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Siedah Garrett: «Andare in tour con Michael Jackson era come viaggiare con Gesù bambino»

Il primo incontro in studio, il duetto su ‘I Just Can’t Stop Loving You’, gli hotel assediati dai fan, l’ultimo ricordo: la cantante e autrice di ‘Man in the Mirror’ racconta gli anni col Re del pop

Foto: Afro American Newspapers/Gado/Getty Images

Siedah Garrett si è assicurata un posto nella storia della musica come la donna che ha scritto Man in the Mirror per Michael Jackson, per poi duettare insieme a lui nella hit mondiale I Just Can’t Stop Loving You. Ha anche firmato il brano di Jackson del 1991 Keep the Faith e ha viaggiato con lui come corista nel tour di Dangerous. Poco prima della sua morte, era pronta ad accompagnarlo nella residency londinese This Is It.

Tuttavia, ha una solida storia musicale anche senza contare le collaborazioni con Jackson. Ha partecipato a session e tour con Madonna, ha fatto i cori nei dischi di artisti d’ogni tipo, dai Wang Chung a Barbra Streisand, ha scritto canzoni per Dream Girls e Rio che le hanno fruttato più di una nomination agli Oscar. È anche autrice di uno dei pezzo dell’ultimo LP di Diana Ross Thank You e sta lavorando al nuovo adattamento per il grande schermo di Il colore viola. Qui, in collegamento dalla sua casa di Los Angeles, ci racconta com’è stato collaborare e viaggiare in tour con il Re del pop.

Com’è che hai iniziato a lavorare con Michael Jackson?
Nasce tutto dall’incontro con Quincy Jones. Aveva chiesto ai suoi autori della West Coast una canzone per l’album Bad. Ero diciamo così nella sua orbita perché faceva delle audizioni, voleva mettere in piedi un gruppo come i Manhattan Transfer o Fifth Dimension, un gruppo vocale di uomini e donne insomma, faceva questi provini a Hollywood.

La sera prima dell’audizione ho ricevuto una chiamata. Non era la mia amica con cui cantavo nei Black Velvet & Satin Soul, non era lei a chiamarmi. Anche lei doveva fare l’audizione. Era il suo ragazzo. «So che domani lei farà questo provino, secondo me dovresti andare anche tu». E io: «Quincy Jones? Ok». Non l’avevo mai incontrato. «Devi andare», insisteva, «è roba grossa». Non sapeva a che ora sarebbe stato, mi ha dato solo l’indirizzo. Mi sono presentata alle 7 del mattino. Le vere audizioni sarebbero iniziate nel pomeriggio. Ero la terza. Quando è arrivata l’ora, la fila arrivava in fondo all’isolato.

Siamo entrati e c’era un tavolo pieno di cartellette. Dovevi scrivere il giorno e l’ora in cui volevi tornare per esibirti. Io ero già lì, volevo fare l’audizione. Ero pronta quel giorno lì. Così l’ho fatto.

Anni dopo, Quincy mi ha detto che voler fare subito l’audizione ha alzato l’asticella. Chiunque avrebbe cantato dopo di me sarebbe dovuto essere alla mia altezza, o fare di meglio. Per mesi ho ricevuto delle lettere: «Congratulazioni, sei una delle 500 persone prese in considerazione per il progetto di Quincy Jones. Congratulazioni, sei una delle 100… 50… 25… 15… 10… 5… 4».

Alla fine sono rimasta io, più tre tizi. Decca offriva un pacchetto unico, diritti d’autore e di edizione. Volevano che scrivessi 12 pezzi all’anno e sarebbero stati tutti di Quincy. Io non sono una musicista. Posso collaborare alla scrittura dei pezzi, non di più. Per arrivare a 12 pezzi all’anno avrei dovuto scriverne 24. E non parliamo di cosa avrei dovuto fare dividendo tutto per quattro. Così ho detto: non voglio un contratto come autrice, non scrivo e non voglio firmare un contratto sbagliato con Quincy Jones, quindi no. Per gli altri andava bene. Hanno incontrato Quincy e hanno firmato. Poi lui ha chiesto: «E la firma di Siedah?». E loro: «Non vuole la parte delle edizioni, solo quella per le registrazioni».

