano; con noi c’erano i Modena City Ramblers. Era una cosa enorme, un pubblico di 200 mila persone, e noi pensavamo di essere gli ultimi venuti, che potessimo appena fare presenza. Invece, la TV cubana aveva trasmesso nei giorni precedenti al concerto i video della nostra partecipazione a Sanremo, e quindi tutti ci riconoscevano, facevano le mosse che facevo io sul palco. È stato il nostro momento di rockstar globali!

Ci saranno stati anche dei momenti difficili, in tutto questo tempo.
Certo, più volte. Il peggiore probabilmente è stato il lockdown, ma qui non dico nulla di nuovo. Un altro momento critico avvenne nel 2000, quando persi completamente la voce come reazione psicosomatica alla morte di mio padre. Non parlavo più, figurarsi cantare, e abbiamo dovuto fermarci. C’è voluto del tempo, ho sentito vari specialisti fino a trovare una brava logopedista che è riuscita a sbloccarmi. Poi con una lenta rieducazione mi sono ripreso, e ora canto di nuovo.

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