Ronnie Wood: «Chi ha una dipendenza non deve aver paura di chiedere aiuto» | Rolling Stone Italia
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Ronnie Wood: «Chi ha una dipendenza non deve aver paura di chiedere aiuto»

Il chitarrista dei Rolling Stones racconta la gioia che prova ancora sul palco, la battaglia con il cancro e le sue dipendenze, com’è scrivere con Keith Richards e il tributo al bluesman Jimmy Reed

Ronnie Wood: «Chi ha una dipendenza non deve aver paura di chiedere aiuto»

Illustrazione di Mark Summers per Rolling Stone US

Quando gli chiedo come si è tenuto impegnato durante il lockdown, Ronnie Wood non sembra troppo dispiaciuto di avere avuto del tempo libero. «Ero nella campagna inglese, il mio studio era a un chilometro di distanza», dice il chitarrista dei Rolling Stones e pittore. «Passeggiavo nella foresta. Ho dipinto moltissimo in quel periodo. Ho usato quel tempo al meglio».

Nonostante l’abbia passato anche combattendo contro un cancro, Wood, 74 anni, ha trovato il modo di dipingere e suonare la chitarra per i Rolling Stones, in particolare per la ristampa di Tattoo You, e la sua vecchia band, i Faces, per un’uscita non ancora annunciata. «Il lockdown è stato un’avventura, ho passato un mese a lavorare su canzoni che avevo dimenticato o messo da parte», racconta nella nostra intervista su Zoom, un mese prima della morte di Charlie Watts. «Ho pensato: “Wow, è il momento giusto per far uscire queste cose, sono senza tempo”».

Wood ha anche avuto del tempo per riflettere su altra musica senza tempo, quella del suo disco solista Mr. Luck – A Tribute to Jimmy Reed: Live at the Royal Albert Hall, uscito a settembre. L’album propone un concerto del 2003 che Wood ha suonato con Mick Taylor, il chitarrista che ha rimpiazzato negli Stones a metà anni ’70, e vari ospiti tra cui Paul Weller, Mick Hucknall dei Simply Red e Bobby Womack, morto l’anno successivo. «È una delle ultime cose che ha fatto», racconta Wood. «È stato molto dolce».

L’idea è omaggiare Jimmy Reed poiché il pubblico lo sottovaluta. Il bluesman ha scritto diversi classici di inizio anni ’60, come Baby, What You Want Me to Do, Big Boss Man e Bright Lights, Big City. «Tutti parlano di Muddy Waters, Howlin’ Wolf e Buddy Guy», spiega. «Jimmy suonava in modo semplice. Ai novizi suonerà un po’ come il reggae, perché sembra che tutti i suoi pezzi abbiano lo stesso ritmo. Hanno una struttura simile, ma hanno caratteri completamente diversi».

Wood lo sa bene. Negli anni ’60 era un appassionato di blues prima ancora di suonare con Faces e Stones. Ha suonato il basso nel Jeff Beck Group, condiviso il palco con Bo Diddley e fatto diverse session con B.B. King. Oltre al blues, ha registrato con George Harrison, Bob Dylan e Aretha Franklin, per non parlare del successo delle sue opere d’arte, ritratti dei suoi compagni di band e reinterpretazioni delle scalette degli Stones.

In questa intervista, il chitarrista riflette sulle lezioni che ha imparato nella sua vita e spiega il segreto per andare d’accordo con i suoi amici famosi.

Come definiresti il successo? 

Soddisfare la gente, guardare le loro espressioni e il piacere che diamo durante i concerti.

Sul palco sembri sempre rilassato e felice. Qual è il segreto per prendere la vita con leggerezza? 

Si dice che per avere successo bisogna scegliere di fare qualcosa che si ama. Sorrido sul palco perché amo suonare la chitarra e la sfida di imparare qualcosa di nuovo.

Mr. Luck è un tributo a Jimmy Reed. Alcune di quelle canzoni hanno un secolo. Come sei entrato dentro quella musica? 

C’è un filo che collega tutta la musica che ha un’anima. Ascoltare quei dischi mi mette i brividi, le mie cover mi rendono orgoglioso. È dal vivo, un po’ rozzo, mi rappresenta. E mi ricorda i Faces. Anche noi suonavamo dal vivo, eravamo rozzi e adoravamo Jimmy Reed.

Mick Taylor, il chitarrista che hai sostituito nei Rolling Stones, ti accompagna in tutti i pezzi. Non è stato imbarazzante? 

No, mai. Mi ha sempre sostenuto e io l’ho fatto con lui. Ci troviamo bene in situazioni del genere. Ci conosciamo da tanti anni, già negli anni ’60 quando lui era nei Gods e io nei Birds, non aveva autostima. Diceva sempre: «Non riesco a continuare, sono troppo nervoso. Vuoi suonare al posto mio, Ronnie?». Io lo facevo, ma poi pensavo che gli avevo permesso di fare un passo indietro. Lui non si rendeva conto di quanto fosse bravo a suonare. Ancora oggi è molto più bravo a suonare che a spiegare cosa gli passa per la testa. Parla con la chitarra, nessuno è come lui. Credo che non abbia mai suonato così bene come nel disco per Jimmy Reed.

