«‘Siamo solo noi’ è una sassata che fece imbestialire tutti» | Rolling Stone Italia
Interviste Musica

«‘Siamo solo noi’ è una sassata che fece imbestialire tutti»

Il primo album da cantautore rock di Vasco Rossi, ristampato oggi, raccontato dal fonico Maurizio Biancani: la rottura col passato, i fasci che li vogliono menare, il bassista 'rubato' alla Nannini

«‘Siamo solo noi’ è una sassata che fece imbestialire tutti»

Vasco Rossi

Foto: Alessandro Pizzarotti/Chiaroscuro Creative

Nell’aprile di quarant’anni fa usciva Siamo solo noi, uno di quegli album capaci di cambiare le regole del gioco, per lo meno quelle di un Paese che poteva annoverare tra le proprie fila un gran numero di cantautori di livello assoluto, ma che sul piano del rock viveva ancora sostanzialmente delle imitazioni di Elvis fatte da Little Tony e Bobby Solo. Al di là di un personaggio come Adriano Celentano e dei gruppi che avevano sposato in modo sublime la causa del progressive, in Italia prima di Siamo solo noi un album costruito su basso, batteria e chitarra, suonato praticamente in presa diretta e con testi di quel tipo non si era mai sentito. Merito dell’audacia di Vasco Rossi, ma anche di un gruppo di musicisti e addetti ai lavori nel posto giusto al momento giusto.

Tra questi c’era il giovane Maurizio Biancani, già al lavoro da anni con Vasco e Lucio Dalla, che da lì a breve sarebbe diventato uno degli ingegneri del suono più richiesti del nostro Paese. «Non era la prima volta che lavoravo con Vasco. Anzi, a dirla tutta, la mia carriera e quella di Vasco hanno avuto percorsi completamente paralleli e complementari. Avevamo iniziato insieme con …Ma cosa vuoi che sia una canzone… e siamo andati avanti per quarant’anni. L’unico album che mi sono perso è stato Colpa d’Alfredo, perché stavo lavorando con Dalla e le tempistiche non lo permisero. Però tornai al momento giusto».

Siamo solo noi, ristampato in una edizione speciale della serie R>PLAY per il qurantennale, rappresentò la rottura quasi completa con il background musicale di Vasco Rossi: «Mi commuovo ancora quando penso a quelle session, perché fu la prima volta in cui in sala di registrazione respiravo un’aria completamente nuova, per noi decisamente rivoluzionaria. Se è vero che la svolta di pubblico sarebbe giunta solo con Bollicine, un disco che ci avrebbe portato a trovarci di fronte a 30 mila persone rispetto alle 2000 che avevamo visto fino ad allora, fu con Siamo solo noi che Vasco ruppe con tutto il passato musicale italiano, compreso il suo».

Dell’insegnamento dei cantautori restava forse solo la struttura dei testi, ancora dominati dall’abbondante uso della parola, della voglia di raccontare storie, ma se prima il tutto era inserito in un contesto musicale che poteva rimandare tanto a Jannacci che a Rino Gaetano, passando per De André, De Gregori o Mogol, ora a farla da padrone era una tensione musicale assente in precedenza. «Non è un caso che lo stesso Vasco continui a sottolineare il suo passaggio da cantautore classico a cantautore rock. Essendo cresciuto in un contesto socio-culturale ben preciso, era inevitabile che venisse influenzato da un certo tipo di autori. Al di là dei soliti, ricordo la sua passione per Lucio Battisti e per le sue innovazioni dal punto di vista musicale. Per esempio adorava l’utilizzo che Lucio aveva fatto delle seconde voci e lo portò all’interno della propria musica. Ma se parliamo di linguaggio, i suoi testi ormai non avevano più metri di paragone. Fino a Non siamo mica gli americani i nostri dischi si basavano ancora su canoni conosciuti, con l’aggiunta di invenzioni sonore atipiche, quasi da cabaret per certi versi, ma comunque ancora sostanzialmente in linea col passato. Da Siamo solo noi in avanti, invece, abbiamo in qualche modo dato vita a un classic rock italiano. È un album senza tastiere, rabbioso, in cui gli unici momenti di ammorbidimento erano caratterizzati da Incredibile romantica e Che ironia, che fungeva un po’ da trait d’union con certe cose del passato. Il resto era una sassata, da tutti i punti di vista».

