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Stanchi dei dischi del lockdown? Rifugiatevi nella California psichedelica di Toro y Moi

Groove indolente e psichedelico, atmosfere rilassate e sospese, un’infinità di suoni e spunti musicali: è ‘Mahal’, il disco che riassume tutta la storia e le influenze di Chaz Bear. Ce lo racconta in un’intervista

Foto: Chris Maggio. Styling: LAUR

«L’unica certezza che avevo è che non volevo fare un disco sulla pandemia». L’inizio della chiacchierata con Chaz Bear (già Bundick, da sempre artisticamente Toro y Moi) mette subito in chiaro la questione: anche se il nuovo album Mahal, esordio per la Dead Oceans dopo una carriera quasi interamente in simbiosi con la Carpark, ha avuto una gestazione prolungata che ha finito poi per collidere con lockdown e quarantene, non rientra in quella categoria inevitabilmente molto affollata di questi tempi che potremmo definire con un po’ di cinismo Covid-record. «Basta, non se ne può più. Chiunque abbia realizzato un disco negli ultimi due anni lo ha fatto all’ombra della pandemia, che bisogno c’è di rimarcarlo? Non volevo scrivere niente che toccasse l’argomento, anche perché non voglio legare i miei futuri ricordi di un lavoro a cui tengo molto a quello che abbiamo vissuto dal 2020 in poi».

L’orgoglio per queste nuove canzoni è palpabile, nel modo in cui l’artista ne parla in collegamento dalla sua casa di Berkeley (città che qualche anno fa ha proclamato il 27 giugno “Chaz Bundick day”). In effetti, potrebbe essere l’apice della discografia firmata Toro y Moi. Soprattutto perché funge quasi da riassunto dell’opera omnia di un musicista che nei generi codificati si è sempre sentito allo stretto. Qui si passa in scioltezza dalla dance ai Byrds del ’67 incrociati con Dave Brubeck (per conferma, ascoltare Last Year), dal groove elettronico alla ballata indie. «La verità è che ho lavorato a questo disco per anni. Ne ho fatti altri, nel frattempo, ma le origini di Mahal risalgono all’epoca delle incisioni di What For, sette anni fa. Almeno come idea di fondo».

E quale è questa idea?
Non lo so (ride). Beh, ecco, l’ambizione era quella di incapsulare tutte le mie influenze, le mie vie di fuga musicali in un quadro globale che anche dal punto di vista dei testi descrivesse, come dire, una big picture. Voglio dire, che non fosse solo ripiegato sulle emozioni private, sulle storie d’amore vere o immaginarie, ma provasse a parlare della società, delle sue prospettive, dell’universo che ci gira attorno, delle pulsioni che attraversano le nostre vite prese collettivamente. Spero senza i cliché e le metafore scontate che si tendono a usare in questi casi.

Non vorrei essere suggestionato da alcuni richiami evidenti nell’album, ma possiamo definirlo il tuo Sign O’ the Times senza bestemmiare?
Oddio, non oserei mai paragonarmi a Prince, ma prendo e mi porto a casa l’analogia. Lui per me è sempre stata una stella polare, quindi se qualche aspetto del mio lavoro ti ha fatto pensare a lui ne sono onorato. Ma tornando a quello che dicevo prima non vorrei sembrare troppo enfatico quando parlo dei temi delle canzoni. Peraltro, contrariamente al mio metodo di lavoro abituale, in questo caso i testi sono venuti dopo la musica. Che poi, in buona parte non si trattava di canzoni definite ma di frammenti, di spunti sonori che ho cucito assieme nel corso del tempo. È stato un processo lungo e tortuoso, come avrai capito (ride). I vari lockdown e tutto il casino del Covid hanno solo complicato ulteriormente le cose, ma d’altra parte mi hanno anche dato la determinazione giusta per finire il lavoro. Volevo disperatamente che questa cosa uscisse nel mondo che queste canzoni arrivassero alla gente là fuori. E in quel momento “là fuori” non era solo un modo di dire.

Musicalmente l’album è molto eclettico, persino per uno come te che ha fatto dell’eclettismo la sua cifra artistica. Questa volta, come dicevi tu prima, hai compresso le tue passioni musicali nell’arco dello stesso disco. Si passa con nonchalance dal funk e dalla disco all’indie tipicamente anni ’90/00 di Beck, Eels o Grandaddy, dall’electro alla psichedelia. Mi pare che su tutto ci sia comunque una spolverata di rilassatezza, molto anni ’60/70 e soprattutto molto californiana. Non so, pezzi come Loop mi hanno fatto pensare a nomi come Shuggie Otis…
Great! Sì, è esattamente quel tipo di groove un po’ indolente ma anche psichedelico quello di cui andavo in cerca. In generale non volevo atmosfere cupe o opprimenti, anche se i tempi lo sono. Ma appunto, quello sarebbe un cliché. Non è esattamente un disco solare, quello no, è come se ci fosse luce mescolata alla foschia. In effetti, c’è molta California in questo. L’approccio è rilassato, sospeso. Mi è venuto naturale utilizzare questa chiave sonora.

