Sangiovanni: «Non sono un cantante per bambini» | Rolling Stone Italia
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Sangiovanni: «Non sono un cantante per bambini»

Il ragazzo di ‘Malibu’ racconta il suo festival, la metamorfosi di ‘Farfalle’, l’importanza della leggerezza. «Sono meno cool dei miei colleghi più “pesi”, ma lo dicevano anche a Jovanotti»

Sangiovanni: «Non sono un cantante per bambini»

Sangiovanni

Foto: Marco Piraccini/Archivio Marco Piraccini/Mondadori Portfolio via Getty Images

Il Festival di Sanremo 2022 è ossessionato dal ricambio anagrafico al punto che, mentre gli artisti senior vengono esibiti quali soggetti da teatro anatomico, miracolosamente sopravvissuti a sé stessi, quelli sotto i trent’anni sono ostentati come trofei di caccia. La line up sembra effettivamente spaccata a metà tra maestri decongelati e Pokemon freschi di cattura.

Questa cornice narrativa, in cui i campi lunghi sulla platea rivelano che le parole più frequenti sul gobbo di Amadeus sono “nuova” e generazione”, costringe i concorrenti realmente giovani a lavorare il doppio per lasciare dietro di sé un ricordo che sia più articolato di ha un bel fisico, peccato che è vestito male.

In questo contesto tu, Sangiovanni, ci sembri un caso a parte.
Sono un caso umano? (ride)

Sei un cantautore che, in modo accessorio, è molto, molto giovane. Talmente giovane che sei più giovane di qualche mese perfino di Matteo Romano. Pur avendo scelto di partecipare con un pezzo intitolato proprio Farfalle, come hai fatto a non farti mettere sotto vetro? Come fai a essere così giovane senza essere anche scioccherello o superficiale?
In tanti mi danno del pop artist, del fenomeno, ma nessuno mi aveva dato ancora del cantautore. Ho un album che uscirà l’8 aprile (si intitola Cadere Volare, nda) in cui proverò a far incontrare i due mondi del cantautorato classico e del pop urban, con pezzi molto più “suonati” rispetto al mio solito.

Mentre procedi in questa direzione, chi sono i tuoi riferimenti?
Vi dico solo che non mancheranno delle chitarre alla Battisti. È che mi piace guardare indietro, verso chi c’è stato prima di me. È una cosa che noto moltissimo in Jovanotti, che presenta un compromesso ideale tra il cantautore che dice delle cose e l’essere un grandissimo del super pop.

Quali sono le condizioni perché un compromesso del genere sia valido?
È necessario che la scrittura sia sempre vera, fatta con semplicità e intensità. Se vivo davvero la mia vita per me è praticamente impossibile scrivere dei testi vuoti. Hanno sempre un qualcosa dentro. Certo, io scrivo in maniera giovanile, e trovo che sia giusto. Anche se, qualche volta, mi capita di avere delle ispirazioni da persona più matura, ho sempre 19 anni.

Che forme di ispirazione ti hanno portato al pezzo che hai presentato a Sanremo?
Comunicare cose profonde con una certa leggerezza. Ho pensato: sto andando all’Ariston, è da tanto tempo che non sorridiamo e io dovrei preferire strappare un sorriso piuttosto che far scendere una lacrima. È bello poter mostrare al pubblico anche questo, magari con un linguaggio fresco, freschissimo che, però, non per questo deve essere per forza banale.

Ma c’è un limite alla freschezza?
A volte mi criticano dicendo che sono troppo fresco, quasi per bambini. Io penso che non sia così, perché il concetto di base dietro tutto quello che faccio è comunque ragionato e profondo. Come io poi lo esprima è un altro discorso, ma non tutti i miei pezzi sono e saranno così. Forse, in questo momento, all’inizio della carriera, la mia sincerità e il mio modo di esprimermi, così divertito e buono, sono meno cool di quelli che potrebbero essere i loro corrispettivi più sofferti, più “pesi”. Del resto, anche Jovanotti, all’inizio, veniva giudicato pesantemente per la sua leggerezza originaria. A mia volta mi sembra di subire qualcosa di simile. Farò vedere a tutti che c’è anche un’altra faccia della medaglia. Ho una vita davanti, ho appena iniziato a scrivere e, per inciso, ho già scritto due pezzi più dark che sono stati un po’ oscurati dalle grandi hit. Nel nuovo disco questa componente sarà molto più evidente e non passerà di certo inosservata.

