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Ritmo Tribale: «Abbiamo perso il treno per la rivoluzione»

Andrea Scaglia racconta il presente della band e il periodo, negli anni ’90, in cui sembrava che la musica potesse cambiare anche in Italia. «Ma le major volevano subito grandi numeri e noi eravamo presuntuosi»

Foto: Alberto Mori

«È un po’ il destino di quelli che rompono il muro con la testa. Loro si spaccano il cranio e gli altri passano dall’altra parte». In questa considerazione di Andrea Scaglia c’è buona parte della storia dei Ritmo Tribale e la conseguente spiegazione del titolo del loro nuovo album, il primo dopo 20 anni: La rivoluzione del giorno prima.

Lui, Scaglia, voce e chitarra della band, Fabrizio Rioda all’altra chitarra, Andrea Briegel Filippazzi al basso, Alex Marcheschi alla batteria e Luca Talia Accardi alle tastiere. Questi sono da sempre i Ritmo Tribale, una band nata nella Milano da bere e da pere degli anni ’80. Sulla copertina di Kriminale, il loro secondo album uscito nell’89 su Vox Pop, c’erano le macerie del centro sociale Leoncavallo: le loro canzoni sono sempre state espressione di disagio urbano e mentale ma, concerto dopo concerto in ogni dove, erano riusciti a emanciparsi dall’underground e accarezzare il mainstream (vi consigliamo un libro per approfondire la loro storia: Uomini, i Ritmo Tribale, Edda e la scena musicale milanese di Elisa Russo). Sono il gruppo rock più solido emerso in Italia nella prima metà dei ’90, partiti da una personalissima visione del punk più newaveggiante ed esplosi con un visionario crossover parente stretto di Jane’s Addiction, Faith No More e Red Hot Chili Peppers.

Oggi all’appello manca solo il più svitato di tutti, Stefano Edda Rampoldi, uscito dal gruppo giusto 25 anni fa, all’indomani della pubblicazione di Psycorsonica, un gran bel disco che avrebbe potuto forse consacrarli, per poi ritrovare una propria strada solista solo negli anni ’10 di questo XXI secolo.

Fatto sta che, una volta perso Edda in gonnella, Scaglia è diventato per forza di cose il frontman della band e ora eccolo al telefono, in un giorno di pioggia battente sulla sua Milano frastornata dalla fase 2 Covid-19, a raccontarci passato, presente e futuro dei Ritmo Tribale.

Perché ci avete impiegato 20 anni per fare un disco nuovo?
Perché abbiamo vissuto. Quando abbiamo smesso con i Ritmo Tribale era più o meno il 2000. Avevamo detto basta perché era un progetto ormai imploso. Anche a livello personale eravamo tutti al limite, avevamo bisogno di staccare e rimettere insieme i pezzi. Gli anni ’90 sono stati esaltanti sotto certi punti di vista, ma distorti e distruttivi sotto altri.

Avete smesso dopo Bahamas, il primo album senza Edda.
È stata la chiusura di un discorso ed è per questo che è un disco riflessivo, profondo e molto personale in cui parlavamo a noi stessi.

E cosa avete fatto nel frattempo, dal 2000 a oggi?
I Ritmo Tribale sono i miei amici, quindi ci siamo sentiti e visti continuamente. Io ho continuato a scrivere e suonare, intorno al 2010 ho formato i NoGuru con Alex Marcheschi e Briegel dei Ritmo, Xabier Iriondo degli Afterhours e il sassofonista dei Detonazione Bruno Romani. Con loro ho fatto un disco e parecchi concerti. Ma ognuno di noi si è fatto anche una famiglia.

Hai figli?
Un figlio di 17 anni.

Che musica ascolta?
È indirizzato verso le cose che parlano della sua vita, della sua situazione, e quindi ascolta rap e trap. Mi ha fatto conoscere Salmo, la prima Dark Polo Gang, il primo Sfera, Izi, Massimo Pericolo… Poi gli sono rimaste cose che ha ascoltato inconsapevolmente con me, tipo London Calling. Mi ha fatto entrare in un mondo che è ovviamente molto lontano da me, non per preconcetti, ma perché parla a un determinato tipo di pubblico e uno a 50 anni non può sforzarsi di avere lo stesso alfabeto di un ventenne.