L’anno scorso hai combattuto con un cancro. Come hai trovato la forza per andare avanti?
La prima volta è successo nel 2017, cancro ai polmoni, ma l’ho superato. Poi, nel 2019, è arrivato il carcinoma a piccole cellule, che è molto più pericoloso. Ho fatto chemioterapia e radioterapia durante il lockdown per il Covid, ma ho avuto la possibilità di gestire tutto a modo mio, senza renderla una cosa pubblica.

Molte persone mi criticano per non averne parlato, avrebbero voluto aiutarmi. Ma io non volevo disturbare nessuno, volevo gestire la cosa a modo mio e superarla da solo, con l’aiuto di mia moglie Sally, che è stata fantastica. Ora è tutto a posto ed è una grande notizia. Sembra che i lockdown stiano finendo, sto uscendo dal mio guscio e mi sento sempre più forte. Sono pronto per il tour.

Quali sono le regole più importanti della tua vita? 

Vivo un giorno alla volta… lo faccio grazie ai programmi come gli alcolisti anonimi, mi hanno aiutato ad affrontare tutto quello che mi è successo negli ultimi tempi. Ho fatto un passo all’anno. Al terzo devi affidare la tua volontà e la tua vita a un potere superiore. Ho consegnato i miei problemi e ora mi sento al sicuro, so che si risolveranno e che andrà tutto bene.

Che consiglio daresti a chi ha problemi di dipendenze?
Non abbiate paura di ammettere di aver sbagliato. Il mese scorso ho parlato a un evento di beneficienza con il Principe William e Kate. Ho iniziato così: «Ciao, sono Ronnie e ho una dipendenza». Quando ho finito tutti mi hanno fatto i complimenti per il coraggio, ma io ho risposto: «No, è una cosa naturale. Se hai una personalità di un certo tipo, ammettere certe cose è un bene». Nessuno dovrebbe aver paura di dire chi è davvero e chiedere aiuto. Negli ultimi mesi l’ho fatto molto spesso, e sto decisamente meglio. Gli altri sono felici di aiutare.

Che musica ti commuove oggi? 

Mozart, suonato da Rostropovich (un violoncellista russo, nda). Chuck Berry diceva che non facciamo niente che Mozart non abbia già fatto. In un certo senso è come un mantra, perché amo scoprire cose che per me sono nuove.

Cosa fai per rilassarti? 

Mi tengo impegnato (ride). Dipingo o suono la chitarra. Amo giocare coi miei figli. Mi piace meditare, leggere… Anche se finissi su un’isola deserta, finirei per dipingere o suonare la chitarra.

Cosa ti dà in più la pittura rispetto a suonare?
È tutto espressionismo. Mi piace la pittura espressionista e amo esprimermi con la chitarra. La pittura è fantastica perché mi permette di concentrarmi solo su una cosa. È come la meditazione, se entri in quella modalità puoi restarci per settimane, mesi. Poi passo alla modalità musica, è un bel modo per fare una pausa.

Ora sono in una situazione fantastica: stiamo suonando vecchi pezzi degli Stones, musica dell’epoca di Tattoo You che non è mai stata pubblicata. Sono passato dal lavoro con Mick a quello con Rod per i pezzi dei Faces, anche quelli scritti nello stesso periodo e mai pubblicati. In entrambi i casi abbiamo trovato dei tesori, canzoni senza tempo che pubblicheremo nei prossimi mesi o anni, così il pubblico potrà goderseli come è successo a noi riscoprendoli.

Tu e Keith Richards avete descritto il vostro interplay paragonandolo a una tessitura. Qual è il segreto? 

Si tratta di dare e ricevere. È una regola non scritta, bisogna lasciare spazio all’altro musicista, così riuscirà a inserire la nota giusta o rispondere a una domanda con un fraseggio.

Come fai a capire quand’è il momento di lasciare spazio a Keith? 

Beh, se non gli lasciassi spazio mi strozzerebbe con la chitarra (ride).

Nel nuovo album fai il frontman. Cosa hai imparato di quel ruolo da Rod Stewart e Mick Jagger?
Amano l’incoraggiamento, quello autentico. Vogliono sentirsi dire che hanno fatto un buon lavoro, perché è il loro mestiere… Jagger fa Jagger e Rod fa Rod, ma in fondo vogliono sapere di essere sulla strada giusta, perché danno grande importanza a quel che fanno. La loro priorità è rendere felice il pubblico e dare il meglio: vale per i concerti, gli album, per la presentazione di nuova musica.

Il ritornello di una hit dei Faces, Ooh La La, dice: “Vorrei aver saputo da giovane quello che so adesso”. Tu cosa avresti voluto sapere?
Avrei voluto sapere che tutti i promoter cercavano di fregarmi. Quei tizi aprivano supermercati e catene di ristoranti, mentre io vivevo con 50 sterline alla settimana. Avrei voluto saperlo prima. Ma è anche una frase divertente. La vita funziona così, no?

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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