Ricky Portera: «I Måneskin e Achille Lauro non dicono niente di nuovo» | Rolling Stone Italia
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Ricky Portera: «I Måneskin e Achille Lauro non dicono niente di nuovo»

Intervista-confessione con uno dei guitar hero italiani: l'amore-odio con Dalla, gli Stadio e il servilismo, i soldi sperperati, le donne, le follie di un rocker che quando ascolta la musica di oggi si deprime

Ricky Portera: «I Måneskin e Achille Lauro non dicono niente di nuovo»

Ricky Portera

Foto: Andrea Di Benedetto

«Il rock non è avere le chitarre distorte, ma è un modo di vivere». Ricky Portera ha sempre vissuto con questo spirito: un po’ folle e un po’ nomade, un po’ incazzato e un po’ gigione. Da vero romagnolo, il fascino femminile ha segnato le sue scelte, persino quelle politiche. Infatti, ci ha raccontato di aver «preso botte sia a sinistra che a destra» visto che si spostava da uno schieramento all’altro «in base a dove c’era una ragazza che mi piaceva». Fedele al “partito della gnocca” direbbe Vasco Rossi, che lui conosce da quando era bambino: «Se è tornato a cantare è anche grazie a me, quando ha visto le belle donne che venivano nei nostri camerini».

Nel frattempo è diventato uno dei chitarristi più noti del panorama musicale italiano: a 11 anni accompagnava già una band negli strip club del modenese («vederle nude mi ha mandato all’ospedale») e a 12 era considerato un enfant prodige. Poi la fondazione degli Stadio e la simbiosi umana e artistica con Lucio Dalla, con il quale ha lavorato 33 anni lasciando il segno nelle sue canzoni più famose, e ha poi continuato un po’ con tutti quelli che volevano impreziosire con un assolo unico i loro brani: da Finardi alla Bertè, da Ron a Venditti, fino a Freak Antoni, Marco Masini, Paola Turci, Alice e Anna Tatangelo. Senza dimenticare quattro album solisti di cui, però, «non si è accorto nessuno per varie sfighe».

Ci incontriamo al matrimonio di un suo amico, dove ha fissato l’appuntamento per questa intervista, e capisco subito che nonostante i 68 anni l’atteggiamento è ancora quello del rocker di razza. Il cameriere ci porta i caffè e lui lo chiede «corretto Jack Daniel’s». E anche se il cappello da cowboy ha lasciato il posto a un berretto da baseball, gli anelli enormi che indossa e i tatuaggi che dalle mani risalgono sugli avambracci sono la testimonianza di un passato che è difficile da cancellare. In disparte rispetto ai festeggiati, per quasi due ore parlerà di tutto: da quando la mamma gli spaccò in testa una chitarra per fargliela suonare, ai suoi riferimenti musicali: «Steve Vai dal vivo l’ho sopportato per dieci minuti». Naturalmente del rapporto fortissimo e altrettanto conflittuale con Dalla, al quale non risparmiava niente da vivo e neanche da morto: «Ci sono persone che traducono il potere in denaro, altre in potere sugli uomini. Hanno quella libidine lì e Lucio ce l’aveva». Ma dopo «essere stato estromesso senza neanche avvisarmi», gli scriverà una mail dolcissima che ancora gli mette la pelle d’oca: «Sarai sempre il mio chitarrista (se non ti chiamano prima gli AC/DC) anche in paradiso».

Ancora: la mancanza di stima per Francesco De Gregori («non è un grande uomo»), i Måneskin e Achille Lauro «cloni del passato», i soldi guadagnati e quasi tutti sperperati («sono uno dei più famosi e uno dei più poveri»). La conversione al buddismo che lo fa sentire in pace, ma non gli evita qualche incazzatura («sono buddista ma non sono fesso»). Ma il pensiero della fine, nonostante la reincarnazione (o proprio grazie ad essa), non lo spaventa: «Se potessi decidere come morire vorrei fare un frontale con un camion in Lamborghini a 260 all’ora. In alternativa ho la mia pistola Glock, nel caso non sia più in grado di vivere ci vuole un attimo».