Quincy ha restituito il foglio e ha detto: «O firmate tutti, o non lo farà nessuno». Un attimo dopo (imita il rumore di un pugno sbattuto sulla porta): Siedah! Stronza devi firmare! Quando tre neri grossi così ti dicono di firmare, tendenzialmente tu firmi. L’ho fatto e visto che fino a quel momento avevo scritto solo poesie, mi sono messa a studiare l’arte della composione di canzoni. Nel frattempo facevo le demo per altri, così ho imparato come si scrive, come si arrangia, l’effetto che si può ottenere cambiando strumenti e atmosfera.

Ho imparato tantissimo solo cantando nelle demo degli altri, mi ha aiutato nella scrittura. Pensavo: in quella canzone qui c’era un bridge… mi piaceva come entrava al ritornello… c’era un’intro e poi subito la strofa. Ho imparato un sacco di cose. È stata una grande lezione. Ci ho messo un po’ a capirlo, ma sono cresciuta molto come autrice.

È così che sei arrivata alle session di Bad?
Sì. Dobbiamo saltare un po’ in avanti, fino a quando Quincy non ha avuto bisogno di un’altra canzone. In quell’incontro ho preso vari appunti, poi sono andata da Glen Ballard, avevo cantato nelle sue demo e amavo il suo modo di scrivere. Gli ho detto che Quincy cercava un pezzo per Michael Jackson e gli ho chiesto se aveva voglia di scriverlo. Non avevo mai scritto con lui, cantavo solo le demo. Lui ha accettato. Sono andata nel suo studio, mi sono seduta sul pavimento e ho aperto il mio libro dei testi.

Ora torniamo a due anni prima. Scrivevo col tastierista jazz John Beasley. Straordinario. Mentre stavamo scrivendo un pezzo è squillato il telefono. Risponde lui e inizia a chiacchierare con non so chi. Ricordo che sfogliavo il quaderno e pensavo che era assurdo che rispondesse al telefono mentre scrivevamo. Mentre ero lì arrabbiata gli sento dire: «Di chi parli? Che uomo? Ah, the man in the mirror».

Torniamo alla session con Glen. Ero seduta sul pavimento e lui fa: «Che tipo di canzone vorrebbe Quincy?». Non lo sapevo. Si è girato verso la tastiera e si è messo a suonare degli accordi. (Imita l’inizio di Man in the Mirror). Io intanto sfogliavo il quaderno e quella frase mi è apparsa davanti agli occhi.

Ogni volta che racconto questa storia mi viene il batticuore, rivivo quel momento. È stato grandioso! Ho iniziato a cantare, era la strofa di Man in the Mirror. Non riuscivo a scrivere abbastanza veloce. «Aspetta, Glen, aspettami!». Cercavo di metterci dentro tutto, le mani si muovevano da sole. Nel giro di dieci minuti avevamo la prima strofa e il ritornello.

Era mercoledì pomeriggio. Glen mi ha detto di andare a casa e finire la seconda strofa, lui avrebbe pensato al resto. Volevamo registrare la demo venerdì. Ci siamo rivisti quel giorno e l’abbiamo fatto. Poi ho portato il pezzo a casa di Quincy.

E poi che è successo?
Mi ha chiamato dopo un paio d’ore. Sono a casa a cucinare la cena, suona il telefono ed è Quincy Jones. Mi ha detto: «Sied, è il pezzo migliore che abbia sentito negli ultimi dieci anni». Ha detto proprio così. Mi sono messa a piangere. «Ma…». Ecco, io non volevo più starlo a sentire, volevo vivere quel momento di gloria per sempre. «Ma… io e Michael siamo in studio da due anni e mezzo, non abbiamo mai registrato un pezzo che non avesse scritto lui. Non lo so, Sied. Ma non ti preoccupare. Se non la canterà Michael Jackson, lo farà James Ingram».

