«Non senti Ringo in questo punto?». Rick Rubin è seduto in fondo al Luna Park, un locale notturno molto in voga a Los Angeles, e tamburella sul tavolo mentre Donovan, semidio del folk britannico anni ’60, prova i suoi nuovi brani. Rubin ascolta e prende appunti, riflettendo su come valorizzare al meglio nel 1995 la musica dell’Hurdy Gurdy Man. Alla fine del concerto Donovan gli chiede un parere. Quando Rubin accenna all’idea di coinvolgere Starr come batterista nel comeback album che sta producendo, Donovan delizia il suo produttore misticheggiante con racconti delle sue frequentazioni con i Beatles e il Maharishi Mahesh Yogi.
Rick Rubin e Donovan: un tempo questa coppia sarebbe stata semplicemente impensabile. Rubin, ragazzo ebreo dell’alta borghesia di Long Island, New York, appassionato di punk, è stato uno dei primi bianchi in America ad appassionarsi al rap. Dopo aver avviato la sua attività nella sua stanza del dormitorio della New York University all’inizio degli anni ’80, è diventato un magnate dell’hip hop come co-proprietario, insieme a Russell Simmons, della Def Jam Records. Ha anche prodotto l’influente Raising Hell dei Run-D.M.C. e il rivoluzionario Licensed to Ill dei Beastie Boys.
Nel 1987 si è separato da Simmons, si è trasferito a Los Angeles e ha fondato la sua etichetta, la Def American. Con la American (nel 1992 ha eliminato il Def dal nome) ha portato alla ribalta Slayer, Andrew Dice Clay, Sir Mix-a-Lot, i Black Crowes, Danzig, Johnny Cash, i Jayhawks e Pete Droge. Come produttore, ha lavorato a BloodSugarSexMagik dei Red Hot Chili Peppers, ad American Recordings di Johnny Cash, a Wildflowers di Tom Petty. Oltre a produrre Donovan per la American, di recente si è dedicato al nuovo dei Chili Peppers, One Hot Minute.
«Ha gusti musicali decisamente eclettici», dice Tom Petty. «È quasi incredibile che possa apprezzare così tanto gli Slayer e allo stesso tempo i Mamas and the Papas. Non avevo mai preso in considerazione la musica anni ’70 fino a quando non ho iniziato a frequentarlo. Avevo scritto una canzone intitolata Whatever Happened to Lonesome Dave su un membro dei Foghat e Rick ne era entusiasta. “Wow”, mi ha detto, “adoro i Foghat” e io ho dovuto confessargli che non li avevo mai ascoltati. Il giorno dopo si è presentato con il video di un loro concerto e alla fine un po’ mi sono appassionato al gruppo».
A 32 anni, Rubin è diventato una figura leggendaria anche nella sua città adottiva, Los Angeles. Lo si vede spesso guidare una Rolls-Royce nera per la città, con la musica a palla dai finestrini aperti. Personaggio affabile e pieno di contraddizioni, parla liberamente di tutto, dalla filosofia new age alla federazione di wrestling che possiede. «Rick è un grande uomo d’affari, ma solo perché vende musica», dice il produttore George Drakoulias (Black Crowes, Jayhawks) che ha visto Rubin muoversi e fare business fin dai tempi in cui studiavano insieme alla NYU. «Non sono sicuro che funzionerebbe se vendesse scarpe».
Come definiresti il tuo lavoro di produttore?
Essere al servizio della canzone e aiutare l’artista ad arrivare al pubblico. Aiutarlo a scegliere il materiale, arrangiarlo nel miglior modo possibile, farlo funzionare dal punto di vista della performance, in modo che risulti giusto.
A differenza di Phil Spector, non sei considerato uno che entra in studio per dare ai dischi un suono alla Rick Rubin. È intenzionale?
Credo di sì. C’è una certa coerenza nella maggior parte dei dischi che faccio, una specie di filo conduttore che li accomuna e che non ha necessariamente a che fare col suono. Penso ci sia. Spero ci sia.
Hai mai provato a ricreare il suono di un’altra epoca?
Ricrearlo no, ma ci sono trucchetti che si possono adottare. Ad esempio, You Don’t Know How It Feels di Tom Petty era decisamente folk. Ho pensato che avremmo dovuto dargli il feeling di una vecchia canzone di Steve Miller. Non credo che suoni come Steve Miller, ma tutta la storia della musica è un catalogo da sfogliare e dire: ecco, questo ha un bel feeling.
Da fan del punk vecchia scuola, ti identifichi con band come Green Day o Offspring?
