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Sampha: «Con ‘Process’ affronto la morte di mia madre»

Da Drake a Kanye West, da Frank Ocean a Solange: tutti i più grandi artisti r&b lo vogliono nei loro dischi, ma lui vuole cantare solo per sé e per la sua gente
Foto via Facebook

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È la prima volta che Sampha sale su un palco in Italia. O meglio, la prima volta da solo. «Mi ero già esibito a un festival a Bologna, ma ero con SBTRKT», confida il cantante inglese seduto sulla panca di quello che sembra essere un bagno nei camerini milanesi del Fabrique – c’è la doccia, un lavandino, ma manca il water. Ormai quasi non se la ricorda più la sua vita prima della carriera solista. Per anni ha sgobbato nelle retrovie della Young Turks, l’etichetta inglese dove ha mosso i primi passi, prestando ad altri la sua voce e il suo talento mostruoso nello scrivere pezzi.

Il primo è stato proprio SBTRKT (si pronuncia “subtrakt”) e poi, a cascata, sono iniziate ad arrivare le telefonate dall’America: Drake, Solange, Kanye West, Frank Ocean. «Chiede- vano tutti: “Di chi è la voce su quel pezzo?”», racconta l’omone. Con Drake, oltretutto, l’amicizia continua, tanto che ha dedicato alla sola voce di Sampha un brano dell’ultimo album. Ma cantare nelle canzoni di altri non è mai stata la sua ambizione. È successo, non era pianificato ed era anche inevitabile che prima o poi il ragazzone sentisse il bisogno di mettersi in proprio. «Nella mia testa sono sempre stato un artista individuale, anche prima di iniziare a comporre. E per molto tempo mi sono iden- tificato di più nelle mie produzioni che nella mia voce», dice Sampha.

Sampha ritratto da Alessandro Treves

Nato il 16 novembre ’88 nel sobborgo di Morden, South London, Sampha, che di cognome fa Sisay, è ultimo di cinque fratelli in una delle tantissime famiglie della comunità sierraleonese che popola la zona. «Sono stati ottimi maestri per me», racconta Sampha parlando dei consanguinei, «la musica che ascoltavano mi ha plasmato molto. Hanno vissuto tante cose prima di me. E poi quando arrivi per ultimo ti ritrovi con dei genitori più permissivi. È stato solo un vantaggio». Ha iniziato a scrivere canzoni a 11 anni, ma in tutta l’adolescenza ne avrà finite una manciata. Il problema erano soprattutto i testi. Non riusciva a trovare le parole giuste, perciò si concentrava sempre più sulla musica. «È perché non sono un grande lettore, ho sempre preferito suonare il piano».

Il suo primo software per produrre l’ha trovato dentro una scatola dei cereali. Era la sorpresa in regalo con la confezione, roba davvero da principianti che, però, ha avvicinato per la prima volta Sampha ai computer, anche grazie al primo abbozzo di studio che gli ha costruito uno dei fratelli. Quando parla della famiglia, sul suo viso è stampato un sorrisone che racconta più cose di quante ne dicano le parole. Ma non dura a lungo. Per parlare di Process, il suo album di esordio da solista uscito lo scorso febbraio dopo un paio di EP di riscaldamento, bisogna necessariamente passare per il momento più tragico della sua vita. «Ho cominciato a scrivere i primi pezzi del disco in un momento di transizione. Inevitabilmente, Process affronta la malattia e poi la perdita di mia madre», dice.

La musica in quel momento è stata per lui non solo la via di fuga da una realtà inaccettabile, ma anche un modo per riposare quella capocciona piena di dread sparati in aria. Process è un luogo malinconico, per quanto non parli esclusivamente di perdita. Un giornalista inglese in una recensione ha definito “ferita” la voce di Sampha. Lui non è molto d’accordo, ma in ogni caso riconosce che ogni cantante soul che si rispetti ha alle spalle qualcosa da dimenticare. E per dimenticare, saggiamente, Sampha canta. «Ho realizzato che per processare, per metabolizzare i traumi, a volte bisogna solo parlarne», spiega.

Ora non lo spaventa più nulla, a parte forse «l’eventualità di fallire». Ci è voluto tempo per capirlo e soprattutto coraggio per farlo, specie per una persona così timida come lui. Siamo seduti uno di fronte all’altro e qualche volta fatica a guardarmi negli occhi. Ma risponde sempre con grande limpidezza anche quando gli chiedi se ha cattive abitudini. «Oh, eccome se ne ho!», mi risponde. Dalla foga con cui lo dice uno pensa subito alla droga o peggio, ma poi vien fuori che le sue cattive abitudini consistono nell’andare a letto tardi, non richiamare le persone e nell’essere troppo goloso (e un po’ si vede), anche di cibi italiani.

Probabilmente, metà dei “vizi” è colpa della vita frenetica che ormai si è sostituita a quella di una volta. Sampha è appena tornato dalla Sierra Leone, dove ha girato un cortometraggio con Apple Music. Si intitola come l’album, ma non vuole esserne lo spot, né tanto meno la versione video come Interstella 5555 lo è di Discovery dei Daft Punk. Non è nemmeno un documentario, perché i dialoghi sono ridotti al minimo. «Si basa sulla mia vita, ma vuole tenere al centro dell’attenzione la diaspora dei migranti e, in parte, il disco. Una delle poche voci che si sentono è quella di mia nonna che parla in sierraleonese», ci ride su. «Ovviamente coi sottotitoli».

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