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Salmo, sempre contro corrente: «la cultura bling bling non mi appartiene»

La musica del suo ultimo album “Hellvisback” è una botta pazzesca, ma nelle rime il rapper sardo non racconta molto di sé. L’ha fatto con noi
Foto di Alessandro Treves

Foto di Alessandro Treves

Non vivo per niente bene il fatto di essere riconosciuto in giro per strada, di avere, diciamo, successo. Zero. L’altro giorno ero a casa mia, a Olbia, in un baretto dove a un certo punto in televisione è partito un mio video. Tutti si sono girati verso di me per vedere la mia reazione. E io cosa ho fatto? Me ne sono andato». Non ci vuole molto a capire che Salmo non sta affatto bluffando. Siamo in un loft minimale della periferia sud-est milanese, il classico casa-bottega dove Salmo, ovvero Maurizio Pisciottu, classe 1984, passa più spesso la notte davanti al computer che a dormire. Il suo nuovo album Hellvisback esce il 5 febbraio. Sul pavimento c’è una valigia aperta, mezza disfatta, strabordante di vestiti. Ha una felpa nera larga con la zip aperta e un berrettino che si tira nervosamente sempre più sulla faccia.

Com’è andato quest’ultimo periodo a Milano e in giro per il mondo?
Dunque… Ci siamo trasferiti cinque anni fa a Milano da Olbia. Io e altri amici che lavorano nella Machete Empire vivevamo tutti insieme in una specie di comune, in un quartiere bello tosto, con un’alta concentrazione di immigrati, a Pasteur. E lì…

Scusa se ti interrompo, ma questa storia la conosciamo già. Raccontami come sono nati i pezzi di Hellvisback. La musica è una bomba, tutti i pezzi hanno sound diversi, ma sei riuscito a dare coerenza. Se penso ai testi, però, non mi è rimasto granché…
Hai ragione. Ho pensato prima ai beat che al resto e volevo che questo nuovo album assomigliasse di più al mio primo lavoro, The Island Chainsaw Massacre. Ho lavorato fianco a fianco a Low Kidd, produttore di Machete, e benché abbiamo gusti musicali diversi siamo riusciti a trovare un accordo. Stavolta non volevo scrivere un album con troppi pezzi conscious, riflessivi o di denuncia, come avevo fatto in Midnite. Volevo che arrivasse la botta con la musica e che fosse un disco che potesse rinnovare il live. Le rime le ho scritte in fretta, in un paio di mesi e via. Comunque Il Messia non è un pezzo tanto leggero, per esempio.

Il riferimento del testo ai conflitti di oggi è piuttosto esplicito: “Qualcuno uccida il nuovo Messia, in nome della fede lascia che sia… Crede nei soprusi e urla Alleluia”. Nel pezzo canta anche Victor degli LNRipley e suona Travis Barker, il batterista dei Blink 182, ma non ci sono molti altri featuring nell’album.
Proprio così, non ho chiamato nessun altro rapper, perché volevo fosse un album totalmente mio. Quindi, a parte Victor, che ha una voce simile a uno dei figli di Bob Marley, ho chiamato solo dei musicisti. Ho incontrato Travis di persona in California, per esempio. Mentre Bob Rifo ha suonato la chitarra in Peyote, un pezzo molto blues dove avevo anche provato a cantare sopra (non a rappare), ma ho avuto paura che venisse fuori una vera cagata, quindi è rimasto strumentale.

In Hellvisback a un certo punto rappi: “…devo fare trap per forza?”. Quanto ti senti condizionato dal dover produrre per forza il suono del momento?
Poco. Io credo che sia importante capire una cosa: siamo in Italia e facciamo rap, non possiamo inventarci chissà che cosa, ci rifacciamo a quello che hanno fatto gli americani e i francesi, ma dobbiamo dare un’impronta personale. La trap non mi dispiace, ma non dobbiamo per forza farla tutti.

I pezzi ti vengono subito o li rifai mille volte perché non sei mai contento?
La definizione “non sono mai contento” riflette perfettamente la mia condizione di questo momento e forse di tutta la mia vita.

