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Slash: «Il rock non tira più? Bene, i ragazzi lo suonano per passione, non per soldi»

L'emarginazione, i litigi con Axl, i Conspirators, il prossimo album dei Guns N' Roses, i pantaloni della madre stilista barattati con del crack. E il rock, che comunque resta: «Me ne frego delle mode»

Foto: Austin Nelson

Slash non si ferma mai. Da quando nel 2016 è rientrato a far parte nei Guns N’ Roses, è stato in tour sia con loro che con la sua band, quella col nome troppo lungo per essere detto per intero: Slash featuring Myles Kennedy and the Conspirators. Con loro ha da poco pubblicato l’album 4, il 25 febbraio sarà la volta dell’EP dei Guns Hard Skool.

Mica è stato facile arrivare a questo punto. Dopo l’infanzia in Inghilterra, dov’è nato, e il trasferimento a Los Angeles con la famiglia, nel 1985 Slash è entrato a far parte dei Guns N’ Roses. Fin da subito è emerso il suo approccio singolare alla chitarra elettrica, gli assoli espressivi, i riff che hanno trasformato Welcome to the Jungle, Sweet Child o’ Mine e November Rain in instant classics. Nel 1988, un anno dopo la pubblicazione, Appetite for Destruction è diventato l’album di debutto più venduto di tutti i tempi. I dischi gemelli che l’hanno seguito, i due Use Your Illusion, hanno mostrato tutte le potenzialità del vecchio hard rock nell’epoca del grunge.

Dopo avere inciso col nome Slash’s Snakepit, nel 1996 il chitarrista se n’è andato dai Guns in modo non esattamente pacifico. Ha continuato a fare musica coi Velvet Revolver, che nel 2004 hanno pubblicato l’album doppio platino Contraband, e da solista. Alla fine s’è riconciliato coi Guns, ma ha comunque continuato a suonare con la sua band.

«Faccio la mia cosa», dice al telefono. «Myles è il frontman, io il chitarrista. Ho avuto una certa visibilità in molte band in cui ho suonato, anche se sono sempre stato più o meno quello che finiva di meno sotto i riflettori. Suono a tutto volume, ma non ho molte cose da dire. Vale anche per i Conspirators. La differenza è questa è la mia band, o per meglio dire, l’ho messa in piedi io. All’inizio, col disco del 2010, era solo Slash. Quand’è arrivato Myles ho aggiunto il suo nome e Brent (Fitz, batterista, ndr) e Todd (Kerns, bassista, ndr) sono diventati i Conspirators. Ecco com’è nato quel nome maledettamente lungo: non volevo che tutta l’attenzione fosse concentrata su di me».

Non l’avrà cercato, ma Slash s’è comunque trovato più volte sotto i riflettori. Qui riflette su quel che ha imparato da quelle esperienze.

Ora che fai di nuovo parte dei Guns N’ Roses, che cosa ti spinge ad avere anche la tua band?
Di certo non le stronzate che la gente associa all’essere in una rock’n’roll band, essere apprezzati, avere questo e quello. È la roba che preoccupa gli altri, non i Conspirators. A noi interessa suonare, registrare, fare concerti. Continuo perché mi diverte e non c’è stress.

La linea chitarristica che apre Fell Back to Earth è devastante: come ti vengono certe cose?
Ero a un safari al Kruger National Park, in Sud Africa. Avevo come me la chitarra. Ora, non voglio sembrare stucchevole, ma di notte lì c’è un’atmosfera, un cielo stellato grandioso. La melodia m’è venuta così, spontanea, e l’ho presa come un segno. Merito del posto in cui stavo.

Con i Conspirators. Foto: Ross Halfin

L’album è decisamente rock, ma dentro c’è Dave Cobb, che è noto per le produzioni country. Com’è stato questo incontro di estetiche tanto differenti?
Ho chiesto in giro chi era considerato un buon produttore rock, oggigiornonon sono tanti. Alla fine in lista ce n’erano quattro e uno era Cobb. Io non faccio country, ma ne apprezzo l’anima, specie quella del vecchio country. La cosa bella di Dave è che è sì country, ma di quello essenziale, molto umano, grezzo, pieno d’emozione. E l’apprezzo tanto questa cosa. In più ha fatto i Rival Sons, che sono una delle rock band moderna che suona meglio.

Ne abbiamo parlato e lui m’ha detto che aveva una gran voglia di registrare un disco rock praticamente dal vivo. E io: «Amico, è quello che sto cercando di fare da anni, ma nessun produttore me l’ha lasciato fare». Da quel momento c’è stata sintonia. Siamo arrivati, abbiamo scaricato gli strumenti, abbiamo cominciato a jammare. Lui era lì e noi suonavamo. Un’esperienza catartica.