Ma riconosci qualche tratto comune tra la trap e la musica dei tuoi 20 anni?
Riconosco che la trap è il punk di questi tempi nel senso che, così come noi imparavamo a fare quattro accordi con la chitarra per fare musica, ora puoi fare delle basi neanche con un computer, ma con un telefono, e dirci sopra delle cose. Quindi dal punto di vista dell’attitudine, sì, come noi parlano di quello che vivono e vedono.

Foto: Alberto Mori

Torniamo a La rivoluzione del giorno prima: come siete arrivati a registrare un nuovo disco dei Ritmo Tribale?
Tre anni fa ci hanno chiamati per proporci di fare una Bahamas night al Pub Centrale di Erba. Abbiamo detto di sì, c’è stata una bella dimostrazione di affetto da parte del pubblico e ci siamo divertiti. Quando vedi che le cose funzionano e ti sei liberato di tutte le incrostazioni che c’erano quando lo facevi anche per lavoro diventa automatico ripartire. Ci siamo detti: continuiamo a suonare senza stress. Io non ce la faccio a fare la cover band di noi stessi, così ho portato delle idee a cui abbiamo lavorato insieme, senza darci una scadenza o imporci dei limiti, e una volta raggiunto un certo numero di brani abbiamo pensato di fissare il momento. Vediamo che succede.

Quindi vi ritrovate a provare in saletta esattamente come 35 anni fa?
È uguale a 35 anni fa, sì. Attacchi gli strumenti e il bassista rompe le palle perché le chitarre sono troppo alte. Siamo sempre dei fracassoni, il mood è lo stesso: su quattro ore di prove due le passiamo a chiacchierare e sparare cazzate. Si sta insieme.

E insieme avete fatto La rivoluzione del giorno prima, un disco più ruvido rispetto a Bahamas.
Perché noi siamo ruvidi! Come ho già detto, Bahamas è un disco a cui siamo molto affezionati, era più liquido, psichedelico. Eravamo impegnati a guardarci dentro e, sia nei testi che nell’attitudine, non è un album facile da approcciare. Se vuoi cercare dei termini di riferimento, ascoltando Bahamas pensi ai Pink Floyd, mentre in questo nuovo disco possiamo ritrovare il sound degli Stooges o di un gruppo come i Kyuss.

Canti “ho attraversato Milano con una bomba nel cuore”: è una citazione di Search and Destroy degli Stooges?
No, è un caso. In realtà mi sono autocitato, è una piccola frase che c’era nel disco dei NoGuru.

Milano muori, uno dei pezzi di La rivoluzione del giorno prima, è un cordiale invito alla nostra città?
L’ho scritta prima di tutta questa situazione, ma sembra raccontare il casino generale scatenato dalla chiusura totale della pandemia: “C’è un nemico invisibile… vuole distruggere la città”. In realtà volevo esprimere l’atteggiamento che tutti noi milanesi abbiamo nei confronti della nostra città. I milanesi dicono sempre due cose. Una è “abbastanza”. Ma stai bene? Abbastanza. E poi: “Appena posso me ne vado”. C’è questa sorta di amore e odio nei confronti di Milano e allora canto “amo tanto questa città… che la vorrei morta”. È il modo che abbiamo di rapportarci a questa aspirante metropoli che ancora troppe volte dimostra di non essere tale.

Anche un altro tuo coetaneo e compagno di strada, Alioscia dei Casino Royale, ha raccontato di aver scritto un pezzo involontariamente profetico come questo.
Vivendo a Milano senti quello che c’è nell’aria, poi ognuno si esprime con il proprio vocabolario, la propria musica. Mi è capitato di sentirci dire: “Ma, caspita, vi esprimete in questa maniera in un momento così tragico?”. La persona che cerca di mettere in musica le proprie sensazioni non deve uniformarsi al messaggio generale. Andrà tutto bene, siamo tutti amici, le bandiere fuori dai balconi… È un mood che non mi è mai appartenuto e ho tutto il diritto di scrivere qualcosa su Milano osservando il lato più oscuro di tutta la situazione.

A proposito di profezie, ascoltando La rivoluzione del giorno prima su Spotify succede che alla fine dell’album parte in automatico il vostro penultimo disco, Bahamas. E il primo pezzo in scaletta è 2000: fa un certo effetto riascoltare 20 anni dopo “la nuova civiltà del Duemila”…
In quel caso sono stato un facile profeta. Non è che ci volessero chissà quali doti messianiche per capire dove stavamo andando.

All’epoca avresti mai pensato di parlare ancora di Ritmo Tribale 20 anni dopo?
Non ci pensavo: non perché lo ritenevo improbabile, ma perché non mi ponevo il problema. E quando abbiamo smesso nel 2000 non ci siamo detti né “abbiamo smesso per sempre”, né “un giorno riprenderemo”. Certo fa un po’ di impressione.

