Shablo e il suo nuovo ‘Manifesto’: storia di un ritorno alle radici | Rolling Stone Italia
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Shablo e il suo nuovo ‘Manifesto’: storia di un ritorno alle radici

Nel nuovo album il produttore italo-argentino omaggia il soul, l’R&B e i generi da cui è nato l’hip hop. Un ritorno da protagonista per soddisfare gli amanti dell’old school e istruire i nuovi adepti

Shablo e il suo nuovo ‘Manifesto’: storia di un ritorno alle radici

Shablo. Foto di Enea Colombi

È un produttore, beatmaker, dj e persino manager di rapper del calibro di Sfera Ebbasta: Pablo Miguel Lombroni Capalbo, in arte Shablo, lo conoscono un po’ tutti nell’ambiente hip hop, perché sostanzialmente è il Leonardo del rap game italiano. Sa fare praticamente tutto, ma appunto il suo è un ruolo non sempre da protagonista.

Con Manifesto, il primo album dopo almeno una decina d’anni, il producer italo-argentino ha deciso non solo di tornare in prima fila, ma di farlo anche con un viaggio a ritroso alle origini del rap. È un album prima di tutto suonato da veri musicisti con gli strumenti in mano e cantato da voci (anche e soprattutto emergenti come Joshua) che riportano in auge soul, R&B, funk e tutti gli ingredienti di quel calderone da cui nacque l’hip hop nella New York degli anni ’70.

Questa cosa, in questo momento, è importante per due ragioni. La prima, come conferma lo stesso artista, è che c’è un sacco di gente della sua generazione (è nato a Buenos Aires nell’80), o giù di lì, che non si sente rappresentata molto dalla drill, la trap e tutte le cose che vanno adesso. Ma che comunque una sete di hip hop ce l’ha da sempre. La seconda, forse ancora più importante della prima, è che tutti i giovani che invece sono bombardati da mille singoli trap che escono ogni settimana possono soltanto scoprire qualcosa di nuovo del rap: cioè le radici.

Il consiglio quindi è di andare a vederlo dal vivo, a cominciare dalla prima data del 3 luglio (meglio conosciuto come domani) a Perugia. Poi a Locorotondo e Roma ad agosto, e via dicendo. Date in aggiornamento, ecco.

Quindi, sei gasato?
Tutti mi chiedono «Sei gasato che esce il disco?». In realtà io lo sono spesso, sono un entusiasta delle cose. Poi, sai, indipendentemente dal mio disco, faccio musica tutto l’anno per altra gente, per i miei artisti, come produttore, quindi sono sempre gasato. Questa è una soddisfazione diversa, perché è un mio progetto personale.

Foto: Enea Colombi

Era un po’ che non usciva qualcosa così imponente di tuo.
Sì, da tanto tempo. Da un annetto a questa parte ho deciso di dedicarmi più a me stesso come artista. Occuparsi di management o lavorare dietro le quinte ti toglie tanto tempo alla parte artistica, tra virgolette. Quindi sentivo, dopo tanti anni che ho dedicato anche all’organizzazione, al management, che era giunto il momento di ritornare alle origini. È giusto.

Tra l’altro hai cominciato a fare live prima che uscisse il disco: io ti ho visto al Mi Ami a maggio.
Sul lato live è come se fossi un emergente, perché la gente mi conosce per i dj set. Magari ho fatto in passato live con i gruppi. Ho iniziato sul palco con i Dogo nel nel 2002, però ero sempre dj di qualcun altro, capito? Oppure metto musica nei club. Però fondamentalmente un tour vero e proprio a mio nome non l’ho mai fatto. È la prima volta e ne sentivo l’esigenza. Non è stato facile ricostruire lo Shablo artista. Perché nell’ambiente hip hop tutti mi hanno sentito nominare magari perché sono il manager di Sfera o perché ho prodotto un altro artista, oppure per Inoki negli anni ’90.

Ci sono tanti nomi a cui magari mi si associa: Irama, Rkomi, Gaia, c’era Rab Blanco, Però di base il primo Shablo era quello che faceva musica dalla fine degli anni ’90. Magari i fan più giovani che oggi mi conoscono per la trap o per altre cose non hanno ben chiaro da dove arrivo. Quindi anche sul lato live per tutti è un po’ una novità, per me in primis. L’idea era piano piano di esibirmi, non è un dj set classico, ma in una rivisitazione dal vivo di quelle che sono state le mie influenze in questi 20 anni. Questo live sarà un tributo a tutte le canzoni che mi hanno formato: classici del soul, dell’R&B, dellhip hop anni ’90. E poi ovviamente gli inediti del disco nuovo. Ha un po’ una doppia anima.

Chiamarlo anche Manifesto è poi uno statement: nel senso, «questo è quello che sono», no?
Esatto. Mi piaceva far vedere chiaramente quello che sono e quali sono le mie origini e diciamo tutte le influenze che ho avuto. Oggi si parla tanto di cultura hip hop, ma forse si è persa rispetto a quello che era il rap degli anni ’80-’90. Ti parlo dei tempi in cui veramente aveva un significato, un messaggio. Quindi, da una parte c’è questo statement, d’altra parte un po’ il discorso di manifestare quello che uno ha. Mi piaceva anche la parola manifestare che adesso va tanto di moda.