Il rock non è popolare quanto un tempo. Mai avuto la tentazione di fare qualcosa di diverso?
Sono uno rock’n’roll. È da lì che ho iniziato. È quello che mi piaceva. Ho mollato tutto il resto per il rock. Ce l’ho nel sangue. Non me ne frega un cazzo delle mode: è il mio stile e basta. Sono un musicista e un artista che apprezza tante musiche diverse, non necessariamente rock, ma me ne sono sempre sbattuto di quello che andava forte a livello commerciale. Ora il rock non fa più i numeri di una volta. Ai tempi in cui tirava di brutto, ho visto l’integrità del rock andare a farsi benedire a causa dei soldi e di quella cazzo di grandeur tipica dell’industria. È tutto precipitato dopo gli anni ’90, quando sono arrivati gli mp3 e lil file sharing, e la gente ha cominciato a preoccuparsi della visibilità fregandosene della musica. In quanto a me, tengo il punto e faccio del mio meglio, faccio quel che amo fare, la musica che mi piacerebbe sentire.

In un certo senso, il business del rock si è cannibalizzato da sé. Ora che non gira più tanta grana i ragazzi riscoprono il rock per pura passione. Ed è grandiosa questa cosa. C’è una grande energia. È emozionante. In quando a me, indipendentemente da quel che facevano gli altri, ho sempre cercando di perfezionare il mio mestiere.

Sei nato a Hampstead, Londra. In che cosa sei inglese?
Direi soprattutto nel matto patriottismo che provo per l’Inghilterra. È tipico dei britannici, sarà una questione di dna, anche se oramai vivo negli Stati Uniti da 40 e passa anni. Resto inglese anche in altre piccole cose, come pronuncio parole tipo aunt o il mio amore per la colazione all’inglese.

Tua madre ha vestito David Bowie, John Lennon, Janis Joplin. Cos’hai imparato da lei sullo stile?
Non ricordo di avere mai parlato con lei di moda o di stile. Se ho preso qualcosa, è stato in modo inconscio. Alla fine sono diventato il ragazzo con jeans e maglietta, e quello sono rimasto. Però mi piacciono i pantaloni in pelle. Lei me ne ha fatti un paio fighissimi, solo che anni dopo li ho scambiati con del crack, cazzo di idiota che non sono altro. Ma credo di avere ereditato qualcosa in modo inconscio.

Tua madre era nera, tuo padre bianco. Com’è stato crescere in cerca d’identita?
All’inizio ero un disadattato. Quando sono arrivato negli Stati Uniti avevo un accento inglese marcato, i capelli lunghi, i jeans bucati. Un emarginato. La scuola era frequentata da ragazzi bianchi, mentre a South Central L.A. dove vivevo con la famiglia ero considerato troppo bianco (ride). Mica facile. Non mi sono sentito a mio agio finché non ho preso in mano la chitarra in seconda o terza media e ogni cosa è cambiata. Improvvisamente il fatto di essere distante e distaccato mi rendeva figo. Da quel momento in poi, il colore della pelle non ha più contato nulla, tranne quando cerchi qualcuno con cui suonare e hai la pelle più scura della loro. Non è sempre facile, ma è la vita. Non l’ho mai presa sul personale. Non mi identificavo con nessuno in particolare (ride).

A questo punto della tua vita, dove finisce Slash e dove inizia Saul Hudson?
Hanno cominciato a chiamarmi Slash in prima superiore. Ora mi fa strano se qualcuno mi chiama Saul. L’ultima persona che l’ha fatto è mia nonna. Ma è il nome che ho sulla patente, sul passaporto, sui documenti legali. In quel caso, meglio non essere Slash.

Foyo: Jack Lue/Michael Ochs Archives/Getty Images

Qual è il segreto per mantenere la pace dentro i Guns N’ Roses?
Tenerci le cose fra di noi. Il problema è che quando la band è diventata enorme, pur essendo noi smaliziati, tanta gente s’è messa di mezzo e ha incasinato le cose. Col risultato che me ne sono dovuto andare. Ed essendo molto cocciuto, non mi sono mai guardato indietro.

E la cosa migliore della reunion?
Mettersi alle spalle i casini tra me e Axl. C’erano un sacco di problemi causati da terzi. Era una brutta situazione, non ci parlavamo più, era una cosa fuori dal controllo. La cosa migliore è successa quando io, Ax e Duff ci siamo ritrovati a suonare in una stanza assieme, non so nemmeno dire a parole cos’è successo. Tipo: «Wow, ecco, è questo». E poi fare i concerti e chiedersi: perché cazzo ci siamo incasinati la vita negli anni ’90?

I Guns hanno pubblicato di recente le prime due canzoni da 25 anni, Absurd e Hard Skool. Quando’è che per te una canzone è pronta per essere pubblicata?
In buona sostanza, Hard Skool era già pronta quando me l’hanno fatta sentire. Con Duff abbiamo rifatto il basso e le chitarre. È un pezzo semplice, non c’è voluto granché per finirlo. È stato divertente perché quello e altro materiale per me e Duff era più o meno nuovo. C’è dell’altra nuova musica in arrivo, forse un po’ più complessa, ma altrettanto divertente.