Mi sembra che i risultati che hai ottenuto siano indiscutibili (primi posti nella classifica di vendita, negozi imballati durante gli instore) e la popolarità che hai raggiunto anche.
Capisco che sia difficile da comprendere, ma per me è davvero faticoso andare a comprare le sigarette ed essere continuamente fermato da tutti quelli che vogliono fare un selfie. Queste sono cose bellissime per chi ama “fare schiuma” in giro. Non per uno come me. Per me è più facile salire su un palco davanti a 50mila persone. Quando sono lì, devo fare l’unica cosa che so fare nella vita: esibirmi.

Quando indossi la maschera sul palco lo fai per nasconderti?
Esatto. Ora me ne sto facendo produrre una nuova per i prossimi concerti, più cyborg e robotica. Non puoi taroccarla facilmente.

E i tuoi genitori come vivono il tuo successo?
Mio padre è impazzito, cerca di starmi dietro, di imparare i nomi degli altri rapper che poi mi riporta in maniera sbagliata. A mia madre, invece, non frega niente. È contenta, ok, ma l’importante per lei è sempre che io non mi dimentichi di mangiare. Prima di aprire i concerti di Jovanotti quest’estate a San Siro l’ho chiamata e le ho detto: “Mamma, ma ti rendi conto dove sono?”, e lei mi ha risposto: “Sì, va bene, ma sei riuscito a cenare?”.

Foto di Alessandro Treves

Comanda lei in casa?
Assolutamente, così come mia nonna che era proprio la capa assoluta. La Sardegna è una società matriarcale. Se pensi anche alla figura dell’accabadora, la donna a cui era demandato un potere così grande come quello di porre fine alla vita dei malati terminali, capisci molte cose di quella terra, così strana e particolare.

Un mio collega sostiene che, per scrivere e per interpretare pezzi dove si fa brutto, bisogna come minimo avere una fedina penale di un certo tipo. Non mi sembra tu ce l’abbia. Io gli ho risposto che hai sempre guardato film e letto fumetti splatter-horror: ho fatto bene?
Ho cantato musica molto diversa in questi anni, anche metal e hardcore, e ho adattato la mia voce e la mia attitudine a quello che cantavo. Poi sono riuscito a trasportare tutto questo anche nel rap. I film e i fumetti che ho letto rimangono nel mio bagaglio culturale, anche se in questo periodo non ho avuto molto tempo di vedere niente di nuovo. E poi, comunque, ci sono sempre queste persone che devono trovare per forza un senso nelle cose che scrivo, come il tuo collega: che bel rompicazzi!

A molti rapper piace raccontare il senso delle loro rime, altri non lo sopportano: tu sei della seconda scuola?
A me piace quando ognuno si fa il suo viaggio mentale per interpretare qualcosa, senza bisogno che lo debba aiutare io. Ovviamente è importante quello che scrivi: che sia un pezzo conscious o superficiale, quello che conta è che tu riesca a colpire chi ti ascolta.

Due anni fa mi avevi detto che ascoltavi tanto Kendrick Lamar, ora lo ascoltano tutti e To Pimp a Butterfly è diventato il disco del 2015 per molte testate, incluso Rolling Stone.
Mi fa piacere. Non voglio entrare nel giochino mentale da bimbominkia per cui, se uno ha successo, deve essere per forza un coglione. Magari piace a tutti perché è bravo. E se capisci di musica, capisci che Kendrick se lo merita.

Vale anche per te e per chi ti accusa solo perché sei diventato famoso.
Penso proprio di sì.

In S.A.L.M.O. dicevi che dei soldi non te ne è mai fregato niente: adesso?
Uguale. Avrei potuto guadagnare ben di più in questi anni, ma non ho mai avuto tanti soldi nella vita, perciò, se anche ne avessi intascati di più, non avrei saputo nemmeno come spenderli. I cliché della cultura bling bling proprio non mi appartengono. Io non desidero grandi cose, voglio solo e soltanto potermi comprare della nuova strumentazione.

Questo articolo è pubblicato in versione integrale su Rolling Stone di febbraio.
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