Ricky, qual è stato tuo primo approccio con la musica?
A 4 anni. Avevo il desiderio di suonare la batteria, mi ispirava quello strumento. Sono figlio di un maresciallo dei carabinieri, quindi per la Befana chiedevo sempre una batteria in regalo. Allora con i tamburi di carta. Una sera i miei andarono a ballare a Vignola, regno delle ciliegie, e c’era una band con la batteria vera. Sono impazzito! Ho insistito con mia madre per chiedere al batterista di farmela provare e incredibilmente, dopo averci provato, portai un tempo. Tanto che il batterista chiese a mia madre: “Ma studia?”. Non avevo mai preso lezioni, così la mamma chiamò un insegnante di sax, che fortunatamente dopo tre lezioni non venne più, e qualche tempo dopo, con i miei cugini, andai a studiare canto. Dopo un anno sempre mia madre mi disse: «Impara anche la chitarra, così quando torniamo a Messina in spiaggia puoi suonarla».

È lì che è scattato qualcosa?
Non ancora, non mi piaceva, mi faceva venire le vesciche alle dita. Poi un giorno che dovevo preparare una lezione, e invece leggevo dei fumetti, la mamma mi passò dietro, prese la chitarra, per fortuna una Eko cartonata, e me la spaccò tra capo e collo. Lì è successo qualcosa. È diventata una fissazione. Sono arrivato a dormirci con la chitarra.

Padre maresciallo, mamma che ti spacca una chitarra in testa. Per reazione non potevi che diventare un rocker.
Lei suonava la fisarmonica e aveva delle reminiscenze musicali, per cui voleva trasferirmele. Fatto sta che mi ritrovai già a 12 anni a essere uno dei chitarristi più famosi di Modena.

Ma già prima hai raccontato che, a 11 anni, accompagnavi gli strip-tease nei locali…
Non ero ancora il chitarrista che diventai in seguito, ma è vero. Quando mi beccavano dovevo andare a casa. È stato uno choc con tutte quelle donne, son finito dal medico. A quei tempi levavano solo il reggiseno, però si giravano verso la band e io, naturalmente, sbagliavo tutti gli stacchi. Ma per fortuna si vedeva solo il seno, sennò sarei già morto. Dopo ho iniziato con le band rock e anche da quelle esperienze è nata la mia versatilità con la chitarra.

Quali sono stati i tuoi riferimenti iniziali?
Ho cominciato a vedere i concerti a Modena dove c’era un locale che si chiamava Bob 2000, che è stato fra i precursori per le esibizioni delle rock band. Ricordo John Mayall o gli Uriah Heep. Il periodo era quello di Woodstock, Who, Jimi Hendrix e Led Zeppelin, che poi mi cambiarono la vita. Ma l’inizio è stato con le canzoni dei Beatles come Girl, Michelle o Strawberry Fields Forever. Poi mi sono catapultato in brani come Good Times Bad Times dei Led Zeppelin e in Foxy Lady di Hendrix.

Hai mai conosciuto qualcuno di questi artisti?
I miei miti di allora no. Ma tempo dopo ho fatto un po’ di serate con Ian Paice dei Deep Purple. Oppure ho conosciuto Bryan Adams, un cantante che amo tutt’ora. Suonare con loro diventa tutta un’altra cosa.

Spesso sei stato associato a Steve Vai.
Non sono mai stato un mitomane della chitarra e nella mia vita ho avuto tre chitarristi importanti: Jeff Beck, Jimi Hendrix e Eddie Van Halen, quest’ultimo l’ho conobbi in Germania e mi regalò un suo body. Forse mi associano a Steve Vai perché un periodo diventai endorser delle sue chitarre. L’ho anche conosciuto, sono andato a due concerti, ma ho retto pochissimo. Non sempre i miti rispecchiano quelle che sono le tue esigenze emotive.

