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Roberta Freeman: «I Guns N’ Roses non sono mai stati razzisti»

La corista racconta che cosa significa imparare i pezzi dei Pink Floyd in aereo e che cosa accadeva durante il tour di 'Appetite for Destruction', tra ritardi incredibili, camerini sotto al palco, le voci di misoginia e razzismo

Foto: Billy Hess

Qualche settimana fa vi abbiamo raccontato come Melissa Reese è diventata la prima donna a far parte ufficialmente dei Guns N’ Roses. Ad aprire la porta a Reese sono astate altre sei donne: le musiciste della sezione fiati Cece Worrall-Rubin, Anne King e Lisa Maxwell, e le coriste Diane Jones, Traci Amos e Roberta Freeman.

Hanno tutte partecipato al tour di Use Your Illusion, nell’estate del 1991, e sono rimaste con la band per due anni. Erano turniste, non sono rimaste con i Guns dopo la fine del tour e non hanno fatto parte delle line-up successive, ma hanno contribuito in modo fondamentale al suono della band nel momento di massima fama (Reese, al contrario, dice di essere un «vero membro» del gruppo e che avrebbe un ruolo anche in un eventuale nuovo album).

Per capire meglio com’erano i Guns N’ Roses nei loro giorni più folli, abbiamo telefonato a Roberta Freeman, che ci ha raccontato anche i tour con Pink Floyd, Cinderella, Joe Cocker e la tribute band Brit Floyd.

Quanti anni avevi quando hai deciso che avresti fatto la cantante?
Oh, dio… l’ho capito immediatamente. Quand’ero bambina a casa mia si ascoltava tanta musica. I miei genitori erano molto appassionati. Mia madre amava l’opera e il folk, mio padre il blues e il jazz. L’ho scoperta davvero da piccola e ho sempre saputo che avrei fatto la cantante. Sempre. Mai avuto un dubbo.

Quando hai cantato per la prima volta sul palco? E quando hai sentito di aver toccato il pubblico? 

Beh, a parte gli spettacoli a scuola, credo che la prima volta sia stata durante il liceo. Cantavo Godspell e mi hanno fatto una standing ovation. I ragazzini mi chiedevano l’autografo nei corridoi. Era bizzarro. Ma mi ha colpito.

Hai cantato con i Pink Floyd per tre concerti all’Omni Coliseum di Atalanta, nel 1987. Come ci sei arrivata? 

Lavoravo a un progetto di Nile Rodgers con Lorelei McBroom e sua sorella Durga. David Gilmour voleva riprendere i concerti per farne un film: Margaret Taylor e Rachel Fury facevano già parte della band, ma volevano più donne sul palco. Volevano che fossero su entrambi i lati, e non solo su uno.

La telefonata è stata sconvolgente. Da teenager andavo a dormire ascoltando The Great Gig in the Sky e tutto Dark Side of the Moon. Non riuscivo a crederci. Amavo i Pink Floyd. Ma non avevo ben presente il nuovo album, A Momentary Lapse of Reason. Ho imparato le canzoni sull’aereo. Dopo che siamo arrivati sul posto e abbiamo iniziato a provare, ripassavo le parti nel backstage. David mi ha detto: «Mi sembra che tu sia pronta, andiamo».

Quali sono le canzoni che hai cantato quella sera e che non dimenticherai mai? 

La mia preferita era On the Turning Away. È diventata un video insieme a Dogs of War e On the Run. Erano su MTV regolarmente. È anche una delle mie canzoni preferite in assoluto.

L’anno successivo hai cantato ai Grammy.
Sì. Dopo i Pink Floyd sono finita in tour con Jerry Harrison dei Talking Heads. Bernie Worrell era nel gruppo, ed è stata un’esperienza straordinaria. Poi ho cantato ai Grammy. Dovevo esibirmi con Nile. Stavamo provando al SIR, uno dopo l’altro. C’era Chaka Khan e Lou Reed attendeva il suo turno. Stava aspettando Debbie Harry e Grace Jones che dovevano fare con lui Walk on the Wild Side.

Io e Lorelei gli abbiamo detto: «Le sostituiamo noi, facciamo noi le prove». Gli siamo piaciute moltissimo, io e Lorelei eravamo abituate a lavorare insieme. Avevamo la nostra coreografia, eravamo un bel mix. Ha detto: «Vorrei che lo faceste voi». Eravamo eccitate, ma ho pensato: «Che succede se Grace e Debbie si presentano?». E lui: «Non importa, canterete con loro». Ed è andata proprio così. Ho fatto il Madison Square Garden con Lou Reed e Nile Rodgers. E poi mi ha chiesto di suonare con lui ai Grammy. Era come una valanga, succedeva tutto in fretta.

