Robert Smith: «‘Disintegration’ è stato la svolta dei Cure» | Rolling Stone Italia
Interviste Musica

Robert Smith: «‘Disintegration’ è stato la svolta dei Cure»

Il musicista inglese ricorda il disco che ha cambiato per sempre la storia della band, tra dosi massicce di LSD e la lotta contro la depressione. Mentre il nuovo album potrebbe essere ispirato da Tolstoj

Robert Smith: «‘Disintegration’ è stato la svolta dei Cure»

Foto di Kimberley Ross

All’inizio dell’anno i Cure hanno suonato tutto il loro album del 1989, Disintegration, all’Opera House di Sidney, un’esperienza che il frontman Robert Smith ha definito “bizzarra”. È l’album più venduto della carriera della band – doppio platino negli USA, 12° posto nella classifica Billboard 200 – e il frontman è ben consapevole di cosa significhi per i suoi fan e per tutto il mondo della musica. C’è un motivo se singoli come Lovesong, Fascination Street, Pictures of You e Lullaby sono diventati imprescindibili nei concerti della band. Tuttavia, è insolito che Smith e il resto del gruppo suonino ogni canzone dell’album, per non parlare delle B sides, nella stessa serata.

«In tutta la nostra storia abbiamo suonato solo una delle B sides», dice. «È stato strano, in senso buono, ritornare su quelle canzoni. E ce ne sono un paio dell’album che non portavamo sul palco dall’89, è stato piuttosto bizzarro».

«Suonare Untitled, in realtà, è stato difficile per me», continua, «perché quella canzone ha un grande bagaglio emotivo… bagaglio non è la parola giusta. Il punto è che per me è una canzone molto importante. È stato difficile cantarla in una maniera che mi sembrasse convincente, dovevo tornare a un momento della mia vita in cui ero davvero, davvero infelice. Insomma, è stato difficile ma bello, un bel concerto. Tutto era collegato bene, e mi ha fatto apprezzare quella musica in un modo nuovo».

All’inizio dell’anno Smith ha raccontato a Rolling Stone il film del concerto per i 40 anni della band. L’occasione era perfetta per riflettere sul 30° compleanno di Disintegration, una pietra miliare della carriera dei Cure. Smith si è meravigliato di quanto si sia divertito a guardare indietro nel passato.

«Temo di aver raggiunto quell’età in cui la nostalgia comincia a farsi sentire», dice. «Ti viene da pensare: “Beh, probabilmente non sarò in giro per il 40° anniversario di Disintegration”. Quindi sì, è stato bello suonarlo ancora».

Che cosa ti colpisce, oggi, di quelle canzoni? 

Disintegration è uno di quei due o tre album che hanno avuto un significato, un impatto culturale più ampio rispetto a, per dire, “un altro album dei Cure”. È arrivato in un momento particolare, credo che avessi la giusta combinazione di canzoni, e significa molto per molte persone. In realtà avrei preferito fare il 40° anniversario di Three Imaginary Boys, ma sono stato scavalcato e abbiamo fatto Disintegration. Credo fosse la scelta più saggia.

Da quanto tempo non lo ascoltavi dall’inizio alla fine? 

Probabilmente dal 2010, quando abbiamo pubblicato la versione rimasterizzata. Era la prima volta che lo ascoltavo interamente dall’epoca dell’uscita. Ricordo che mi dissi: “Oh, ecco perché alla gente piaceva così tanto”. C’è un equilibrio molto bello tra le canzoni più grandi e quelle più piccole, è divertente. Si tiene insieme, e sulla carta non avrebbe dovuto. Poi, quando l’abbiamo provato tutto, all’inizio di quest’anno, ho provato le stesse sensazioni di una volta. Come se avessi ricordato qualcosa. Ho pensato: “Sì, è davvero scritto bene. In un certo senso, sapevo quello che stavo facendo”.

Lovesong è stata suonata da tutti, da Adele ai 311. È strano per te ascoltare altra gente mentre interpreta una canzone così personale? 

