Simon Cowell racconta la storia segreta degli One Direction | Rolling Stone Italia
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Simon Cowell racconta la storia segreta degli One Direction

Per il decennale del gruppo pubblichiamo un’intervista inedita del 2012 all’uomo che ha avuto l’idea di mettere assieme (scusa, Nicole Scherzinger) cinque concorrenti eliminati da X Factor, trasformandoli in superstar

Simon Cowell racconta la storia segreta degli One Direction

Da sinistra, Liam Payne, Louis Tomlinson, Harry Styles, Zayn Malik, Niall Horan

Foto: Yui Mok/PA Wire/AP

Per un breve periodo di tempo, nel 2010, Harry Styles, Liam Payne, Niall Horan, Zayn Malik e Louis Tomlison non erano che concorrenti di un talent, e per di più perdenti. X Factor inglese non se li è fatti sfuggire e li ha riammessi alla competizione come gruppo, un’idea che si è rivelata brillante anche se alla fine non hanno vinto loro, ma Matt Cardle.

Nel 2012 Rolling Stone organizzò una cover story sugli One Direction che alla fine non fu fatta. Di quell’articolo resta questa intervista inedita a Simon Cowell, che non è solo il giudice e il creatore di X Factor, ma anche il capo dell’etichetta che pubblicava i loro dischi in Inghilterra, la Syco.

Partiamo dall’inizio: com’è che il talento di Harry non è stato subito notato?
È una bella domanda. La sua prima audizione era stata buona. Nella seconda fase, dove avremmo scremato i concorrenti da qualcosa come 200 a 32, tutti e cinque fallirono. Nel suo caso, abbiamo dato la colpa all’età. Mentre li scartavamo, una voce dentro di me diceva: non possiamo perderli, usiamoli in qualche modo.

Ed è quello che avete fatto. Non è stata Nicole Scherzinger ad avere l’idea di metterli assieme?
No, sono stato io.

Ma è lei che lo dice in trasmissione…
Riascolterò la registrazione, ma l’idea è stata mia. Forse è andata che ho chiesto io a lei di dirlo. Dev’esserci una registrazione in cui mi rivolgo a lei: «Dovresti dirlo tu».

Che cosa vedevi in quei cinque?
Avevano tutto. C’era Harry, tanto per cominciare. E poi nell’edizione di quell’anno i gruppi erano scarsi. C’era un vuoto nel mercato da riempire. Ho fatto quello che faccio da quando gestisco un’etichetta: mi fido del mio istinto. Mi è andata spesso bene. Quando sono usciti di scena ho dovuto prendere la decisione al volo: ne recupero quattro o cinque? Ho dovuto capirlo in 15 minuti, non di più.

E alla fine neanche hanno vinto.
Una delusione, ero convinto che avrebbero vinto perché ogni volta che salivano sul palco l’energia che si sprigionava era pazzesca. Si capiva che stavano diventando popolari. Ma all’X Factor inglese ci sono tante donne over 30 che votano e quindi fanno altre scelte. Io comunque li ho messo sotto contratto.

È dai tempi di American Idol che difendi i gruppi teen anche se a gente più vecchia non piacciono.
Faccio questo lavoro da un sacco di tempo e anche se certi gruppi alla fine non funzionano, sentivo che era la cosa giusta da fare. All’epoca non avevo capito quanto fossero diversi l’uno dall’altro quei cinque. Da quando abbiamo detto loro “Ora siete un gruppo” hanno avuto sei settimane per prepararsi alla fase successiva della trasmissione. Dovevano conoscersi meglio e lavorare a un paio di canzoni. Dopo sei settimane sembrava che fossero assieme da uno o due anni. C’era una tale chimica fra di loro.

È quando sono venuti a cantare a casa tua?
Sì. Erano stati bravissimi. Non avevo dubbi sul fatto che sarebbero passati.

Forse non immaginavi che sarebbero diventati delle star.
Quando ho per le mani qualcosa di buono tengo ad essere ottimista, ma a dirla tutta non avevo un grande piano. Pensavo che fossero brillanti e avessero buone probabilità di farcela.

Come hai trovato un equilibrio fra la necessità di guidarli e la volontà di dare loro il controllo creativo del progetto?
Mentre sceglievamo le canzoni settimana dopo settimana parlavo e discutevo con loro, e mi piaceva. Erano alla moda, avevano buon gusto, conoscevano il mercato. Quando abbiamo fatto il disco non abbiamo dovuto forzarli su niente. Se una canzone non piaceva al gruppo la scartavamo. Ma eravamo sulla stessa lunghezza d’onda. Non ricordo alcuna tensione, mai.