Raccontami dei Grammy.
È stata un’esperienza incredibile. Ho visto tutti i miei eroi. È stato incredibile stare a un passo da Michael Jackson durante il finale, cantare Runaround Sue con lui. Pazzesco.

Come sei finita con i Cinderella, durante il tour di Heartbreak Station?
Un amico mi ha detto che facevano delle audizioni. Ho mandato foto e curriculum. Quando sono arrivata lì, mi hanno detto che mi avevano praticamente scartata perché non ero abbastanza nera. Mia madre è un’ebrea dell’Europa orientale, mio padre nero e nativo americano. La gente si chiede sempre da dove vengo. Era tipico nel rock.

Ma non voglio dire niente di male su quei ragazzi. Li adoro. Ma all’epoca era insolito che una band così avesse delle coriste. L’avevano fatto solo i Mötley Crüe. I Cinderella erano i secondi. Volevano delle voci soul e io non sembravo abbastanza soul. Ma quando mi hanno sentito cantare hanno cambiato idea.

C’eri solo tu? 

Io e Diane Jones. Abbiamo fatto tutto il tour. È stato pazzesco. Mi sono divertita moltissimo. Loro erano come dei fratelli. Li adoravo. A quanto pare, il batterista Fred Coury era un buon amico di Slash. Dopo la fine del tour, Slash ha detto a Fred che Axl voleva provare delle donne nel gruppo e Fred ha fatto il mio nome.

È nato tutto così. Quando ho ricevuto la chiamata di Slash avevo già lavorato con artisti del genere. Ero felice di ricevere la sua telefonata, ma non era uno shock che uno s’immagina. La cosa che mi ha sorpreso di più è che volevano delle donne sul palco. Conoscevo la loro reputazione ed ero pronta a un tour a base di misoginia.

E avevano anche pubblicato un pezzo in cui Axl cantava la parola con la N.
Sì. Beh, non ho mai cantato quel pezzo (One in a Million) con loro. Ne avevo sentito parlare. In realtà, ero sopraffatta dalla situazione, perché Slash mi aveva detto: «Fai quello che ti pare. Non abbiamo dei veri cori, decidi tu chi vuoi che canti con te». Ero anche a capo delle coreografie e degli arrangiamenti vocali.

Alla fine ho scelto Traci Amos e quando lei si è presa una pausa, ho portato in tour Diane Jones. Pensavo a un sacco di cose e non volevo esagerare. Volevo dare il massimo. Quando ho sentito quel pezzo… Axl mi aveva sempre trattato con rispetto. È sempre stato molto dolce. Non mi è mai sembrato razzista. Ho pensato: forse quella canzone è interpretata dal punto di vista dei razzisti, e non ci ho pensato più. Ho anche sentito dire che se la prendeva con chi aveva atteggiamenti razzisti. Ha suonato con musicisti neri e ha avuto tecnici di palco neri. Non mi è mai sembrato razzista. Mai.

Avevano appena registrato due dischi abbastanza complessi. Come li hai aiutati a portarli sul palco?
Seguendo l’istinto. Ho arrangiato i cori che sentivo in testa. Alcune canzoni avevano già dei cori, soprattutto Knockin’ on Heaven’s Door, e in quei casi non ci ho dovuto pensare troppo. Ma ho aggiunto il mio tocco al mix. Ho messo un piccolo solo, devo ammetterlo.

A un certo punto, pensavo di aver esagerato un po’ con quella parte. Mentre il tour andava avanti, lo allungavo sempre di più a mio gusto. A un certo punto, il management mi ha detto che stavo esagerando e che avrei dovuto diminuire un po’. Credo parlassero con me perché era difficile capire che cosa volesse Axl. Non comunicava granché. Pensavo che volessero farlo contento. La parte divertente è che Axl ha sentito quella conversazione. È intervenuto e ha detto: «Roberta, amo quella parte. Continua così».

Sarai stata felicissima… 

Ero molto contenta perché fino a quel momento non avevo ricevuto molti feedback da Axl. Non so come sia adesso, ma all’epoca stava separato dal resto del gruppo. Era difficile parlare con lui. Non veniva alle prove. Quindi eccomi, l’ultima arrivata che deve scrivere le parti e le coreografie senza avere alcun feedback. Slash era molto tranquillo, diceva: «Senti, Axl vuole questa roba. Fai quello che ti sembra giusto».

Era davvero rilassato, ma non dava grandi feedback. Quando ho capito che Axl non sarebbe venuto alle prove, sono andata nel panico: «Oh dio, e se non dovessero piacergli? Dovrò ricominciare da capo». Per la prima sera del tour volevo provare le parti con lui e Tracy, spiegargli i miei piani. Ma non era possibile.