Come mai?
L’ho sentito prima dieci minuti e poi cinque minuti, poi il mito mi è caduto. Non perché non valga la pena di essere ascoltato, ma ci sono gli atleti che vanno alle olimpiadi e quelli che, pur con pari tecnica e bravura, vanno al circo. Uno ti vuole emozionare e uno ti vuole stupire. Siccome ho avuto un grande maestro come Lucio Dalla, lui mi ha insegnato che la musica è emozione, e comunicazione e non solo voler stupire. Così ho abbandonato tutta quella esagerazione tecnica. Però vedo che oggi sta un po’ tornando…

Sui social spopolano i chitarristi, anche giovanissimi, che suonano a velocità mostruose.
Li vedo anch’io, ma non servono a niente. Se ascolto Jeff Beck mi emoziona ancora. Come Jimi Hendrix in certe sue cose. Non in tutto perché, come altri, ha passato periodi di droga infiniti e quindi menate mentali incomprensibili. Ma quando sento i suoi pezzi migliori capisco che Dio esiste. A un concerto dei Pink Floyd a Modena, avevo mia figlia sulle spalle, e quando fecero Shine On You Crazy Diamond al il riff iniziale le ginocchia mi hanno ceduto. Per un periodo anch’io sono stato intrappolato nelle menate tecniche, poi ho abbandonato.

Oggi al matrimonio non ti esibisci per gli sposi?
Nooo, lasciami un po’ essere ospite senza dover ripagare con una suonata.

È un rischio che corri a ogni uscita pubblica…
Sempre… sempre… non va bene, perché anche il musicista ha bisogno di sentirsi normale.

Non ti chiederò cosa ne pensi del chitarrista che sta suonando in questo momento…
Oddio, no no. Io amo tutti, basta che non facciano cazzate. Per cazzate intendo il sapere quali sono i loro limiti e, nonostante questo, voler andare oltre. Io ho imparato cose fantastiche da tutti. Come da un ragazzino che aveva la chitarra in mano da tre mesi, quando facevo lezione. Bisogna avere l’umiltà di apprendere da chiunque. La mente aperta è la vittoria delle emozioni e della nostra professionalità.

Foto: Alex Ruffini

Torniamo al tuo passato. Hai vissuto il mitico ‘68.
Quante botte che ho preso…

Come mai?
Perché di volta in volta andavo a simpatie in base a dov’era la ragazzina che mi piaceva. Una volta a sinistra, una a destra… Io avevo 14 anni, non avevo le idee chiare, ma non le avevano neanche i più grandi.

Un po’ presto anche per aver provato l’amore libero.
A 14 anni era una utopia. Però l’ho provato lo stesso, perché lo facevo da solo. Più libero di così.

Hai parlato di Jimi Hendrix e dei suoi eccessi. Per tanto tempo si è creduto che il rock e l’uso di droghe dovessero essere strettamente connessi. È un mondo che hai conosciuto?
Sì, ma è tutta una illusione. Lo posso dire perché anch’io ho avuto esperienze del genere e ho creduto di suonare in maniera eccellente, poi rivedendomi facevo schifo. Hai persino l’illusione di sapere cos’è la verità. Oggi dico abbasso le droghe e viva la mente lucida. Nella musica e nella vita è sempre meglio essere presenti a se stessi e capire come “servire” gli artisti con i quali collabori.

Andiamo passo passo. Sei stato uno dei fondatori degli Stadio. Cosa ricordi di quel periodo?
Quella band è stata il regalo che ci fece Lucio Dalla. Venivamo dal tour di Banana Republic dove noi musicisti fummo un po’ bistrattati. È stato un tour tutto rivolto al loro guadagno, sia dei due artisti principali che degli impresari. A volte aprivo la porta e vedevo tavoloni pieni di soldi, mentre a noi musicisti arrivava poco o niente. Non dico le cifre perché mi vergogno di aver accettato quel compromesso, anche se prima dovrebbero vergognarsi loro.