Ora, io adoravo James Ingram, come tutti quanti. Ma Michael Jackson è un’altra cosa… Quincy mi ha richiamata tre o quattro giorni dopo: «Siamo in studio a registrare il tuo pezzo. Michael dice che il ritornello è troppo breve. Ci serve più testo. Aspetta…». E poi ho sentito: «Pronto?». Quincy Jones aveva passato il telefono a Michael Jackson in persona! Non so te, ma quando ero piccola era tipo il principe azzurro. Le mie cugine avevano Tito e Jermaine, io Michael. Nella mia testa ero al telefono con il mio grande amore! Dovevo solo controllarmi, non volevo fare la fan. Non volevo che mi sentisse dire: oh dio, Michael, ti amo così tanto. Non ne hai idea. Sposami! Non volevo fare niente del genere. Così quando l’ho sentito sono passata alla modalità receptionist dell’hotel: come posso aiutarla?

La prima cosa che mi ha detto è stata: «Amo questa canzone». E io: grazie amico. La seconda cosa che Michael Jackson mi ha detto è stata: «E amo la tua voce». Dio mio! Stavo camminando a tre metri da terra. Poi ha detto qualcosa sulla seconda strofa, ma vabbè.

Anche nella mia ingenuità, non volevo che Michael si preoccupasse di scrivere il testo per la seconda parte del ritornello. Così ho scritto sei versioni diverse. Vorrei avere ancora la lista di quelle che ha scartato. Non l’ho più ritrovata, ma so che da qualche parte c’è.

Poi ti hanno chiesto di andare in studio?
Sì. Quincy mi ha detto che il pezzo era in una tonalità troppo alta per Michael, così dovevo cantarla più bassa. Sono andata in studio e mi aspettavo di cantare la demo in un’altra tonalità e tornare alle mie cose. Invece c’erano il fonico Bruce Swedien, Quincy Jones… e il mio principe azzurro. Dio mio. Ma sono riuscita a non fare la fan. Si è presentato, come se ce ne fosse stato bisogno. Assurdo.

Abbiamo parlato del pezzo, poi Quincy mi ha chiesto di cantare. Inizio a camminare verso il vocal booth e vedo Michael con una telecamera gigantesca che filma. «Ho bisogno di registrare», mi ha detto. E perché? Porto ancora la sua risposta nel cuore: «Perché voglio cantarla come te». Wow! L’ha detto davvero!

Siamo entrati nel booth e mi ha registrato mentre cantavo Man in the Mirror in una tonalità più bassa. Non avevo mai raccontato questa storia, mai. Poi, quando è uscito il documentario di Spike Lee, Bad 25, ho visto le riprese. Lui è riflesso specchio dello studio. Ci sono io che canto Man in the Mirror e nello specchio c’è lui che mi riprende. Era folle, come se l’energia schizzasse sui muri. Pazzesco.

Come sei finita su I Just Can’t Stop Loving You?
Beh, ero in studio e Quincy e Michael stavano parlando. Pensavo che avremmo continuato con Man in the Mirror. Servivano un sacco di cori. Pensavo che Quincy mi avrebbe richiamato per fare un’altra session, con un coro. Invece c’erano solo loro tre. Ero convinta che avremmo fatto Man in the Mirror e che gli altri cantanti fossero in ritardo. Poi parte un altro pezzo e Quincy mi chiede: «Ti piace, Sied?». E io: sì. Stavo impazzendo. «Puoi cantarla?». Io dico di sì, e lui: «Allora vai a registrare».

Mi incammino, non avevo capito che dietro di me c’era Michael. Entro nel booth e vedo due aste, due spartiti e due testi di I Just Can’t Stop Loving You. Dicevano: “Prima strofa Michael. Seconda strofa Siedah. Ritornello Michael”.

È in quel momento che ho realizzato che avrei duettato con il Re del pop. Era assurdo. Dio mio. Vivevo una vita assurda. Una cosa incredibile dopo l’altra. Era troppo.

Come mai non sei partita per il tour di Bad?
Michael me l’aveva chiesto. Io avevo detto di sì, poi ho parlato con Quincy Jones, Rod Temperton e i tipi di Warner Chapell e Warner Bros Music. Mi dicevano: «Hai già Man in the Mirror, poi il duetto. Dovresti fare un disco tuo». Ho fatto due settimane di prove per il tour di Bad, poi mi sono dedicata alla registrazione del disco. Il mio posto è stato preso da Sheryl Crow.

Hai firmato un brano di uno dei dischi più venduti degli anni ’80. Dev’essere andata piuttosto bene, economicamente…
Niente male (ride).