Vasco nel 1981. Foto: Eleonora Pradella

Oggi come allora, brani come Ieri ho sgozzato mio figlio o Valium rendono bene l’idea di quanto Vasco si stesse spingendo oltre i cliché che avevano caratterizzato fino a quel momento la musica che entrava in classifica. «Sai, magari oggi un brano come Valium può far sorridere, se consideri il salto culturale avvenuto negli ultimi decenni, ma all’epoca era qualcosa di sconvolgente. Ci voleva coraggio. Vasco non aveva paura di dirti quello che era, quello che faceva. Per i benpensanti eravamo gli sbandati, i drogati, la feccia della società. Siamo stati costretti a censurare il titolo di Ieri ho sgozzato mio figlio perché i discografici la consideravano una bestemmia. E nemmeno si rendevano conto che parlava degli anni di piombo. E dal vivo eravamo la stessa cosa. Era sempre una lotta. Bologna all’epoca era forse la città più viva in Italia, uscivi dagli studi alle 4 di mattina e trovavi i ristoranti e i locali aperti, ma aveva vissuto la fine dei ’70 in modo molto intenso. Avevamo avuto i carri armati in piazza, poi sarebbe arrivata la strage. Sui palchi delle feste dell’Unità spesso salivano i fasci per menarci. Vasco si infilò in quel contesto facendo imbestialire tutti, dai giornalisti ai benpensanti, aprendo di fatto un mondo diverso. La sua forza stava nel fatto che tutto quello che diceva, che urlava, rappresentava esattamente il suo modo di vivere. Non era una cosa tipo: “Lo dico ma non lo faccio”. Era l’incarnazione di quello che cantava. Le sue erano accuse al sistema da uno che viveva fuori dal sistema».

Eppure, il merito di quella svolta non fu esclusivamente di Vasco. «Logicamente, quando Vasco arrivava in studio era evidente che fosse l’esempio da seguire istante per istante. Arrivava con delle parti di chitarra o canzoni abbozzate che aveva registrato per farci capire la direzione da seguire. A volte anche con i soli di chitarra cantati per far capire a Solieri come e dove partire, ma poi tutto avveniva in presa diretta in studio. Siamo solo noi fu fondamentale anche per creare quel clima quasi cameratesco che avrebbe caratterizzato la band negli anni successivi. Io, Solieri e Guido Elmi avevamo sostanzialmente lo stesso background musicale, che andava dai Deep Purple ai Led Zeppelin, passando per Jimi Hendrix. Ero un grande fan di Page e Blackmore, quindi mi trovavo circondato da gente che parlava il mio stesso linguaggio. Poi c’era Massimino Riva, che portava la sua ventata di AC/DC e punk, che per noi era qualcosa di poco conosciuto. Ieri ho sgozzato mio figlio era farina del suo sacco, per esempio, ma la sua importanza dal punto di vista musicale era enorme. Per molti era solo il ragazzo che Vasco si era portato via di casa, ma Massimo aveva una sensibilità musicale pazzesca: suonava già la ritmica in modo eccezionale e sapeva comporre. Non a caso Vasco gli lasciò sempre moltissimo spazio in fase di registrazione».