Non proprio. D’altra parte, non ho mai pensato che le band di Seattle o i gruppi punk degli ultimi tempi significassero granché, semplicemente perché erano tutte cose che ho già sentito e che mi sono sembrate migliori la prima volta. Come la musica industrial che è in circolazione da tipo 12 anni e solo con l’arrivo dei Nine Inch Nails Trent si è riusciti a trascendere il genere. Lo stesso potrebbe valere per il punk. Forse ci è voluto Kurt Cobain per abbattere il muro e portare il punk-rock nel mainstream. In una certa misura, anche i Beastie Boys lo hanno fatto. Anche se lo hanno fatto sotto forma di rap, avevano un’energia punk. Per me il rap è sempre stato il punk-rock nero. Forse è per questo che ora mi interessa meno il rap, perché non c’è più questo aspetto.
Quando hai perso interesse per il rap?
Probabilmente tra il primo e il secondo album dei Public Enemy. Ma non mi sembra tanto di aver perso interesse per il rap, è il rap che mi ha abbandonato. Quello che mi piaceva del rap – il senso di comunità con persone che cercavano di realizzare grandi dischi, sia per ragioni artistiche che competitive – è diventato un modo per far soldi. Quando ho iniziato, nessuno aveva davvero guadagnato soldi facendolo, non era quello l’obiettivo. Man mano che cresceva, diventava meno interessante. I nuovi progetti sembravano fatti da gente che capitalizzava ciò che qualcun altro aveva fatto. Erano le intenzioni che sembravano sbagliate.
Perché il tuo rapporto con i Beastie Boys si è deteriorato?
Perché alla fine è diventata una questione di soldi, ma penso che sia iniziato più dal fatto che io ottenevo il merito per la musica e la gente pensava che loro fossero i miei burattini.
Cosa ne pensi dei loro dischi da allora?
Mi piacciono tutti i dischi che hanno fatto, ma penso che solo negli ultimi due abbiamo davvero sentito i Beastie Boys. Penso di aver avuto una grande influenza sul primo album e Matt Dike ha avuto una grande influenza sul secondo (Paul’s Boutique, ndr), che ho adorato. Penso che gli ultimi due dischi siano davvero dei Beastie Boys, sono fantastici.
Quali altri album rap ti hanno colpito ultimamente?
Sono pochi e rari. Penso che il miglior nuovo artista rap sia Beck. È il mio preferito. È fantastico. Mi piace tutto quello che ha pubblicato.
Qualche tempo fa hai fatto sì che aprisse un concerto di Johnny Cash. Com’è andata?
È stato incredibile vedere Beck in bilico tra genialità e distruzione totale. Metà del pubblico era composto da giovani pronti a lasciarsi andare, l’altra metà da fan adulti di Cash che non volevano avere nulla a che fare con lui. Una psicologia di massa interessante. Ho mandato a Cash una cassetta di Beck in anticipo e lui l’ha odiata. Però nel backstage, dopo l’esibizione, mi ha detto: «Sai, è bravo».
Come persona che ha avuto molto successo facendo cose che una volta erano considerate alternative, sei sorpreso di come sia cambiato tutto?
È strano. Quello che era fuori dal mainstream ora è mainstream. Immagino sia per questo che è tornato anche il folk. La cosa più punk-rock che si possa fare ora è registrare un disco folk.
Alcuni ti attribuiscono il merito di aver orchestrato il successo dei Red Hot Chili Peppers. Sei stato tu a convincerli a fare Under the Bridge?
Niente affatto. Ero a casa di Anthony a sfogliare i suoi testi e gli ho chiesto: «Cos’è questa?». Me l’ha cantata e ho pensato che fosse fantastica e che avremmo dovuto registrarla. E lui: «Sul serio? Pensi vada bene?». Il punto è che se una cosa è buona, allora va bene, non devi pensare se si adatta al contesto dei Chili Peppers.
Discuti gli album con l’artista prima di realizzarli?
Assolutamente sì, solo per assicurarmi che siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Altrimenti sarebbe frustrante per tutti.
E l’album di solito finisce per seguire il piano?
Prende una sua direzione, non va mai come previsto. Con Petty volevamo salvaguardare l’integrità delle canzoni. Full Moon Fever è stato il disco che mi ha fatto appassionare a Tom. Prima di allora, mi piacevano cose più estreme. Abbiamo parlato di avere canzoni altrettanto belle, ma di rendere il disco più rock e meno pop, con una maggiore interazione tra i musicisti. E il risultato è stato più o meno quello.
Lavori con gente come Cash e Donovan, ti preoccupa essere etichettato come il salvatore delle leggende nella terza età?
Ho sempre fatto solo gli album che volevo fare, senza pensarci troppo su. E ha funzionato. Il fatto di realizzare contemporaneamente un album di Donovan e uno dei Chili Peppers rende il tutto più divertente.
Ti senti mai intimidito quando devi dire a uno come Johnny Cash cosa deve fare?