Come mai per questo disco avete scelto di registrare una cover dei Killing Joke in italiano, Resurrezione show?
Sto rifacendo in italiano pezzi che mi piacciono molto perché non ho padronanza dell’inglese e perché mi diverto a farlo. I Killing Joke sono una band essenziale nella mia formazione musicale, trovo che abbiano anticipato tante cose da un punto di vista musicale e i loro primi dischi sono ancora attuali. Avevo già fatto una loro cover con i NoGuru, Complications, e c’è una loro citazione anche in un vecchio pezzo dei Ritmo Tribale, Antimateria su Mantra. Ma ci sono anche altre due cover su questo disco…

Quali?
Cortina è ripreso liberamente da Iron Curtain di Escape-ism, uno dei progetti di Ian Svenonius. Dormo poco, soffro di insonnia e durante una delle mie divagazioni notturne sono finito sul video di questo pezzo, mi piacerebbe fare altre cose simili in futuro. E poi solo sulla versione in CD e vinile c’è anche una cover dei Nine Inch Nails. Il pezzo segnato con le quattro lische è la nostra versione di Everyday Is Exactly the Same. Per sei mesi abbiamo provato a scrivergli per chiedere la liberatoria, ma non ci hanno mai risposto, forse avranno anche altro da fare.

Sul nuovo album c’è una canzone che si chiama Jim Jarmusch. Di cosa parla?
Io che sono pelato canto “Voglio i capelli di Jim Jarmusch”. Cerco di usare un tono ironico, dissacrante per descrivere una sensazione in cui mi riconosco in quanto grande insoddisfatto che ha fortunatamente imparato ad accettarsi. In tutto il disco c’è un senso di incompletezza: la continua rincorsa ai nostri desideri, e alla nostra età ti rendi conto che non arriverai mai al traguardo.

Il ritornello ricorda tanto Sui giovani d’oggi ci scatarro su degli Afterhours, un gruppo che è cresciuto insieme a voi.
Sì, è vero, me l’hanno già detto. Ma è un caso, e pensa che io ero fuori dalla sala del Jungle Sound quando Manuel stava registrando quel pezzo. Non c’è alcun riferimento agli Afterhours: le strofe sono hardcore e il ritornello è semplicemente il giro di White Riot dei Clash.

Jungle Sound Station era lo studio di registrazione aperto in zona Navigli da Fabrizio Rioda. Negli anni ’90 è stato uno degli epicentri della musica alternativa italiana…
Era un momento pazzesco. Andavi al Jungle Sound e incontravi chiunque. C’erano gli Afterhours e i Bluvertigo. Arrivavano Vasco e Pino Daniele. E quando a Milano suonava gente come Sonic Youth e Iggy Pop anche loro passavano di lì.

Eravate compagni di etichetta dei Casino Royale, tra le prime band alternative italiane a firmare con una major, la Black Out/PolyGram. Sono stati loro a battere il sentiero percorso poi da colleghi diventati ben più celebri…
Sempre più vicini dei Casino e, nel nostro piccolo, Mantra sono album che hanno sicuramente smosso le acque. Potrà sembrare un discorso banale, ma è la realtà: quello che abbiamo seminato noi e i Casino Royale è stato raccolto in seguito da Afterhours e Subsonica. È un po’ il destino di quelli come noi che rompono il muro con la testa. Loro si spaccano la testa e gli altri passano dall’altra parte.

Foto: Alberto Mori

L’ultima canzone su La rivoluzione del giorno prima è un vecchio pezzo, Buonanotte, che era su Mantra.
Sì, è una versione pianoforte e voce di un pezzo di Stefano che mi è sempre piaciuto tantissimo. Su Mantra era velocissima, con la doppia cassa, quasi metal. Ora è l’opposto dell’originale, ma ci sono riferimenti a situazioni attuali: “Ma niente sogni d’oro a sto cazzo di lavoro…”.

Quante copie ha venduto Mantra?
Non mi ricordo, ma credo intorno alle 25 o 30 mila. Che ai tempi erano i numeri che si cominciavano a fare fuori dai circuiti dei grandi cantautori o delle cose più pop. Mantra è stato uno dei primi dischi rock cantati in italiano pubblicati da una major, sulla nostra stessa etichetta c’erano i Casino Royale e i Negrita.

