Shirley Manson: «Diamo voce a chi è ai margini del patriarcato sessista bianco» | Rolling Stone Italia
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Shirley Manson: «Diamo voce a chi è ai margini del patriarcato sessista bianco»

«Il gender fluid ci libererà», dice la cantante che nel nuovo album dei Garbage 'No Gods No Masters' evoca un'idea di società diversa da quella promossa dai «vecchi uomini bianchi»

Shirley Manson: «Diamo voce a chi è ai margini del patriarcato sessista bianco»

Garbage

Foto: Joseph Cultice

Già dal titolo No Gods No Masters, rimando a uno slogan anarchico utilizzato anche dalle pioniere del femminismo d’inizio secolo scorso, il nuovo album dei Garbage in uscita l’11 giugno sembra un manifesto d’intenti. Parlando con Shirley Manson si ha la conferma che è così: in collegamento su Zoom la cantante originaria di Edimburgo non nasconde la sua indignazione per i danni del patriarcato, lei che negli anni scorsi è stata tra le maggiori sostenitrici del movimento #MeToo e che ha spesso denunciato come a metà anni ’90, quando i Garbage raggiunsero il successo con l’album di Supervixen, Queer, Only Happy When It Rains, Milk e Stupid Girl, si era sentita gli occhi dei media puntati addosso più per il suo aspetto fisico che per le sue qualità di cantante e performer.

In No Gods No Masters, settimo disco del gruppo americano a cinque anni da Strange Little Birds, il tema torna, con Shirley che su un rock energico, potente, intriso di elettronica e suoni industrial, intona versi come “would you deceive me if I had a dick?” e “destroy the violator”. «Questo nuovo album è un appello all’egualitarismo», dice lei. «Perché è da qui che dobbiamo partire, dall’idea che siamo tutti uguali e tutti degni di rispetto, di gentilezza, meritevoli degli stessi diritti e della stessa libertà».

Avete chiuso questo nuovo album prima della pandemia, giusto?
Sì, la pandemia non ha condizionato il lavoro sul disco, la maggior parte del materiale era già pronto quando è stato annunciato il primo lockdown a Los Angeles, avevamo giusto qualcosa da aggiustare nelle voci. Senza contare che avevamo cominciato a scrivere i nuovi pezzi nel 2018, parecchio prima di ritrovarci rinchiusi in casa a causa del Covid. Ciononostante i testi credo suonino attuali in modo allarmante, sarà che come musicisti viaggiamo per il mondo e abbiamo quindi l’opportunità di cogliere atteggiamenti, di riconoscere tendenze, di incontrare persone dei Paesi più diversi e di farci raccontare le loro storie, cosa sta accadendo dalle loro parti, cosa stanno combinando i loro governi e quali sono le loro reazioni. Per questo motivo credo di essere riuscita, con queste canzoni, a prevedere alcune delle istanze che sono poi affiorate con forza.

Tu come hai reagito alla pandemia?
Come chiunque altro, penso, se c’è qualcosa di peculiare in questa pandemia è che si tratta di un’esperienza universale. Quanto a me, sai, sono una persona che ama la socialità, adoro stare con gli amici, suonare con altri musicisti, suonare per la gente, mi piace sentirmi parte di una comunità, rinunciare almeno in parte a tutto questo è stato molto difficile. Al tempo stesso non ho figli per i quali preoccuparmi, sono grata di non aver perso nessuno di caro, sono privilegiata, non posso davvero lamentarmi. Ci sono tante persone che stanno soffrendo sul serio a causa di questa situazione, non mi sento in diritto di lamentarmi delle mie frustrazioni.

Nel singolo The Men Who Rule the World canti, non senza rabbia, che gli uomini nella storia “hanno combinato un gran casino”. Puoi dirmi di più?
Intanto non userei la parola rabbia: non sono arrabbiata, sono indignata e voglio che le cose cambino. Sono stufa di vedere un piccolo gruppo di vecchi uomini bianchi decidere sulle nostre teste come si dovrebbe risolvere il problema delle disuguaglianze e delle ingiustizie sociali. Desidero con tutta me stessa che il mio futuro sia nelle mani delle migliori menti che abbiamo a disposizione su questo pianeta, inclusi i cervelli di quelle persone che finora sono state tenute ai margini dal patriarcato sessista bianco. È il momento di dare voce alle donne, alle persone di colore, ai gay, ai transessuali, a tutti quegli individui che hanno uno sguardo sul mondo e sulla società diverso da quello portato avanti per secoli dai vecchi uomini bianchi di cui sopra, quelli che hanno finora detenuto il potere e che hanno portato avanti politiche poco attente all’ambiente, ai più deboli, e potrei andare avanti…

Secondo te di cosa c’è bisogno, innanzitutto?
Di nuove idee, perché tutto è cambiato in maniera così sostanziale che non possiamo più portare indietro l’orologio: l’avvento di Internet e la riorganizzazione delle persone sui social media non sono cose destinate a sparire, sicuramente non in un lasso di tempo breve, e hanno modificato profondamente la nostra esperienza del mondo, hanno cambiato la prospettiva della gente comune come non era mai accaduto prima. Oggi ci sentiamo parte di un’unica nazione globale e questo rende necessario e non procrastinabile un cambiamento nei governi e nelle loro politiche, che non possono più focalizzarsi sulla difesa di privilegi acquisiti da pochi, sarebbe folle. È folle! In The Men Who Rule the World, allora, abbraccio una visione matriarcale per denunciare questa follia nella speranza che potremo lasciarci alle spalle l’odio, la brutalità, l’intolleranza e l’idiozia di questi anni.