Nonostante io abbia sempre detto che la canzone era il mio regalo di nozze per Mary, in realtà è un piccolo furto, è Simon che scrisse la linea di basso. È una delle due canzoni di Disintegration scritte da lui. Era una delle sue demo, e io la trasformai in una canzone. All’inizio c’era uno special di otto battute, io ho semplificato tutto e scritto le parole. Poi gliel’ho suonata e lui disse: “Wow”.

Volevo che in tutta l’oscurità dell’album ci fossero una o due canzoni più luminose, e Lovesong è una di queste. Pensavo… sono tre minuti, voglio scrivere l’altro lato di quest’album. “Nonostante tutto, non cambierò mai. Io sono così”. Quando qualcuno suona una mia canzone… è grandioso. Non importa se mi piaccia o no. È bello che un altro artista apprezzi le mie cose. Io suono alcune cover perché quelle canzoni mi piacciono, non lo faccio inseguendo una hit.

La scrittura del nuovo album ti ha dato una prospettiva diversa su Disintegration?

Durante le prove per il concerto di Disintegration eravamo al lavoro anche su alcune canzoni del nuovo album, che registreremo quest’anno. Credo ci abbia aiutato. Sicuramente ha aiutato me a trovare la strada giusta. Penso che Disintegration sia un grande album, e non mi metterò mai a pensare: “Se avessi fatto questo, se solo avessi pensato a questa cosa”. Sarebbe stupido. Suonarlo mi ha permesso di pensare a com’è stato costruito. Non è stato fatto di proposito, ma avevo un’idea completa nella mia testa, ancora prima di suonare la prima nota sapevo come doveva iniziare e come doveva finire tutto. Quindi sì, Disintegration ha cambiato la scrittura del nuovo album. Per questo sono contento di averlo suonato di nuovo.

E poi, è stato semplicemente bello. Siamo arrivati a un punto della nostra carriera in cui quello che voglio sono nuove esperienze. I cinque concerti all’Opera House di Sidney sono stati molto diversi dal solito. Suonare Disintegration in una sala con poco pubblico è stato molto intenso. Avevo dimenticato che alcune canzoni avessero… (Fa una pausa). Prayers for Rain, in particolare, ha qualcosa di davvero disturbante. Ha funzionato davvero bene in quella sala.

Com’era il tuo stato psicologico all’epoca? Prendevi molto LSD?

Non molto, ma abbastanza. Ci sono stati tre momenti, negli anni ’80… periodi di “auto-esplorazione”, per fare un eufemismo. Volevo spingermi al limite, volevo capire quanto lontano potessi arrivare. Non è stato facile compiere 30 anni. Pensavo: “Eccoci. Questa è l’ultima possibilità che avrò nella mia vita per creare qualcosa che abbia un significato”. Guardando indietro direi che ero un personaggio piuttosto fastidioso, forse difficile, molto concentrato e testardo. Non mi interessava granché sentire cosa pensassero gli altri. A volte funziona, ed è grandioso, ma se non funziona è un modo davvero stupido di vivere. Io, comunque, ero molto sicuro di quello che volevo fare con quell’album. 

Kiss Me (uscito nel 1987) è stato scritto con molta più noncuranza. La band era nel sud della Francia, bevevamo grosse quantità di vino. Tutto sembrava una grande festa, con occasionali pause di sobrietà. Disintegration, invece, è stato registrato in maniera più concentrata, alla fine dell’autunno, nella campagna inglese. Era malinconico. L’atmosfera era completamente diversa. Era molto, molto cupa.

Io non dicevo una parola, una situazione che con il tempo è diventata quasi divertente. Passavo appunti a Roger (O’Donnell, ndr) per dirgli cosa andava bene e cosa no, non volevo parlare. Credo che ne conservi ancora qualcuna. Suona artificioso, stupido, ma ero convinto di dover creare un’atmosfera in cui tutti comunicassero in maniera non-verbale. Si capisce che prendevo gli acidi, no? In qualche modo pensavo che scrivere, invece che parlare, sarebbe stato lo stesso, anche se ovviamente non era così. Sarebbe stato tutto più semplice se avessi usato la voce. Ma l’idea mi piaceva. Tornavo nella mia stanza e scoppiavo a ridere. Mi dicevo: “Stai diventando pazzo”. Ma nel giro di un paio di settimane tutti, credo, hanno improvvisamente realizzato quello che stava succedendo.