Vivevate quindi di musica in quel periodo?
Sì, facevamo i musicisti. Se non sbaglio nel 1994 abbiamo fatto 130 concerti, una media di uno ogni tre giorni. In quel momento il singolo Sogna stava spaccando, c’era sempre più gente che ci seguiva. Per un gruppo come noi che arrivava dai centri sociali e dai piccoli club suonare davanti a 100 mila persone sul palco del Primo maggio è stata un’emozione molto molto forte. Eravamo così agitati, emozionati e carichi di adrenalina che abbiamo suonato tutto maluccio e a 150 km all’ora.

E nel 1995 è uscito Pyscorsonica: quest’anno è il 25esimo anniversario.
Un gran bel disco, registrato tutto al Jungle Sound. Un coito interrotto, nel senso che Edda smise di suonare con noi. Ha iniziato il tour e poi abbiamo continuato senza di lui, fu un trauma. Un cambio sostanziale perché Stefano era un frontman con una grande personalità: io già cantavo dei pezzi, ma il vero cantante dei Ritmo Tribale era lui. Abbiamo fatto tutto il ’96 e il ’97 con me alla voce, ce ne fottevamo dell’educazione promozionale e delle convenzioni.

Perché alla fine non c’è stato il successo commerciale?
Le major volevano aprirsi a nuovi artisti perché erano arrivati al limite con le vecchie situazioni. Credevano, sbagliando, che mettendo sotto contratto e pubblicando un disco dei Ritmo Tribale o dei Casino Royale potessero ottenere subito grandi numeri e successo commerciale, ma avevamo bisogno di tempo per esprimerci e allargare il pubblico. Da parte loro non c’è stata pazienza. E noi eravamo molto, troppo sicuri di noi stessi: visto a posteriori, siamo stati un po’ presuntuosi. Abbiamo sempre fatto di testa nostra. Ci siamo sempre rifiutati di farci produrre da qualcun altro convinti che da soli potevamo sviluppare al meglio le nostre idee. Tutto sommato eravamo un po’ chiusi: una cosa che non va d’accordo con l’aspirazione ad allargare gli orizzonti, musicali e di pubblico.

Ma sono stati davvero formidabili gli anni ’90 del rock in Italia?
È difficile parlarne perché sembra sempre di fare il vecchio che dice: “Che belli i miei tempi”. Ma negli anni ’90, non solo in Italia, ci fu un fiorire della musica in tante direzioni diverse, come era accaduto negli anni ’60: il rock era diventato un vocabolario mondiale contaminandosi con l’elettronica di artisti come Prodigy, Chemical Brothers e tutta la scena di Bristol. Per quanto riguarda l’Italia ci fu l’impressione che qualcosa potesse veramente cambiare e questo è il motivo del titolo di questo disco, La rivoluzione del giorno prima. Ci piaceva la situazione: era tutto enorme, tutto oltre. Ci siamo fermati a guardarci allo specchio, però l’immagine cominciava a distorcersi. E abbiamo perso il momento per fare davvero la rivoluzione.

Tornerete mai a suonare con Edda?
Anche questa è una cosa che non si può programmare. La sua carriera solista è eccellente, ha avuto parecchio successo quindi credo abbia trovato una sua dimensione artistica. Anche dal punto di vista musicale i discorsi sono molto differenti. Non è una cosa che è all’ordine del giorno.

Considerata l’attuale crisi, come vedi il prossimo futuro, anche per quanto riguarda la promozione live del vostro nuovo disco?
Non si sa che tipo di impatto socio-economico avrà questa cosa, probabilmente molto grosso. Da un punto di vista della musica sta cambiando la fruizione, ma nessuno ha idea di come sarà vedere i concerti. In generale, qualcuno diceva che la pandemia avrebbe potuto forse renderci migliori. Ecco, se vedi com’è andata con il ritorno della ragazza rapita in Kenya capisci che l’atmosfera che si respira non è proprio di ritrovata unità o empatia aumentata dal fatto che in questo momento siamo tutti nella stessa merda.

Musica a parte, che lavoro fate?
Io faccio il giornalista, ma sto pensando a una terza vita. Briegel è un avvocato e in realtà si occupa di musica: segue alcuni artisti curando contratti, diritti, edizioni e cose simili. Talia fa il tatuatore. Rioda ha aperto un locale, è sempre stato molto bravo in cucina e ha altri progetti del genere. Alessandro il batterista è psicologo e insegnante. Ma restiamo una banda di scappati di casa.

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