Raccontami di quando hai scritto Keep the Faith per Dangerous.
Michael ha parlato con me e Glen Ballard: «Vorrei un altro pezzo come Man in the Mirror, ma più duro». Non ricordo le parole esatte, ma io e Glen abbiamo tirato fuori le strofe e il ritornello di Keep the Faith, poi abbiamo chiesto a Michael di scrivere il bridge. Io volevo solo scrivere un pezzo con lui. Sapevamo che invitandolo avremmo avuto più possibilità che la canzone finisse nel disco e così è andata.

E come sei finita nel tour di Dangerous?
Non ricordo di preciso. Sapevo che non avrei rifatto la cosa con Sheryl Crow. Non me lo sarei perso come quello di Bad. Ero eccitata all’idea di stare con gli altri, erano tutti amici. Avevo provato con loro due settimane e non ero partita, mi chiamavano e dicevano: «Siamo a Cork, in Irlanda! Siamo a Londra!». Volevano coinvolgermi, ma in realtà ne soffrivo molto.

Com’era viaggiare con Michael?
Era come stare in tour con Gesù bambino. Aveva legioni di fan che di solito potevano solo ascoltarlo o vederlo in foto, così quando lo trovavano in hotel scoppiavano in lacrime e urlavano il loro amore.

Odiavamo stare nel suo stesso hotel. C’erano tre categorie: la A con gli hotel di Michael e dei suoi ospiti. La B per band e cantanti. La C per il resto della crew. Ma in certi posti, in Europa, non c’erano hotel B, così finivamo in quello di Michael. E lo odiavamo perché non si riusciva a dormire. I fan facevano delle specie di session fuori dall’hotel, accendevano candele, cantavano. Era incredibile. Preferivamo stare lontano da Michael, i suoi fan erano instancabili.

Una volta eravamo in Spagna e avevamo una giornata libera. Ero felice, potevo fare shopping. Ho incontrato un musicista della band nella hall e abbiamo cambiato i soldi. Eravamo alla reception, fuori dall’hotel c’era un percorso ricavato con delle corde di velluto, era l’unico modo per far passare gli ospiti dell’albergo attraverso quell’oceano di fan.

Siamo usciti dall’hotel e ce li siamo ritrovati davanti. Io parlavo di scarpe e vestiti in pelle, poi qualcuno ha detto dice: «Ehi! Quella è Siedah Garrett!». Mi stavano venendo tutti addosso, così ci siamo messi a correre. Era un inseguimento. Io mi guardavo alle spalle e pensavo: ma se ci prendono che fanno?

Abbiamo corso per vari isolati. Qualcuno deve aver detto «e se Michael uscisse proprio mentre inseguiamo Siedah Garrett?» perché sono tornati tutti verso l’hotel. La sua vita era così, ogni santo giorno.

Com’era stare sul palco di uno stadio e vedere 90 mila persone andare fuori di testa? Nei video si vede gente che piange, c’è chi sviene…
Una follia. Assurdo quanto i suoi fan gli siano ancora così fedeli. [Durante i concerti] trasferiscono quella fiducia su di me, io sono un conduttore, un collegamento. I suoi fan vogliono proteggere la sua eredità. Apprezzano il fatto che io faccia lo stesso.

E vederlo ballare così da vicino?
Straordinario. Lo osservavi alle prove e poi sul palco eseguiva tutto alla perfezione. Era umile, era uno dei migliori, come Fred Astaire o James Brown, gente che ammirava e da cui ha preso qualcosa per poi rifarla a modo suo… erano quelle le persone che rispettava.

Se gli piacevi te lo faceva capire, non importava chi fossi. L’ha fatto con me, pensava davvero che avrebbe potuto imparare qualcosa da me, come io da lui. Affrontava tutto quanto con questa mentalità, dal ballo alla voce, fino alla scrittura. È uno degli autori meno apprezzati che abbia mai incontrato.

Avete suonato anche al Super Bowl.
Sì!

È rimasto immobile per due minuti, mentre l’intero Paese lo guardava in diretta tv. Com’è stato vivere quel momento?
Pazzesco. Quando era in forma era davvero grandioso. Faceva un grande show ogni sera, ma a volte c’era davvero da alzarsi e applaudire. Eravamo increduli. È l’unica persona che abbia mai visto capace di fare quattro giravolte in equilibrio sul tacco. L’abbiamo visto, qualcuno l’ha anche registrato e poi l’ha rallentato. Erano otto giravolte. Pazzesco. A volte anche noi sentivamo di dover mollare, ma lui si ripeteva ogni sera.

