Se “spacchi” come i Leatherette, puoi anche dire di no a X Factor | Rolling Stone Italia
Post post punk alla bolognese

Se “spacchi” come i Leatherette, puoi anche dire di no a X Factor

«Ci hanno detto: il vostro genere adesso è un trend», ma loro hanno preferito stare alla larga dal talent. E comunque «è improbabile che si faccia il botto, tanto vale fare quello che ci va». Amen

Se “spacchi” come i Leatherette, puoi anche dire di no a X Factor

Leatherette

Foto: Silvia Violante Rouge

Sono in cinque, vivono tutti a Bologna, hanno tra i 25 e i 29 anni e hanno scelto di chiamarsi Leatherette per Warm Leatherette di The Normal, brano scritto dal fondatore della Mute, Daniel Miller, e diventato iconico per l’allora pionieristico mix di synth ed estetica punk. Era il 1978, quando fu pubblicato; Michele Battaglioli (voce/chitarra), Marco Jespersen (basso), Andrea Gerardi (chitarra), Francesco Bonora (batteria) e Jacopo Finelli (sax/synth) sarebbero venuti al mondo due decenni dopo, ma hanno scelto quel riferimento perché «ci sembrava una presa in giro del rock, del divismo: la finta pelle (leatherette, nda) come qualcosa di autoironico, cheap, anacronistico, più punk e disgraziato».

Questo l’incipit della loro storia, la storia di una band nata nel 2018 come trio, poi diventata un quintetto, che dopo il debutto con Fiesta nel 2022, ha da poco ha pubblicato il secondo album Small Talk, un lavoro che rispetto al precedente mette un po’ più di carne al fuoco per forgiare un suono più eclettico, ma al contempo più compatto: un mix di sfoghi punk, post punk, no wave, free jazz, funk distorto, di energia e dissonanze, di fragore noise e melodie sghembe. Il tutto prodotto da Andrea Cola e Bruno Dorella e (credibilmente) cantato in inglese a due voci con un occhio rivolto verso James Chance and the Contortions, i Lounge Lizards di John Lurie e il Pop Group, e l’altro verso le chitarre di Johnny Marr degli Smiths, in un amalgama sonoro che, se si guarda alla scena degli ultimi anni, si inserisce bene tra gruppi quali Shame, Iceage, Ought e affini.

«Dopo la pubblicazione di Fiesta ci è stata appiccicata addosso l’etichetta di band post punk, probabilmente perché negli anni scorsi c’è stato un boom di questo genere e i giornalisti hanno sentito il bisogno di catalogarci in quel modo», dice Michele. «Noi, però, sin dall’inizio siamo stati titubanti a definirci così, tanto che quando ci chiedevano che tipo di musica facevamo, rispondevamo post post punk. Che poi ci piace il post punk, e non è che non ci sia nella nostra musica, solo che non ci definisce fino in fondo, per cui, per liberarci di quell’etichetta, con questo secondo album abbiamo deciso di ampliare ancora di più gli orizzonti».

Bureaucracy Apocalypse

A sentir parlare lui e Marco, collegati su Zoom e talmente cortesi (o intimoriti?) da chiedere «possiamo fumare?», s’intuisce che il rapporto con la stampa non è l’aspetto più semplice da gestire per i Leatherette. Ma alla fine l’intervista si rivelerà una chiacchierata piacevole e i due arriveranno persino a dire che «voi giornalisti avete il diritto e il dovere di fare le domande che volete» (Michele), «solo che forse ci piacerebbe che nessuno ci facesse domande» (Marco). E in fondo è l’atteggiamento più congruo per un gruppo come il loro, che con il panorama musicale italiano ha ben poco da spartire e a cui ciò che interessa è solo esprimersi visceralmente, sperimentare e «suonare dal vivo il più possibile».

«È per questo che abbiamo buttato fuori Small Talk ad appena un anno di distanza da Fiesta», confida Michele. «Forse sarebbe stato meglio aspettare un po’, per dare alla gente il tempo di conoscerci. Però abbiamo messo davanti la musica e l’amicizia». E Marco: «Il fatto è che abbiamo voglia di stare sul palco. Anche perché la nostra piccola fanbase ce la siamo costruita così, con i concerti, e vogliamo continuare su questa strada. È improbabile che ci capiti qualcosa che ci porti a fare il botto, tanto vale fare quello che ci va di fare».

Non è rassegnazione; semmai, in un contesto in cui la musica che funziona è tutt’altra, quello dei Leatherette appare più come un sano realismo misto a una grande passione e voglia di fare. Non a caso la band bolognese ha registrato Small Talk in presa diretta, senza sovraincisioni, nella sala concerti del Bronson, il locale di Ravenna dove ha sede la Bronson Recordings, l’etichetta fondata da Chris Angiolini, l’uomo che sta dietro anche ad altre belle realtà quali l’Hana-Bi di Marina di Ravenna, il Beaches Brew Festival e il Transmissions.

«Abbiamo incontrato Chris un paio di anni fa, in occasione del Passatelli in Bronson, rassegna che organizza al Bronson e con cui seleziona giovani artisti per La Zona d’Ombra, bando regionale a cui per fortuna abbiamo poi avuto accesso», racconta Marco. «All’epoca avevamo alle spalle solo un EP pubblicato per We Were Never Being Boring e avevamo in programma un album con loro, ma non era ancora sicuro e alla fine…».

