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Rocco Hunt: «Non volevo ritirarmi, ma farmi sentire»

Il rapper salernitano pubblica il nuovo disco in dialetto e spiega perché quell'annuncio sul suo abbandono non era una mossa di marketing

A fine agosto a Milano ci siamo solo io e Rocco Hunt (e una manciata di altri giornalisti e malcapitati in hangover da vacanze). Lui – Rocco – deve presentare Libertà, il nuovo album in uscita il 30 agosto. Da qui si spiega l’insensata voglia di farsi un giro nel capoluogo lombardo di questi tempi. Il rischio dell’addio al mondo della musica (“Non ho mai detto che mi sarei ritirato” precisa in realtà quando poi ne parliamo) direi che è scongiurato. Ecco perché anche io mi godo – si fa per dire – Milano oggi. E più che scongiurato pare sia anche l’addio ai social del rapper. Mentre sono seduta in attesa di iniziare l’intervista, Rocco vaga infatti alle mie spalle facendo stories e sventolando il disco fisico. “Scusa è che lo vedo ora per la prima volta” mi dice poi quando si siede, ammirando ancora in estasi il libretto.

Hai penato per questo album, mi pare di capire.

Libertà è l’album a cui ho dedicato i miei ultimi tre anni di vita. Anzi, più di tre anni. Libertà per me è aver potuto fare un disco che, senza pretese, sancisce il mio ritorno nella scena rap. Perché Libertà è un album rap, mentre gli altri album strizzavano l’occhio al pop. La musica è cambiata, sono cambiato anche io. Sarei stato spontaneo solo essendo me stesso. Infatti, sono libero soprattutto perché rappo in napoletano. Il 70% di questo album è cantato nella mia lingua madre: una grande soddisfazione per me. Posso far vedere al pubblico chi sono veramente.



Ok, ma perché ci è voluto così tanto?

Sono stato molto perfezionista. È stato uno dei tanti motivi per cui l’album è stato rinviato. Ogni volta non mi sembrava qualitativamente sufficiente per il momento storico della musica in Italia.

Stai dicendo che il ritardo è dovuto solo a un tuo eccesso di perfezionismo?

Non solo.

Parliamo infatti del casino che hai creato sui social con quel famoso post.

Questo album doveva uscire già due anni fa ed è stato rinviato almeno due-tre volte. Sia perché la musica è cambiata ed era difficile collocarlo in un mercato ben preciso, sia perché mi sono dedicato ad altro. Ho scritto molto per altri e mi sono sentito anche imprigionato in qualcosa che non era mio. L’album doveva uscire il 30 agosto già da mesi, la copertina era pronta e i pezzi erano ormai quasi finiti. Ci siamo seduti ed è venuto fuori che c’era il rischio di farlo slittare per l’ennesima volta. Davanti a questa ipotesi ho reagito come sappiamo tutti. 



Hai aperto Instagram?
Sì, e ho scritto quel post. Poi sono sparito per tre giorni, non ho risposto a nessuno compresi i miei genitori. Ho creato situazioni di disagio anche in famiglia. Era come se fosse morto qualcuno a casa. Nessuno si aspettava questo mio colpo di testa. Né la mia famiglia, né il mio staff, né soprattutto la casa discografica. Però poi per fortuna le chiamate dopo il post ci sono state, ci siamo allineati tutti ed è stata un’occasione per ricompattare sia la fanbase che il team. Eravamo tutti sulla stessa linea d’onda e finalmente la mia voglia di far uscire questo disco si è concretizzata. Anche i fan si sono mobilitati e mi hanno fatto capire che avevano fame di questo album.