Guardavi al futuro…
Sai, è il tipo di relazione che finisce male se i cantanti non sentono di essere rispettati o pensano di essere trattati come marionette. Oppure c’è il caso opposto di un gruppo che ha opinioni forti, ma prende decisioni sbagliate. Fortunatamente il nostro caso è diverso. Non c’è alcuna separazione tra gruppo, management ed etichetta. Lavoriamo assieme per il bene del gruppo.

Come ci si fa ad assicurarsi che un gruppo così non diventi un fenomeno passeggero?
C’è solo una cosa da fare: pubblicare bei dischi, migliori di quelli della concorrenza, migliori di quelli che hai fatto in passato. Alla fine conta la la musica. Bisogna rispettare la band, non scendere a compromessi. Viviamo in un’epoca in cui puoi fare le cose in modo innovativo, nel mercato. Questa band ha avuto successo non grazie all’etichetta, ma ai fan. Significa che le regole stanno cambiando. Bisogna trattare i ragazzi in modo umano, non caricarli di troppo lavoro, far sì che se la godano, insegnare loro come funziona il business e soprattutto avere grandi canzoni. Se riascolti i Monkees senti che i pezzi erano forti e la stessa cosa può essere detta degli ‘NSync, avevano i migliori al mondo che scrivevano per loro.

Mi sembra che con gli One Direction non stiate cercando di proiettare un’immagine pulita come quella di altre boy band.
I tempi cambiano. Quando li ho incontrati ho detto loro: dovete divertirvi, entro certi limiti. Non credo negli svengali che manipolano i ragazzi decidendo che cosa possono o non possono fare. Se superano una linea, io ci sono e lo faccio notare, ma sono bravi ragazzi e sanno come divertirsi. Se avessi la loro età, vorrei spassarmela anch’io. Non funziona se i ragazzi si annoiano, i fan se ne accorgono. Sono tutti e cinque bellocci e amano le ragazze, chiaro che qualcosa succede. Sarebbe da pazzi mettere dei paletti. E anche se lo facessi, se ne fregherebbero.

È incredibile l’interesse che i tabloid hanno nei loro confronti.
È un segno del fatto che hanno qualcosa in più. Hanno cinque personalità differenti ed è uno dei motivi che ci hanno spinti a metterli assieme.

Allora parliamo di loro. Che cosa ti ha colpito di Zayn?
A un certo punto, durante la seconda fase, non riusciva a fare una mossa suggerita dal maestro di danza. Lo trovava imbarazzante. È uscito dalla competizione e si è seduto in platea. L’ho raggiunto e gli ho detto che doveva farlo: “Non è la fine del mondo. Se ci riesci, vedrai che riuscirai fare qualunque cosa. Se te ne vai, perdi qualcosa”. Non sapevo che alla fine sarebbe entrato negli One Direction, semplicemente mi spiaceva per lui, povero ragazzo. Non sapeva quanto valeva, aveva un problema di autostima.

Qual è stato il primo impatto con Harry?
Ricordo tutto, a partire dalla prima audizione: quel che ha detto, quel che ha fatto. Mi è piaciuto subito. Aveva tutto: fiducia in sé stesso, carisma, talento canoro. Non ha cantato benissimo alla prima audizione, ma si capiva che era bravo e catalizzava l’attenzione. Era esattamente quel che si cerca quando si mette in piedi uno show come quello: un frontman nato.

Che cosa hai visto in Louis?
Un gran gusto. Si veste bene, sa che cosa va di moda, ama la musica, conosce i trend. Ed è importante che in un gruppo ci sia uno così, è fondamentale.

E Niall?
Mi è piaciuto subito. È molto dolce. Ama l’ambiente della musica. Quando non era sul palco, era nel backstage a osservare gli altri concorrenti.

Liam?
Gli ho fatto un’audizione prima di X Factor, quando aveva 14 anni, ma non era andata bene. Per un motivo o per l’altro non era amato dagli altri giudici, ma da me sì. La prima volta non ce l’ha fatta perché era troppo giovane. È tornato una seconda volta e mi ha fatto piacere, vuol dire che aveva carattere.

Hanno impegni fino al 2013. Non è rischioso? Non ho mai visto concerti nelle arene andare sold out come tanto anticipo.
È l’offerta che si adegua alla domanda. Potremmo farne molti altri, di concerti. Tutti vogliono qualcosa da loro, adesso. Faranno un altro disco, probabilmente un film, hanno progetti. Le loro idee contano quanto le nostre. Sono dei gran lavoratori.

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