Assolutamente no. Per come la vedo io, non si tratta di dire a qualcuno che fare, ma di dare dei suggerimenti. Raramente le cose diventano difficili.
Tom Petty mi ha detto che la ragione per cui ti alzi dal letto la mattina è la musica. È così?
Io resto a letto la mattina per la musica (ride). È una cosa totalizzante. Non molto tempo fa stavo guidando e ascoltando I Believe in You di Neil Young, è stato un momento magico in cui mi sono sentito dentro la musica. Ho dovuto accostare. Mi piacerebbe fare qualcosa, qualsiasi cosa con Neil Young. Ecco, se c’è qualcuno da cui essere intimiditi, è lui.
C’è qualcun altro nella tua lista dei desideri?
Mi piacerebbe registrare un disco con i Nine Inch Nails. Penso che potrei aiutare Reznor a realizzare un album molto buono, diverso da quello che potrebbe fare da solo.
Parlami di Infinite Zero, l’etichetta che hai fondato con Henry Rollins. Come è nata l’idea?
Eravamo a pranzo e lui mi ha detto che qualcuno avrebbe dovuto fare una cosa del genere. Abbiamo deciso di farla noi. Non credo che ci saranno molti soldi da guadagnare, ma ci sono dischi che meritano di essere nei negozi e che non lo sono, come il primo dei Gang of Four, James White and the Blacks, i Contortions. Stiamo pubblicando il live dei Trouble Funk, il miglior disco go-go che ci sia.
La censura non ti piace, ma ti sei pentito di qualcosa che hai pubblicato?
Tutto merita di esistere e le questioni relative alla censura poi scompaiono. Le cose buone, le cose diverse vengono sempre represse, messe da parte. Molte volte la gente ha messo in discussione ciò che ho fatto. Quando ho smesso di produrre dischi rap e ho iniziato a produrre dischi rock – avevo appena lasciato la Def Jam e iniziato a lavorare con la Geffen – la gente pensava che stessi sprecando il mio tempo. Ma ho continuato a cercare di fare le cose che mi interessavano.
Pensando ad artisti più provocatori come Danzig e Slayer, qualcuno di loro potrebbe scrivere una canzone che ti offende?
Niente mi scandalizza più di tanto. Mi offende di più un lavoro scadente che un lavoro politicamente scorretto. Quando qualcuno fa un disco scadente, ecco, questo mi offende.
È per questo che hai pubblicato tutti quegli album di Andrew Dice Clay?
Sono un suo fan. Lo trovo divertente.
Le polemiche hanno rovinato la sua carriera?
No, penso che ciò che ha danneggiato maggiormente la sua carriera sia stato realizzare un film (The Adventures of Ford Fairlane, ndr) che non era granché. Questo gli ha fatto molto male.
Come funzionava il tuo rapporto con Russell Simmons?
Non ha mai smesso di funzionare. Siamo buoni amici dal giorno in cui ci siamo conosciuti. La rottura della nostra partnership ha a che fare con divergenze commerciali e creative, ma ci siamo sempre piaciuti. È un ottimo promotore. Il motivo per cui la partnership funzionava era che lui la rendeva autentica. Aveva un nome nella comunità rap, mentre io ero un ragazzino in un dormitorio. Mi ha dato credibilità.
Ora che sei ricco, come fai a mantenere la tua sensibilità di strada?
Non ci provo nemmeno. Fortunatamente, dato che ho realizzato dischi che la gente considera credibili, molti nuovi artisti sono emersi ascoltando la mia musica. È un buon punto di partenza.
La meditazione fa parte della tua vita. Pensi che i Beatles avessero davvero capito qualcosa con il Maharishi?
Sicuramente sì. Non voglio dire che non sia per tutti, perché penso che lo sia. George Harrison è ancora attivamente coinvolto. L’ultima volta che è stato in città, sono andato con lui alla libreria Bodhi Tree e mi ha mostrato il libro che lo ha ispirato a scrivere My Sweet Lord.
Trovi che l’assalto sonoro di band come gli Slayer abbia una qualche qualità meditativa?
Sì. Se sei un ragazzino di 14 anni, metti su un disco degli Slayer e ti travolge proprio come la meditazione. Non riesci a pensare ad altro.
Ti preoccupa il messaggio che gli Slayer trasmettono ai quattordicenni emarginati e alienati?
Quel tipo di pubblico è parte integrante della storia del rock. Il rock si basa sull’alienazione, sull’emarginazione, sull’odio verso i genitori e l’autorità. È una forma di musica ribelle che si spinge oltre i limiti. Un disco degli Slayer dà probabilmente più gioia a un ragazzo emarginato di qualunque altra cosa. Ho visto molte persone infelici ai concerti degli Slayer, persone che non hanno nulla per cui vivere. La musica riflette chi siamo.