Farfalle è allora una possibile ouverture per quello che ti proponi di fare nel resto dell’album e del tuo avanzamento professionale.
In effetti è il primo brano che ho scritto per il disco. Forse, portando a Sanremo un altro tipo di pezzo, ora mi troverei più alto nella classifica generale. Ma sono certo che non sarei stato capito com’è stato possibile con Farfalle. Preferisco essere riconoscibile in modo chiaro e inequivocabile piuttosto che giocarmela meglio nella gara, e finire per fare la solita ballad col solito piano.

La metafora che hai posto alla base del pezzo in gara ci sembra azzeccata per dare sostanza all’apparente ossimoro della profonda leggerezza. La farfalla è un insetto poco pesante che racchiude in sé tanti significati. Tanto per dire, in greco psyché vuole dire sia farfalla che anima.
Anche a me piace molto l’immagine della farfalla, che viene fuori da una trasformazione incredibile rispetto a ciò che era prima di diventare tale. In qualche modo anch’io mi sono trasformato. Mi è cambiata la vita da poco e mi sento molto legato a questo insetto.

Di cosa parla davvero Farfalle?
Quando ascolto questa canzone mi viene in mente sempre l’immagine di una fabbrica, una grossa fabbrica in cui si accumula tantissimo fumo. Io vivo dentro questa fabbrica, giorno dopo giorno, finché a un certo punto non sento il bisogno di uscire, di levarmi quel fumo di dosso e di riprendere fiato. Per il pezzo è la storia di quella liberazione, di quel cambio di vita. Non è stata una cosa semplice. Farfalle parla di me, dentro, e anche di tutti gli altri, fuori. E questo perché tutti abbiamo vissuto una tossicità simile. Cantarla a Sanremo, dopo questi due anni, è liberatorio all’ennesima potenza.

Parliamo della genesi del tuo look, soprattutto quello della prima performance. Non siamo lookologi, ma è come se ci avessi dato l’impressione di voler in qualche modo riprendere nello stile del tuo abbigliamento il contenuto della canzone. Hanno un significato particolare per te quelle specie di aloni che sembrano ali?
Non sapevo neppure che fosse stata coniata la parola lookologo (ride), però mi sa tanto che ci hai preso. In effetti questa scelta di look è dovuta proprio a una volontà di manifestare un senso di metamorfosi. Lo stesso di cui canto e che, in queste serate più che mai, è molto presente nella mia vita professionale, in modo così potente che è indissolubile da quella personale e che investe quindi tutta la mia esistenza.

Se poni due versi di Farfalle accanto a due versi della canzone in gara di Giovanni Truppi, forse l’artista a Sanremo più diametralmente opposto a te (almeno sulla carta), è divertente scoprire che potrebbero quasi far parte della stessa canzone: “Non posso trovarmi in un luogo migliore se non tra le tue braccia” e “Amarti è credere che quello che sarò sarà con te”. Come ti rapporti a questi colleghi con esperienze e sensibilità così diverse dalle tue e cosa puoi imparare dalle vostre somiglianze?
È bello come, in musica, ci sia una tale libertà di espressione che si possa arrivare a fare un accostamento di questo tipo, che ovviamente mi fa molto piacere.

Su e giù dal palco dell’Ariston sei protagonista di una rivalità/bromance con Michele Bravi, in parte basata sul FantaSanremo. Come la stai vivendo?
Se penso a quanto un gioco come il Fantacalcio, cui questo fenomeno social è ispirato, sia spesso divisivo, sono felice che il FantaSanremo stia invece unendo tanto. Qualunque cosa mi dovesse capitare nella vita potrò sempre dire che devo la mia amicizia con Michele proprio al FantaSanremo.

E a Papalina.
(Ride)

C’è una cosa fatta prima, durante e dopo una di questa serate che ti ha colpito al punto da farti pensare di stare facendo davvero una grande esperienza?
La cosa più bella che mi sia capitata di fare a Sanremo sono stati gli ultimi minuti di backstage, in mezzo agli artisti e alle maestranze, mentre aspettavo di salire per la prima volta sul palco.

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