«Oggi può sembrare una follia, ma ai tempi ogni disco che facevi lo vivevi come se da quello dipendesse tutta la tua vita. Il resto non esisteva più. Era una cosa davvero estrema: si viveva lì e il resto non esisteva più, non contava più nulla. Però in quel modo veniva a crearsi una magia per cui ognuno dava tutto quello che poteva dal punto di vista creativo. Ce lo potevamo permettere perché eravamo liberi. Tutto cambiava nel corso delle registrazioni, si partiva da quei provini su cassetta e alla fine i pezzi erano completamente stravolti. Io montavo tutti gli strumenti in sala, microfonavo tutte le postazioni e poi si andava a braccio, arrangiando i pezzi direttamente in studio. Lo stesso riff di basso di Siamo solo noi di Golinelli nacque così: “Dai Claudio, facciamo una cosa che caratterizzi l’inizio del brano”. E lui se ne uscì con quella roba pazzesca. Ecco, l’arrivo del Gallo fu la ciliegina sulla torta. Vasco e Massimo andarono apposta a vedere la Nannini per rubarglielo. Lui aveva voglia di fare cose diverse e, quando capì in che razza di posto era finito, non se ne andò più. Diciamo che eravamo il gruppo migliore per uno come lui. Da ogni punto di vista».

Foto: Claudio Fasolin

Per Biancani, partecipare alla realizzazione di un album significava anche dare sfogo a tutta la sua fantasia e creatività e non solamente occuparsi dell’aspetto tecnico di ciò che veniva registrato. Non a caso, nelle crediti di copertina, non si parlava anche di effetti speciali. «Facevo anche il programmatore, quello che oggi chiamano sound designer. Non facevo il tastierista, facevo i suoni analogici delle tastiere. Mi ero appassionato al mondo della sperimentazione e della creazione sonora e mi occupavo di tutte quelle che possiamo definire sorprese acustiche nei dischi di Vasco. Per farti un esempio, quando registrammo Bollicine trovai una scatola di Alka-Seltzer e ne buttai una pastiglia dentro a un bicchiere per creare l’effetto della Coca-Cola appena stappata. Oppure tutte le volte che facevamo passare la voce attraverso una radio per dare l’effetto di un altoparlante. Eri costretto a spremere le meningi. I campionatori non esistevano e dovevi inventare tutto al momento. Poi, se l’esperimento faceva schifo, tagliavi il nastro e ci riprovavi. Ma la soddisfazione di aver creato ex novo un suono che prima non esisteva era incredibile. Una cosa è cercare in libreria un suono che qualcuno ha già fatto, un altro è sapere che sei il primo a utilizzarlo. Dovevi rischiare».

A detta di tutti i protagonisti di quella storia, per la prima volta, ognuno di loro si rese conto davvero di avere tra le mani qualcosa di unico, che avrebbe potuto rappresentare un nuovo canone per gli anni a venire. «Sembra un cliché, ma quando stai realizzando qualcosa di così intenso e innovativo, dentro di te c’è una vocina che te lo conferma. Si capiva che il percorso iniziato con Colpa d’Alfredo aveva raggiunto un nuovo picco. Se penso a Dimentichiamoci questa città, forse il pezzo che anche dal vivo mi ha sempre esaltato di più, mi vengono ancora i brividi. Se esistesse una sorta di varco spazio-temporale non ho dubbi su quale sarebbe il primo posto in cui vorrei essere catapultato. Credo che Siamo solo noi sia diventato un inno generazionale proprio perché parlava di come ci sentivamo tutti in quel momento. Era composto da strofe non buttate lì per caso o per il semplice gusto di provocare. Quella era la vita che facevamo. Il mal di testa, il toast e tutte quelle immagini evocavano il nostro stile di vita. Vasco è sempre andato avanti con la propria testa. Negli anni il suo modo di scrivere è cambiato, ha lasciato via via sempre più spazio alla malinconia e all’amarezza. Si è guardato indietro e ha capito di aver sbagliato molto, di aver fatto anche male a molte persone, ma di essere comunque sempre stato fedele a se stesso. Lui è sempre stato uno vero. Chi fa finta di dire una cosa, ma poi pensa e vive in modo diverso, ha vita breve. Perché il pubblico non è stupido».

Altre notizie su:  Maurizio Biancani Vasco Rossi