Stai dicendo che uscirà un nuovo album?
Dico che abbiamo qualche pezzo nuovo e che presto ne pubblicheremo un altro e poi un altro ancora. Non so quando penseremo al pacchetto completo, ma sono sicuro che a un certo punto lo faremo.

Un tempo i Guns erano «la band più pericolosa al mondo». Cosa hai imparato dal periodo in cui eravate tanto controversi?
Una delle cose di cui vado più orgoglioso dei Guns N’ Roses è che abbiamo sempre fatto le cose come volevamo noi, non ci siamo mai adattati all’industria o al politicamente corretto. E chi se ne frega se questo ci ha reso controversi, l’importante era essere onesti con noi stessi e questa cosa ci faceva stare bene. Era un elemento essenziale della band ancor prima di firmare un contratto discografico: ovunque andassimo combinavamo casini e disastri, non facevamo nulla in modo convenzionale o socialmente accettabile. Io ho sempre pensato che stare in una rock band significasse anche questo. Ma ormai si è visto di tutto, non c’è molto altro che potremmo fare, ma non siamo mai stati controversi di proposito.

Prima hai raccontato di quando hai barattato i pantaloni di pelle di tua madre con l’eroina. Hai qualche rimpianto, pensando a quel periodo?
Ho impegnato piccole cose, pantaloni, qualche chitarra. Ma sono andato avanti. Sono stato fortunato perché in tutta la mia follia non ho mai fatto male a nessuno, né mi sono ubriacato fino provocare danni permanenti. Non ho rimpianti.

Sei sobrio da anni. Hai qualche consiglio per chi vuole ripulirsi?
È stato difficile arrivare a quello che gli alcolisti anonimi chiamano “arrendersi” al tuo stato. Ti devi rassegnare al fatto di avere un problema e di doverlo risolverlo o trovare qualcuno che t’aiuti a farlo. Ci vuole una vota per arrivare a quel punto. È tutto un gioco finché all’improvviso non lo è più e non riesci a capire perché. La cosa più difficile è accettarlo e decidere di cambiare le cose. Solo se sei onesto con te stesso le cose possono cambiare. L’unica cosa che posso dire [a chi vuole smettere] è che non puoi andare avanti per sempre. Finirai in prigione, o morto. Altre possibilità non ci sono.

Per me è stato tremendo, neanche dovrei essere qui e per questo lo apprezzo ancora di più. Sono contento di avercela fatta prima di subire qualche danno permanente, prima di arrivare al punto in cui non puoi più tornare indietro. Ma anche in questo caso non ho rimpianti. Amavo quella roba. È stato divertente, poi è arrivato il momento di smettere.

Qual è l’acquisto più assurdo che hai fatto?
Parli con uno che possiede qualcosa come 400 chitarre. Sono tante, sì. E continuo a comprarne. A parte questo, non ho niente di particolarmente costoso. Ho due auto. Ma non ho esagerato in nient’altro a parte le chitarre, che sono una droga. Prima o poi le suonerò tutte, anche se sono tantissime. Quando ho visto che David Gilmour ed Eric Clapton hanno messo all’asta le loro, ho pensato: uhm, interessante, chissà come ci si sente a farlo. Sarà stato liberatorio?

I tuoi assoli sono cantabili. Qual è il segreto?
Certi musicisti si compiacciono così tanto da fare assoli che non c’entrano niente con la canzone. Improvvisano, suonano tutti i loro lick. Se i miei sono così melodici da essere cantati è perché quello che suono sta dentro la struttura e la traiettoria melodica della canzone. Credo sia una bella cosa. Ho sempre amato gli assoli, ma sempre calati nel contesto del pezzo, non mi piace quando un tizio sale sul piedistallo e fa da solo. Mi piacciono gli assoli che hanno un effetto sulla canzone.

Hai un look molto riconoscibile. Come fai ad andare in giro senza essere notato da tutti?
Nella maggior parte dei casi me la cavo. Non sono Britney Spears. A volte mi riconoscono, soprattuto nelle città dove andiamo a suonare. Ma nella maggior parte dei casi passo inosservato. Detesto attirare l’attenzione. Entro ed esco dai posti senza dare nell’occhio e non lascio che troppa gente s’avvicini. E c’è un’altra cosa: è difficile lamentarsene perché la gente apprezza quel che fai e ti riconosce per questo. Magari lo trovi fastidioso, ma lo devi accettare.

Ma c’è un lato negativo del successo?
L’unico lato negativo è non saperlo gestire o non sapersi comportare nel mondo giusto una volta che l’hai raggiunto. Per me è stato così. Con gli anni ho imparato a stare per conto mio, non esco poi così tanto. Non mi spiace essere riconosciuto se devo suonare un concerto. Va bene. Ma quando sono a Los Angeles me ne sto per i fatti miei. Se sono in tour, non vado in giro a cercare le persone. Credo che dipenda dal fatto che dopo tutti questi anni ho capito che non fa per me. Alcuni hanno un carattere aperto e adorano stare al centro dell’attenzione. Io no.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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