Non credi che in un modello di sviluppo come quello capitalista il potere, anche se messo nelle mani delle donne e di quelle che finora sono state minoranze, sia in sé qualcosa di intrinsecamente legato al concetto di privilegio e quindi di inadatto alla visione compassionevole ed egualitaria che sostieni?
Penso che quando l’essere umano conquista un qualche potere si perda sempre qualcosa, ma sono convinta che possiamo migliorare le cose, che si possano trovare migliori soluzioni per proteggere il pianeta. E di fronte alle ineguaglianze non sarebbe giusto scrollare le spalle e dire che non c’è niente da fare perché tanto il potere distorce sempre, sarebbe come rinunciare alla possibilità di lottare per una vita migliore. Io sono positiva, credo nell’evoluzione, credo nella scienza, credo che le nuove generazioni possano vivere in condizioni migliori di quelle delle generazioni passate come noi abbiamo vissuto meglio dei nostri genitori. Mio marito mi ha detto una cosa che mi ha fatto riflettere, ossia che quest’epoca è in assoluto la meno violenta della storia, ed è strano pensarlo, perché ogni giorno siamo bombardati da notizie di violenze, di abusi, di orrore, però credo sia un punto interessante.

Nel frattempo hai dedicato Sex Is Not the Enemy, pezzo dei Garbage del 2005, alla comunità LGBTQ+, comunità che oggi si sta lasciando alle spalle le lotte all’insegna del gay pride per abbracciare sempre più i concetti di non-binary, queer, gender fluid. Cosa pensi di questo passaggio?
Penso sia meraviglioso. Come persona nata donna, ma con parecchi attributi solitamente associati agli uomini, mi sono sempre sentita disconnessa con l’idea di femminilità offertami dalla nostra cultura, per cui ora mi identifico molto con la visione non-binary e gender fluid e credo che il suo avvento e la sua diffusione beneficeranno l’umanità.

In che modo?
Rimuovendo gli stereotipi relativi a cosa dovrebbe significare essere un uomo o una donna: potremo tutti quanti muoverci in maniera fluida tra queste due polarità e promuovere una versione più libera di noi stessi. E mi riferisco anche alla pressione esercitata sugli uomini affinché diventino maschi alfa, uomini di potere, perché credo che per loro quella pressione sia tanto sfiancante quanto lo è la pressione esercitata sulle donne perché siano attraenti ed eternamente giovani. Se la visione gender fluid si diffonderà, tutte queste aspettative ridicole saranno spazzate via; in fondo è anche una questione di buon senso, no?

Una volta hai detto che più invecchi più diventi punk, negli ultimi anni ti sei radicalizzata anche da un punto di vista politico?
Non penso che volere più uguaglianza o che nel mondo la gentilezza prevalga sull’egoismo capitalista significhi essere più radicali, credo sia semplicemente una questione di decenza. Non mi sento nemmeno più politicizzata, visto che non c’è un partito che mi rappresenti in toto, ho solo una visione nitida di come vorrei che le persone fossero trattate in questo mondo. Spesso quei termini, “radicale”, “politicizzato”, sono utilizzati nei confronti di artisti, cantanti e musicisti che portano avanti le loro idee per metterli a tacere, è una strategia, un modo di strumentalizzare. Ma ciò che canto non ha a che fare con la politica, ma con l’etica, con la morale. Più invecchio più trovo offensivo il modo in cui le persone vengono trattate nella società, e trovo offensivo anche come gli animali e il pianeta sono trattati. Sono cose che mi colpiscono al cuore, non si tratta di rabbia, si tratta del desiderio di consegnare ai giovani un mondo migliore di quello che noi abbiamo ricevuto dai nostri genitori. Questa è l’unica cosa che conta per me e sì, può darsi che il trascorrere del tempo renda tutto questo ancora più urgente nella mia testa, voglio dire, sono consapevole di non avere chissà quanto tempo. Ho fretta!

Quasi trent’anni fa sei diventata un’icona del rock alternativo: è vero che Butch Vig, batterista che verrà sempre ricordato anche come l’acclamato produttore di Nevermind dei Nirvana, ti ha salvato la vita?
Non è stato Butch a salvarmi, ma i Garbage. E nella fattispecie è stato Steve Marker a notarmi per primo, i media hanno spinto la storia di Butch che salva Shirley perché più intrigante, ma ciò che avvenne fu che Steve mi vide su Mtv con la mia band scozzese di allora, gli Angelfish, rimase colpito dalla mia voce e il resto è storia. Oggi sono una songwriter migliore e questo lo devo all’esperienza che ho accumulato, ma il mio rapporto con la musica non è cambiato: mi sento ancora intimamente connessa con questa forma espressiva, è il linguaggio con cui ho scelto di interfacciarmi con il mondo e di questo non posso che essere profondamente grata, perché è qualcosa di davvero, ma davvero appagante.

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