Ero determinata, volevo vederlo ed era importante. Non volevo disturbarlo, i cori erano una parte importante dello show e voleva che me ne occupassi io. Alla fine ci sono riuscita. Ricordo che ero seduta in camerino con questa cassetta con le registrazioni delle nostre voci. Axl era seduto, sorrideva e annuiva. Ero felice di aver reso felice il capo.

Quel tour era assurdo. I concerti iniziavano tardi, c’erano risse. Come l’hai vissuto? È stato stressante? 

Sì, era stressante, ma poi ci siamo abituate. Sapevamo che se l’inizio era fissato per le 8 di sera, non avremmo suonato prima delle 10. Come minimo. A volte abbiamo iniziato a mezzanotte. Ci preparavamo, mettevamo trucco e parrucche e i costumi. Riscaldavamo le voci e cercavamo di non addormentarci. Il palco era davvero grande, e sotto c’erano costruiti questi piccoli camerini. Passavamo il tempo giocando a carte. Era tipo un circolo.

Non cantavo in tutti i pezzi, sarebbe stato troppo. Ho scelto un certo numero di canzoni. Ogni sera Axl scriveva la scaletta. Di solito, nei tour la scaletta è stampata e distribuita a tutti, anche se cambia ogni sera. Axl non faceva così. Eravamo sotto il palco, giocavamo a carte e perdevamo tempo, e all’improvviso sentivamo November Rain. Io e Traci correvamo sul palco e facevamo la nostra parte. Era eccitante e molto spontaneo.

Quel tour è stato molto lungo. Eravate esauste alla fine?
È stato lungo. Credo due anni. Ho fatto tutti i concerti. Credo fossero 194 in 21 Paesi. Con il sole o con la pioggia, abbiamo suonato. Ricordo che in Giappone mi sono ammalata, vomitavo tutto quello che mangiavo. Axl mi ha detto: «Dio mio, sei verde! Se non vuoi esibirti è ok, non devi per forza». Ho risposto: «No, lo show deve continuare, canterò». Sul palco c’era un secchio, proprio dietro la mia postazione. Ero davvero malata.

Com’è stato suonare al concerto per i Queen al Wembley Stadium? 

Incredibile. Prima di tutto, era il pubblico più grande che avessi mai visto. C’erano tutti. Ero una grande fan dei Queen. Mentre eravamo sul palco, Brian May era dietro di me e non me ne sono accorta finché non mi sono girata. È stata un’esperienza incredibile, storica. Volevamo celebrare la vita di un uomo e non la terribile malattia che stava uccidendo molte persone che conoscevamo e amavamo. È stata un’esperienza pazzesca. C’era gente come Liz Taylor, Robert Plant, Roger Daltrey.

Ovunque mi girassi c’era una faccia nota. Anche se avevo già lavorato con parecchia gente, era comunque incredibile condividere il palco con persone che hai ammirato per anni. E il pubblico era assurdo. Folle. Abbiamo suonato per la prima volta con Elton John. Dopo quel concerto abbiamo fatto gli MTV Movie Awards. I Guns N’ Roses mi hanno dato tante opportunità fantastiche.

Perché November Rain è una canzone così speciale dal vivo? 

Ricordo che durante uno dei concerti del tour, credo in Sud America, ha iniziato a piovere nel bel mezzo della canzone. È un ricordo che porto sempre con me e che ho molto a cuore. È stato davvero magico. Bastava guardare i fan. Di solito, quando piove durante un concerto la gente è dispiaciuta. Ma con loro era diverso, sembravano determinati a fare ancora di più. Erano più eccitati. Per un attimo ho pensato: «Ci sono tante attrezzature elettriche qui sul palco e piove davvero forte». Ma non interessava a nessuno. È stato un momento incredibile. Magico.

La mia canzone preferita, però, era Knockin’ on Heaven’s Door, perché prima di quel pezzo Axl ci presentava al pubblico. Voleva che il pubblico cantasse con noi. Quel pezzo mi ha fatto conoscere in giro, perché prima di suonarlo la gente sentiva il mio nome.

Credo che Axl sia uno dei migliori cantanti rock di tutti i tempi. Cosa hai imparato guardandolo lavorare tutte le sere? 

Innanzitutto, non ero una grande fan dei Guns N’ Roses prima di iniziare a lavorare con loro. Quando mi hanno telefonato li conoscevo, ovviamente, ma non ero una fan. Quando sono partita per il tour, mi aspettavo un gruppo di ragazzacci che non prendevano sul serio la cosa: erano ancora molto giovani. E invece Axl prendeva tutto molto seriamente, studiava molto con il suo vocal coach, faceva molto esercizio e curava la dieta. Era determinato a essere la versione migliore di se stesso. In più, mentre cantava sul palco correva continuamente. Notevole.