«Alla fine con Chris è scoppiato l’amore», prosegue Michele. «Questione di soldi, sai… (ride). A parte gli scherzi, stavamo faticando a concretizzare, lanciare un disco in modo che abbia visibilità non è facile: se la proposta di Chris ci ha convinto è sia perché ci siamo trovati bene con lui, sia perché è uno che sta dietro a un’infinità di bandi e iniziative che ti danno la possibilità di ricevere fondi e quindi di portare avanti quello che hai in mente anche se sei all’inizio. A dire il vero, la sera in cui ci ha visti suonare la prima volta eravamo scazzati, perché c’erano ancora i rimasugli del Covid, quindi il pubblico era seduto, le prime due file erano vuote per motivi di sicurezza, tutte cose poco entusiasmanti per chi suona. Ma quando, a fine concerto, siamo andati a parlargli, lui era super carico ed è scattata la sintonia, abbiamo capito che è uno che lavora con il cuore».

Foto: Silvia Violante Rouge

Se con Fiesta i Leatherette si sono tolti la soddisfazione di vedere più tracce del disco trasmesse da Iggy Pop nel suo programma su BBC Radio 6 e di intraprendere un tour europeo che li ha portati a suonare all’estero – Regno Unito incluso – per poi continuare il giro in Italia e aprire per gli Shame al SEI Festival di Corigliano d’Otranto, con Small Talk il gruppo emiliano ha avuto il piacere di avere al mixaggio Chris Fullard (già al fianco degli Idles, tra gli altri), mentre al master ci ha pensato Adam Gonsalves al Telegraph Audio Mastering di Portland. In tutto ciò, uno degli elementi distintivi della band è il sassofono, trattato alla maniera dei succitati Lounge Lizards e James Chance, o degli X-Ray Spex. «Quando ci siamo messi in cerca del sassofonista non volevamo né un jazzista, né un topo da conservatorio», spiega Michele. «Per fortuna abbiamo trovato Jacopo, che non è né l’una, né l’altra cosa. Il sax ha una magia che rimanda a un immaginario notturno, ci piace il suo potere evocativo».

Dopo un concerto all’Officina Giovani di Prato il 23 dicembre, a gennaio li attendono altre tre date a Roma, Frosinone, Macerata, e al calendario si sono appena aggiunti due showcase festival, l’Eurosonic di Groningen e il MENT Ljubljana. «Small Talk rispecchia maggiormente come siamo dal vivo. Sarà che è il frutto di un lavoro di squadra, prima la scrittura era più nelle mani di Michele», osserva Marco. «I concerti ci hanno fatto crescere», sottolinea il suo socio, «dopodiché tutto nasce da continui fallimenti: non siamo mai soddisfatti, non so se è perché siamo perfezionisti o perché siamo scarsi, forse un misto delle due, però alla fine, a furia di provare…». Riprende la parola Marco: «Pian piano abbiamo capito che è giusto accettare le imperfezioni e i limiti che si possono avere a livello tecnico, esserne consapevoli e farne un punto di forza, esaltarli». E Michele: «Ma poi ci vogliamo bene, e più ci vogliamo bene più il sound si arricchisce. È un po’ come Friends, la serie: all’inizio la guardi e fai “mmm”, poi all’ottava stagione fai “Chandleeer” (ride)».

Per la cronaca, le small talk sono quelle conversazioni superficiali che si fanno per passare il tempo o rompere il ghiaccio, come quando si parla del più e del meno senza approfondire nulla. «Noi siamo inabili al genere», chiarisce Michele. E Marco: «In tour capita di doverne fare, io cerco di avere sempre un tasso alcolemico abbastanza elevato che mi permetta di reggerle, così evito anche i ricordi». Il tono è ironico, come ironico è il titolo del singolo Bureaucracy Apocalypse: «Da quando siamo in Bronson abbiamo partecipato a vari bandi e lì c’è un sacco di burocrazia: ma te la vedi una band definita post punk con le scartoffie da compilare come fosse in ufficio?! Comunque noi cerchiamo sempre di salvarci con l’ironia. Perché qua o sei autoironico o ti senti in prigione. Forse è paracula come cosa, nel senso che ci aiuta a non identificarci del tutto con quello che facciamo, così che anche se ci andasse male, pazienza. Ma alla base c’è che ci piace demolire e costruire, demolire e costruire, ed è un atteggiamento che ci fa bene, perché ci consente di tirarci fuori da tutto, dai lati oscuri di questo periodo storico, e di vedere le cose dall’esterno».

Insomma, i Leatherette avranno le loro idee, ma preferiscono starsene fuori dalla caciara opinionista così come hanno preferito starsene fuori da X Factor. «Ce l’hanno proposto due volte», racconta Marco. «Io la prima un po’ ero tentato, non ho mai visto di buon occhio i talent, ma mi dicevo che tanto, anche se fossimo stati sbattuti fuori subito, chi se ne frega, avremmo ricominciato daccapo e bon. Per fortuna Michele si è messo di mezzo».

«Già, dall’alto dei miei 24 anni, mi sono opposto. È che sono un rompicoglioni, penso sempre molto prima di espormi, a volte mi chiamano La Censura. Però dai, ci hanno detto “il vostro genere adesso è un trend”, e io: ma porca puttana…».

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