C’è qualcosa che hai ascoltato durante la scrittura dei pezzi che ha lasciato un segno particolare?
Non saprei, è sempre un processo inconscio. Sicuramente in quel periodo ho ascoltato molta psichedelia e space rock francese degli anni ’70. Roba fuori di testa ma anche super groovy.

La naturalezza con cui disciogli i vari influssi musicali uno nell’altro, senza giustapporli meccanicamente e senza limitarti alla citazione, fa di te uno dei musicisti più emblematici di una attitudine che si è sviluppata soprattutto negli ultimi dieci/quindici anni. Non pensi che i cambiamenti nel modo stesso di ascoltare e consumare musica, oltre che di produrla, abbiano reso i riferimenti al passato qualcosa di molto meno mediato e più spontaneo?
Assolutamente d’accordo. In fondo oggi è tutto contemporaneo, viene naturale mescolare le cose. Non è che decido prima «ok, ora farò un disco house» oppure «no, farò qualcosa di analogico e influenzato dalle colonne sonore italiane oppure dall’acid rock di San Francisco». Sono tutte cose che mi piacciono, che fanno parte della mia formazione e di quella della gente con cui suono, passare da una all’altra è naturale come usare il vocabolario. In questo senso credo che questa sia un’epoca nuova e molto più libera. Le stesse definizioni di mainstream e underground non hanno più molto senso.

A proposito di cambiamenti epocali e di tecnologia, in un pezzo come Postman sembrerebbe emergere una certa nostalgia per il mondo pre-internet che tu, trentacinquenne, hai conosciuto da bambino. Chiedi al postino di portarti finalmente una lettera o una cartolina, invece ormai gli unici documenti cartacei che ci ritroviamo nella buca sono le bollette.
Neanche più quelle. Non so se si tratta di nostalgia, sono cresciuto con internet e le e-mail, ma certo mi affascina quel modo di relazionarsi non digitale. C’è qualcosa di dolce, di divertente in quell’interazione tattile con la carta, ma in fondo anche con le persone. Questa è la visual age, lo è ormai da molto tempo, è inevitabile che sia così ma non penso sia sano che tutto nella nostra vita sia mediato dallo schermo di un computer o di uno smartphone. Mi demoralizza un po’ vedere il declino irreversibile della carta stampata: i giornali, le riviste, i libri. Il fatto, appunto, che nessuno scriva più lettere a mano. Non c’è niente di nostalgico, ripeto, è solo che a volte si vorrebbe che il mondo rallentasse un po’.

Dimmi degli ospiti presenti nel disco. Ci sono diversi featuring…
Non li chiamerei ospiti e non amo particolarmente la parola featuring. Chi partecipa a un mio disco lo fa su un piano di parità, sono musicisti che so che possono aggiungere davvero qualcosa di essenziale e personale. E devono essere persone che conosco, ci deve essere un rapporto di amicizia. Sofie Royer è straordinaria, una delle artisti più eleganti della scena contemporanea; con Alan Palomo (Neon Indian) e Ruban Nielson (Unknown Mortal Orchestra) ci conosciamo da una vita, mi è venuto spontaneo chiamarli. Volevo coinvolgere sia i miei amici del giro elettronico che quelli rock.

Si tratta di un dualismo che avverti ancora? Quanto ti senti legato alle tue origini chillwave?
Torniamo al discorso di prima. Non vedo una separazione tra i diversi ambiti, almeno per quanto riguarda la creazione di musica. Se parliamo di situazioni, festival, frequentazioni e cose del genere sono ancora molto attivo nel giro, chiamiamolo così, elettronico. Ma quello che mi preme di più è il concetto di comunità: tutto quello che faccio ha sempre dietro anche l’energia e la forza di altre persone.

Riprenderai a pieno regime con i tour?
Sì e no. Nel senso che ho voglia di suonare davanti a gente in carne e ossa, di poter portare queste nuove canzoni in giro e tutto quanto. Quello che non ho assolutamente voglia di fare è imbarcarmi in tour lunghi e di essere costantemente in viaggio. Al massimo posso fare dei mini-tour da due settimane, poi ho la necessità di tornare a casa, nella Bay Area. È un fatto proprio di equilibrio mentale. Quella comunità di cui parlavo prima mi è essenziale, e se c’è una cosa che la pandemia dovrebbe averci insegnato è che i rapporti umani con le persone che hai vicino vanno coltivati il più possibile.

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