Passavate tanto tempo insieme lontano dal palco?
No. Ho passato più tempo con lui in studio [durante le session di Bad]. Nessuno lo vedeva durante i tour. Stava per conto suo. Quando avevamo giorni liberi lui andava negli ospedali pediatrici, negli orfanotrofi, non sapevamo dov’era e cosa stava facendo, lo scoprivamo leggendo i giornali. Ma ormai eravamo già da un’altra parte.

Ti sei riavvicinata a Michael, prima che morisse.
Sì. Qualcuno di American Idol voleva cantare Man in the Mirror e mi hanno telefonato per chiedermi di assistere allo show. Ci sono andata e lì ho incontrato una donna, l’avevo vista solo un’altra volta, al Neverland Ranch. Era la tata di Michael. Mi ha detto che aveva appena parlato con lui e che l’avrebbe chiamato. Io dovevo tornare in studio, così le ho detto: quando lo senti digli che mi manca il suo culo nero.

Rideva istericamente, mi ha detto che l’avrebbe fatto. Alla pausa successiva è tornata e me l’ha passato: «Eccomi, qui c’è Michael al telefono». La prima cosa che gli ho detto è stata proprio che mi mancava il suo culo nero. E lui: «Sei una matta!». Gli ho detto che mi avevano nominata agli Oscar, ma lo sapeva già. Così gli ho chiesto dei concerti a Londra. «Sì, sarà un grande tour, grandioso. Ci divertiremo un sacco». Gli ho detto che sarei voluta andare anch’io, e mi ha detto di farlo. Sono andata alle audizioni per capire come mi sarei trovata con gli altri cantanti, ma poi il tour è saltato.

La notizia della morte dev’essere stata scioccante…
Non ne hai idea. Sentivo anche il dolore di tutti quelli che ci conoscevano entrambi. Il telefono non smetteva di squillare. «Channel 2, Channel 4, Eyewitness News, Entertainment Tonight». Tutti volevano lo scoop o gettare fango su Michael. Poi mi hanno invitato in una chiesa aconfessionale di Los Angeles. La direttrice del coro era un’amica, mi ha detto: «Michael è morto giovedì. Faremo una cosa per lui domenica. Il coro ha studiato Man in the Mirror. Ti va di venire a cantarla?». Ho detto di sì.

Sono salita sul palco e ho detto: i media mi bombardano, vogliono che io getti fango su Michael. Non ho niente da dire loro, conosco solo l’uomo e la sua musica, tutto qui. Loro non volevano sapere niente di tutto questo, volevano il fango. Per loro ero inutile.

Dev’essere stato difficile leggere tutte le storie e le accuse che sono uscite negli ultimi anni. Non hanno niente a che vedere con la sua musica, ma hanno allontanato molte persone…
Non c’entrano niente con la musica e i suoi fan lo capiscono. Lo capiscono bene.

Quando ho duettato con Michael, a me quella sembrava una canzone d’amore. E la stava cantando proprio a me. Quando è morto ho realizzato che non gli avevo mai parlato del mio amore per lui. Così ho scritto una canzone, Keep On Loving You. Ho anche girato un piccolo video. Se ci ripenso mi viene da piangere, l’ho scritta in uno stato particolare e non ho mai avuto modo di dirgli quanto ha cambiato la mia vita. Sono sicura che lo sapesse già, ma non sono mai riuscita a dire nulla.

Ovviamente sei ancora qui a sostenerlo: è stato difficile leggere delle controversie che lo riguardano?
Sì. È stato brutto e inquina la sua eredità musicale. È una macchia. Una sfortuna.

Dev’essere bello pensare che c’è ancora chi ascolta Man in the Mirror, che ispira altri artisti. Succede da decenni. Deve farti sentire parecchio bene.
Ogni otto secondi c’è qualcuno che nel mondo fa partire quel pezzo. È una cosa che mi rende felice. E poi nel 2022 ci sarà a Broadway MJ: The Musical, faranno Man in the Mirror e Keep the Faith. Che meraviglia.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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