Valeva la pena commemorare l’album?

Credo valga la pena commemorare l’anniversario. Non credo funzionerebbe con tutti gli album che abbiamo registrato. Sarebbe ridicolo. Finiremmo in un circolo vizioso di show celebrativi. Ma sì, in questo caso aveva senso. Disintegration è stato una svolta per il gruppo. Ha segnato la fine di un’era. Per me era “la fine dei Cure anni ’80”, non importa se suonavo nella stessa band che avrebbe registrato Wish, un disco che avrebbe avuto ancora più successo. Nel mio cuore sapevo che quella band non c’era più. Mi sembrava di essere alla fine. Non mi era mai successo di pensare che dovessimo fermarci, non riuscivo a vedere… dove stessimo andando? Suonavamo negli stadi. Non c’era niente di meglio. Allora cosa fai? Dopo un album al primo posto in classifica, cosa fai? Cerchi di rifare le stesse cose?

Mi sono detto: “Al diavolo, è alla mia vita”. Ora suona terribile, ma pensavo: “Dio, non riesco a pensare a niente di peggio che diventare famoso, tutti sanno chi sei e quello che fai”. Insomma, se penso alle cose che ho fatto e detto all’epoca, è chiaro che fossi un po’ fuori di testa. Per fortuna ne sono uscito. Intorno a me c’erano persone abbastanza sane da non lasciarmi autodistruggere. Sono riuscito a canalizzare tutti questi sentimenti in due album, Disintegration e Wish. Alla fine sono venuti bene.

Come gestivi i tuoi sentimenti più negativi, in quel periodo? 

Non lo so. Credo di essere molto più depresso del passato, ma in modo divertente, ma allo stesso modo sono anche più felice. E non ha nessun senso. Quando penso a come sentivo durante l’adolescenza, mi chiedo: “Perché ero così triste tutto il tempo?”. Sentivo un senso di inutilità che non mi ha mai abbandonato. È ancora qui. Se lascio che prenda il controllo può ancora inghiottirmi, ma credo di essere più estroverso che in passato. Non mi preoccupo più granché. Mi sono rassegnato, suppongo, alla mia vita. Credo sia parte del processo d’invecchiamento, con tutto quello che comporta.

Cosa è diverso adesso? 

Leggo molto di più che in passato. Quando ero ragazzo leggevo voracemente, poi ho smesso per quasi 20 anni. Non leggevo quasi nulla. Sentivo moltissima musica e non leggevo. Ora sono tornato a farlo. Negli ultimi anni ho letto tutti i libri che sentivo di dover leggere. Anche Tolstoy e cose del genere, il che è fantastico. La vita è troppo breve per leggere Guerra e Pace, ma non c’è ragione per non cominciare.

Faccio anche molte cose che ho sempre voluto provare. Sono in una posizione per cui non devo davvero lavorare. Posso fare cose nuove. Quindi non mi sento mai in colpa. Mi piacerebbe non rimuginare così tanto… sulla morte.

Negli ultimi due o tre anni sono morte molte persone che mi erano vicine, ed è stato difficile. È lo stesso per tutti: arrivi a una certa età e inevitabilmente le persone che hai intorno iniziano a morire. Forse la verità è che una volta ceravo di rendere affascinante la morte, forse romanticizzarla, usarla per uno scopo artistico. Ma quando diventa reale, e accade intorno a te – ogni settimana arriva una telefonata –, allora non è più fonte d’ispirazione per l’arte. Non lo so. Non so se è vero per tutti, ma lo è per me.

Insomma, vorrei che le parole che sto scrivendo per i nuovi pezzi non siano troppo ovvie. Sto cercando di scrivere in maniera più poetica di argomenti non necessariamente deprimenti, di per sé è una sfida. Forse è per questo che leggo così tanto. Magari cerco solo di rubare. Non lo so. Magari nel nuovo album userò interi passaggi di Guerra e Pace. Questo è uno scoop (Ride).

Altre notizie su:  Robert Smith The Cure