Lo sfogo poteva però facilmente sembrare un modo per ottenere più visibilità, visto il tempismo…
Il marketing è stata sempre l’ultima cosa a cui ho badato. Anche se al giorno d’oggi è fondamentale. Credo che, se l’idea fosse stata quella, sarei potuto ricorrere ad altre strategie di marketing. Anche perché c’è stata confusione. C’è una linea molto sottile tra il mio sfogo e l’ipotesi del ritiro. Non ho mai annunciato in quel post che mollavo la musica. Ho detto che avrei mollato tutto, ma intendevo che mi sarei fatto i fatti miei per un po’.


Quindi, stai dicendo che non ti sei mai ritirato?

Non era certamente un addio alla musica, anche perché avevo 20 concerti programmati. A 24 anni come fai a mollare la musica? Sarebbe stato assurdo. La stampa poi su quello sfogo si è molto impegnata, ma è stata una fortuna. Avreste potuto fregarvene. Invece ho ricevuto chiamate di amici, giornalisti, musicisti. Persino Nino D’Angelo mi ha telefonato per chiedermi cosa stessi combinando. Proprio perché nessuno si aspettava un post simile. Ho preso le foto che dovevamo usare per la promozione dell’album e le ho usate per sfogarmi. Poi ho cancellato tutte le foto da Instagram. Insomma, ho fatto un bordello.



Diciamo la classica cazzata da social che può capitare a tutti. Solo che tu sei Rocco Hunt.

Ho fatto un macello. Voglio però vedere il bicchiere mezzo pieno e pensare che questo sfogo sia servito per smuovere un po’ le acque.



Ma qual è la libertà di cui parli nell’album? L’industria discografica può essere limitante.

Devo dire che l’industria discografica è cambiata. Se io non avessi fatto Sanremo nel 2014 magari ora non sarei qui. Sono passati pochi anni, eppure sembra mezzo secolo. In quel periodo eri quasi obbligato ad andare a un talent o a Sanremo per farti conoscere. C’erano dei canali già predefiniti. Ora per fortuna c’è più meritocrazia, grazie al web e ai social. La discografia non può più dirti cosa devi o non devi fare. Oggi si può essere indipendenti e arrivare a tutti.

Un’affermazione pericolosa…

Metto le mani avanti dicendoti che la casa discografica non mi ha mai imposto nulla. Certo è che lavoro con una major importante: se hai un mitra, non ci puoi mettere dentro i proiettili di una pistola. A loro devi presentare un progetto che poi possa andar bene per tutti. Non è stata la mia priorità per questo album, però. Non ho lavorato pensando al successo, alle vendite e alla radio. Questo album è un paletto.

Cosa intendi quando dici che ti sei sentito libero di cantare in dialetto?

Dopo Sanremo ho pubblicato dei singoli, ma più per sparare colpi, per capire la mia direzione. E la mia direzione è il dialetto. Dopo tanti tentativi non fortunati in cui provavo a trappare o cantare in italiano, la vera scintilla è venuta fuori con Ngopp’ a Luna. Un pezzo dove non c’è una parola in italiano, dove non c’è nessuna strategia. È arrivato alla gente e la gente se l’è mangiato. Ho capito che è inutile ambire ad essere qualcosa che non si è. La cosa più bella è capire i propri limiti e la propria forza.



Il dialetto è un limite quindi secondo te?

Sì, perché non tutti lo capiscono.



Ho un’ultima domanda però: quali sono allora le “grandi bugie” di cui parli in Grande Bugia e che, a tuo dire, ammazzano la poesia?
Il marketing sicuramente. La grande bugia della foto alle due e mezza di notte con il blu sullo sfondo o la grande bugia della musica che deve portarti al successo e a diventare ricco. Le grandi bugie sono tante e fanno crescere i nostri figli con dei falsi miti. Muoiono le poesie di chi non ha un marketing figo e magari è un grande artista. Penso che a pagarne le spese siamo noi che non abbiamo un appeal da fashion blogger o da critico, perché ormai conta più la polemica della musica. C’è gente che si limita a fare musica e che paga il prezzo di un mondo che va a ritmo di scroll.

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