Stare sul palco e ballare cantando è già difficile anche stai comunque abbastanza ferma davanti al microfono. E invece Axl correva su quelle rampe e su tutto il palco, che non era certo piccolo. Cantava in falsetto e poi passava al suo splendido baritono. Sorprendente e impressionante.

Nel libro di Slash si parla di un documentario girato durante quel tour e mai arrivato al pubblico. Te lo ricordi?
(Ride) Sì! Ricordo che volevano entrare nei camerini per riprenderci mentre ci cambiavamo. Gli sbattevamo la porta in faccia. Registravano tutto, dai viaggi in aereo al backstage. Erano ovunque e sembrava non smettessero mai. Non ricordo se hanno iniziato durante le prime date, credo fossimo già a buon punto, ma ricordo che era una gran rottura. Erano invadenti, ma in fondo cercavano di documentare quell’epoca. È storia del rock, uno dei tour più lunghi di sempre.

Da qualche parte, in una cassaforte, ci sono migliaia di ore di girato di quel tour. Speriamo che un giorno diventi un vero documentario.
Sì, sarebbe interessante.

Cosa è successo dopo il Sud America?
Da quanto ho capito io, nella band c’erano delle differenze di opinioni. Non volevano perdere Gilby Clarke. E poi Slash è partito per il tour degli Snakepit con Gilby. È in quel momento che è finito tutto. Quando hanno ripreso le ragazze non erano invitate, perché quella era un’idea di Axl. I ragazzi l’hanno lasciato fare, ma credo preferissero stare per conto loro. Credo che avere sia i cori che la sezione di fiati fosse troppo raffinato per loro. Volevano tornare alle origini. È così che è finito tutto.

Poi sei partita in tour con Joe Cocker. Com’è andata? 

Incredibile. Amo lavorare con artisti che rispetto. Finito il tour li rispetto ancora di più. Joe Cocker era un uomo meraviglioso, davvero fantastico. Era una persona splendida, dolce e gentile. Lavorare con lui è stato un vero piacere. Era un vero professionista. Mi aspettavo un pazzo, ma non è andata così.

Com’è nata l’idea di cantare con i Brit Floyd, la tribute band dei Pink Floyd? È un bel modo per chiudere il cerchio…

Sì. Sono una grande band e sono musicisti molto validi. Mi portano in tanti posti interessanti, e fanno un gran lavoro con la musica dei Pink Floyd.

I Pink Floyd non sono più in giro, quindi credo che sia l’alternativa migliore… 

Probabilmente è quello che pensano i fan. I Brit Floyd investono molto nella produzione dello show. Hanno molti laser e vari video. E per i fan è importante sentire che suonano come i dischi. I Brit Floyd sono così. È il loro obiettivo e sono bravi.

Com’è stato lavorare con i Weezer a Can’t Knock the Hustle?
Ero molto felice di partecipare a quel progetto. Ho cantato le mie parti e ho lavorato con uno dei produttori più importanti della storia della musica, Dave Sitek. È un amore e lavorare con lui è stato un sogno. Mi ha dato grande libertà, e di solito non succede con i coristi. Si è assicurato che venissi accreditata, e quindi non ho niente di negativo da dire su di lui.

Come stanno andando le cose, ora che l’industria è chiusa per la pandemia? 

La considero una pausa. So che tutto ricomincerà come prima. Adesso sto lavorando con una band, i Think:EXP. Ci suonano Scott Page, il sassofonista dei Pink Floyd, Stephen Perkins dei Jane’s Addiction, e tanti altri musicisti di grandi band. È un onore lavorare con loro. Mi danno grande libertà con i cori, e ho scritto tanti arrangiamenti diversi da cantare con molte donne diverse.

Riceviamo varie offerte per suonare, ma sono tutte per dicembre o per la prossima estate. Ci stiamo lavorando, ma i concerti non torneranno presto quanto vorremmo. Vorrei anche dire che ho registrato quattro album con Nick Waterhouse e sette con Gilby Clarke. Siamo sempre rimasti in contatto, è una persona fantastica.

Non ho mai pensato che avrei vissuto in un mondo senza concerti. È assurdo.
Ho sentito parlare dei drive in e di chi suona mantenendo le distanze sul palco. Credo che diventeremo sempre più creativi e che i concerti continueranno. L’industria discografica non si fermerà: che mondo sarebbe senza musica?

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