Sì, inteso come dare vita a qualcosa, una forma fisica.
Proprio così. Io sono molto legato al rap delle origini e mi sono accorto che c’è una parte di pubblico adulto che non si sente tanto rappresentata dalla trap, la musica cosiddetta urban che oggi riempie le classifiche. C’è tanta gente della mia generazione o anche più grande di me o leggermente più piccola che magari ha voglia di sentire qualcosa di diverso, ma pur sempre legato al mondo dell’hip hop. Dall’altra parte invece ci sono un sacco di giovani e giovanissimi che magari hanno la curiosità e la voglia di scoprire qualcosa di diverso. Di andare alla radice, scoprendo roba totalmente nuova. Per me è la stessa roba che faccio da 30 anni con la quale sono cresciuto, per molti è una cosa che fa il giro e diventa ciclicamente originale.

Sì, ma infatti penso che sia prezioso in ogni caso questo disco, perché si torna tanto alla musica suonata dagli strumenti. Ci si evolve dal mero e comunque sacro beatmaking. Ci sono tanti fiati, tanto soul e persino una traccia drum’n’bass verso la fine.
Secondo me bisogna sempre contrastare i tempi. Magari in un momento in cui si suonavano tanto gli strumenti, soprattutto gli anni ’90, in Italia sono stato uno dei primi a portare un po’ di elettronica nel rap, perché era la novità. Adesso che è tutto molto sintetico, molto plasticoso, secondo me tornare un po’ all’organico è a sua volta la novità, la ventata d’aria fresca. Bisogna sempre cercare di riequilibrare le cose. Non è che uno stile è bello e l’altro brutto. È solo questione di bilanciare. E per bilanciare in questo momento ho pensato di tornare alle origini della musica black: non solo il soul e l’R&B, ma anche funk, tanto soul. E poi hip hop ed elettronica di quella scena inglese che negli anni ’90 andava tantissimo. Ecco spiegata quella specie di jungle/drum’n’bass.

Tra l’altro quello è un pezzo che è nato con gli Yellow Straps, un duo belga famoso per fare queste cose un po’ 2step, mezze jungle, mezze elettroniche. Oggi si pensa che il mondo urban sia molto omologato, che è tutto uguale. Effettivamente lo è da un certo punto di vista, quindi ho pensato che ripassare un po’ di sottogeneri del mondo black facesse bene a tutti, a me soprattutto. C’è tutto un mondo lì da esplorare.

Foto: Enea Colombi

Non è il classico album del producer dove ci metti tutta la scena insieme, o sbaglio?
No, infatti. Mi sono un po’ stufato dei producer album degli ultimi anni perché era diventata una lista di featuring. Tanti nomi grossi per fare ascolti streaming e basta. Si perde il discorso artistico, la visione del produttore. In passato ho firmato dei grandi successi unendo anche nomi grossi, però alla fine viene fuori sempre che il pezzo è dell’artista che canta. La visione del produttore spesso e volentieri passa in secondo piano. Stavolta invece ho annunciato la tracklist senza nomi all’inizio. Volevo che la gente si concentrasse sulla mia visione. A oggi non prevedo neanche di mettere fuori la tracklist coi nomi fino al giorno dell’uscita, capito? Probabilmente aggiungeremo i featuring qualche giorno prima.

In più, sempre a differenza dei producer album, stavolta ci sono nomi nuovi e molto ricorrenti nei pezzi. Hai scommesso molto su Joshua, per esempio.
Sì, è una scommessa e anche la novità: è un ragazzo giovane, emergente, ma allo stesso tempo ha questo modo di cantare che sembra molto più maturo della sua età. Ha uno stile, un timbro molto R&B che in Italia un po’ mancava. Poi vabbè c’è Tormento che rappresenta un maestro del genere e Guè che è il padrino.

Ma l’hai registrato nello stesso studio di San Giminiano di cui mi parlava anche Mace?
Proprio quello. Il posto è magico perché è in mezzo al nulla. La natura e ti permette di connetterti quella parte che è più profonda, più creativa. Io vivo sempre a 2000 giri qua a Milano, sempre con le mani nel business. Ecco, invece andare là ti permette di staccare un attimo e di fare delle sessioni intensive dove dai la priorità alla creatività. Tra l’altro è mega fornito, ha un sacco di giochini e giocattoli, per noi nerd della produzione è un parco giochi praticamente. Conta poi che, più che registrarlo, è stato scritto lì quel disco. Le registrazioni sono state incise soprattutto a Moysa (creative hub e studio di cui Shablo è socio in a Milano, ndr).

Beh, ormai adesso la Toscana va fortissimo. Qualche mese fa J Balvin raccontava a me e Fred de Palma di aver comprato casa lì.
Con Balvin ci conosciamo da diversi anni. Ho seguito tutto io la prima volta che Sfera l’ha incontrato, ci siamo visti a Miami più volte. Io comunque sono argentino, quindi diciamo che c’è una bella connessione con tutto il mondo colombiano. È uno di famiglia e ogni volta che viene in Italia ci chiama. C’è sicuramente un bel supporto da parte sua.

E adesso che ha comprato casa Montalcino e vuole imparare perfettamente l’italiano entro un anno, dobbiamo aspettarcelo nelle classifiche FIMI. Lo firmeresti un beat per lui?
Certo. Chi lo sa cosa succederà? Staremo a vedere.

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