Ci torneremo. Ma è vero che sei stato tu a consigliare Gaetano Curreri a Lucio Dalla?
È vero, ma ancora prima Gaetano mi aveva fatto passare da Modena a Bologna. Nella band Cinque Lire gli serviva un chitarrista e chiamò me. E quando a Lucio servì un tastierista io gli consigliai lui. Abbiamo formato gli Stadio che era una strana band perché ci gravitava sempre Lucio e quindi non avevamo una grande personalità. Quando ci proponevano qualcosa era sempre uno scambio con Lucio. Se pensi che Grande figlio di puttana ancora oggi la attribuiscono a Lucio, mentre ha scritto solo il testo, tra l’altro dedicandolo a me. Abbiamo fatto cose bellissime, però non avevamo una identità. Anche in tv doveva esserci sempre Lucio. Una volta al Festivalbar ci sono corsi dietro dei fan e intanto dicevano: «Ma chi sono? Ma chi sono?». Insomma, dopo un po’ ti cadono le braccia…

Grande figlio di puttana

Perché hai scelto di diventare buddista?
All’inizio per curiosità. Nel 1989 collaboravo con un bassista, meglio non fare nomi. Mi stupiva perché lo chiamavo per chiedergli qualsiasi cosa e mi diceva sempre grazie. Che cazzo avrà da ringraziarmi sempre, mi chiedevo. Un giorno ne abbiamo parlato e mi ha spiegato che si era fatto tutte le droghe possibili, poi ne era uscito, non grazie alla comunità, ma grazie al buddismo. Ho iniziato un po’ alla leggera, dopo qualche anno ho cominciato a percepire un senso di pace. Sono diventato meno stronzo ma, soprattutto, mi ha fatto capire la responsabilità di non fare del male a nessuno perché il male ritorna. Non mi faccio illusioni, ma ora ho una quiete interiore che prima non avevo, scattavo per tutto, sentivo dentro un subbuglio interiore.

L’ultima volta che ti sei incazzato?
L’altro giorno all’Autogrill. Abbiamo preso due panini e due bottigliette d’acqua e ci hanno chiesto 18 euro. «Glielo scaldo?», ha detto la signorina. Sì, ma senza il prosciutto crudo. Solo il pane. Invece ha scaldato tutto insieme. Il prosciutto è diventato bianco, il pane era della settimana prima. Allora sono andato alla cassa e gli ho detto: «Siete dei delinquenti!» e gliel’ho buttato nel cestino.

Allora anche i buddisti si incazzano…
Ci mancherebbe! Sennò sarei una ameba. Non mi incazzo più come prima se mi guardi storto, ma non sono uno che porge l’altra guancia. Sì, te la porgo dopo averti dato quattro manate. Un conto è essere buddisti e un conto è essere fessi. La stessa cosa mi era successa con Lucio Dalla negli anni ’80. Mangiamo in un ristorante, due spaghetti al pomodoro e due Coca Cola e ci chiedono 30 mila lire. E Lucio: «Posso fare una telefonata?». Era l’una di notte. Il ristoratore: «A quest’ora?». E lui: «Sì, perché voglio chiamare i carabinieri». Alla fine ci ha fatto pagare 15 mila lire.

Quindi credi nella reincarnazione.
Assolutamente sì. Anche se io sarò un caprone… presumo.

Ci hai mai pensato a come vorresti morire?
Guarda, a me piace correre in macchina, quindi se potessi decidere vorrei fare un frontale con un camion. Ma in maniera importante, con una Lamborghini a 260 all’ora. Mi devo schiantare e non deve rimanere niente. Perché ho il terrore di soffrire, di passare anni a letto a causa di malattie e operazioni. Voglio schiantarmi, questo sarebbe il mio desiderio. In alternativa, ho la mia pistola Glock e nel caso non sia più in grado di vivere ci vuole un attimo. Mio padre mi ha insegnato: «Un uomo deve vivere finché riesce a camminare sulle sue gambe e a non rompere i coglioni a nessuno, dopo deve morire». Sono d’accordo con lui. Non vorrei mai pesare sulle mie due figlie.

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