Iconico e insieme inafferrabile, Richard Ashcroft ha fatto della musica un atto di fede, di resistenza e di ricerca interiore. Ex frontman dei Verve, autore di inni generazionali come Bitter Sweet Symphony e The Drugs Don’t Work, è una delle ultime vere rockstar britanniche, un artista capace di unire rabbia e spiritualità, misticismo e concretezza, passato e presente. Con Lovin’ You, il suo nuovo album, torna a mettere al centro la vulnerabilità, l’amore e la potenza redentrice delle canzoni in un lavoro intimo e allo stesso tempo vitale, attraversato da una luce e da uno spirito contagioso.
Dopo un’estate che lo ha visto condividere il palco con gli Oasis (che raggiungerà anche nei prossimi cinque concerti in Argentina, Cile, Brasile), Ashcroft sembra oggi particolarmente consapevole e ispirato. Parla con lucidità del suo percorso, della libertà creativa che rivendica da sempre, del legame con maestri come George Harrison e di quella fame che non si è mai placata: la voglia di scrivere ancora, e meglio, le canzoni più belle della sua vita.
Lovin’ You è un album profondamente intimo, ma allo stesso tempo aperto al mondo. Qual è stata la scintilla che ha fatto partire tutto?
È iniziato in modo semplice, quasi per caso, qualche anno fa. Ho trovato un vecchio loop di Love and Affection di Joan Armatrading (che Ashcroft ha usato nel singolo Lover, ndr) che ha dato il via a una catena di ispirazioni. In quel momento avevo in mente un disco fatto quasi interamente di campionamenti, poi è arrivato il Covid, il mondo si è fermato e dentro di me qualcosa è cambiato. Ho capito che non potevo limitarmi a riflettere la follia e la tristezza di quegli anni, che dovevo andare nella direzione opposta: creare qualcosa che facesse bene, che trasmettesse energia positiva e voglia di vivere. Negli ultimi anni abbiamo tutti vissuto momenti di smarrimento, sentivo il bisogno di reagire. Scrivere Lovin’ You è stato un atto di resistenza alla negatività. Non volevo fare un disco cupo o introspettivo fino alla disperazione. Volevo ricordare a me stesso e a chi mi ascolta che si può ancora trovare luce, amore e bellezza, anche quando il mondo sembra crollare.
Il disco è un viaggio tra generi: elettronica, folk, soul, pop, persino hip hop. Sembri ancora meno legato alle convenzioni e alle aspettative, con l’unico faro della libertà sonora assoluta.
È una cosa che ho sempre avuto dentro. Non mi è mai interessato appartenere a una scena o a un genere. Mi piacciono i dischi che ti sorprendono, quelli dove ogni brano ti porta altrove. In questo senso Screamadelica dei Primal Scream è stato un punto di riferimento: un album in cui un beat psichedelico poteva convivere con una ballata degna degli Stones. Io volevo quella stessa libertà. In Lovin’ You c’è di tutto: elettronica francese, chitarre country, ritmi hip hop, campionamenti folk. La cosa che li unisce è la mia voce, la mia anima. Se posso ascoltare un pezzo dei Daft Punk e poi uno di George Jones nella stessa playlist, allora posso anche metterli nello stesso disco. Credo che la vera modernità sia questa: sentirsi liberi, non dover più spiegare le proprie scelte.
Molti brani del disco sembrano agli antipodi, penso soprattutto a due canzoni come I’m a Rebel e Out of These Blues. Non hai paura che pezzi musicalmente così differenti possano inficiare la coerenza del disco?
(Sorride) Può darsi. Ma in fondo non c’è contraddizione: rappresentano due parti complementari di me. I’m a Rebel è istintiva, impulsiva, quasi primitiva. L’ho tenuta nel cassetto per anni, ma continuava a tornarmi in testa. Sentivo che era arrivato il suo momento e quando ho messo insieme il resto del disco ho capito che ci stava perfettamente. Out of These Blues, invece, rappresenta la mia parte più riflessiva, quella che cerca la pace dopo il caos. Vivere e creare significa convivere con queste due energie: la ribellione e la resa, l’istinto e la contemplazione. Metterle nello stesso disco è stato come accettare tutte le mie sfaccettature, senza scegliere quale parte di me mostrare.
C’è una spiritualità dolce in canzoni come Find Another Reason. Mi ha fatto pensare a George Harrison, a qualcosa del suo Living in the Material World. Ti riconosci in quella influenza?
Assolutamente. George è stato un maestro per me, non solo musicalmente, ma come essere umano. Era impegnato costantemente in un viaggio spirituale e creativo, e riusciva a esprimere tutto questo nelle sue canzoni con una sincerità disarmante. Dopo i Beatles ha liberato una quantità incredibile di musica e lo ha fatto senza paura, avendo fede nel proprio cammino. Mi affascinava il modo in cui riusciva a unire la profondità e la melodia: le sue canzoni ti colpivano anche se non capivi subito cosa volevano dire. Ti restavano dentro. E soprattutto, George metteva amore nel mondo, nel senso più puro. Credo che l’arte dovrebbe fare questo: aggiungere amore al rumore.
Foto: Wolfie Kutner
Ti capita di pensare a Lovin’ You come a una nuova tappa nella tua carriera o come a un’opera indipendente?
Entrambe le cose. È un disco che afferma la mia libertà, ma anche una piattaforma per quello che verrà. Molti pensano che quando un artista supera una certa età, la sua fiamma creativa si affievolisca. Io credo l’esatto contrario. Lovin’ You dimostra che puoi continuare a evolverti, a cercare nuovi suoni e nuovi modi di esprimerti. Brani come Lover, Lovin’ You, I’m a Rebel sono contemporanei, ma anche senza tempo. Non puoi collocarli in un’epoca precisa ed è questo il bello: l’arte non ha età, solo verità.
Ti senti ancora parte della musica di oggi, di questa scena in continua evoluzione?
Essere moderni non ha nulla a che fare con la tecnologia. Non serve l’ultima macchina o il plug-in più costoso per esserlo. Essere moderni significa essere autentici, vivi, presenti. Io posso amare un produttore rap per la sua innovazione e allo stesso tempo commuovermi ascoltando un artista folk con solo una chitarra e la voce. Tutto è moderno se è reale. Per me la musica non è una questione di forma. Finché riesco a scrivere qualcosa che mi fa sentire vivo, finché riesco a salire su un palco e guardare le persone negli occhi, allora sono parte del presente.
Quest’estate hai aperto per gli Oasis in quello che per molti è stato un momento storico. Che esperienza è stata?
È stato incredibile, emozionante e, in un certo senso, liberatorio. Ho sentito il potere delle mie canzoni di un tempo, ma anche la forza di quelle nuove. È come se si fossero incontrate in un unico flusso, senza passato né futuro. Con Liam c’è un legame autentico, fatto di rispetto e di storia condivisa. Abbiamo vissuto un’epoca in cui sembrava nuovamente che la musica potesse cambiare il mondo e ritrovarsi sullo stesso palco, dopo tutto questo tempo, è stato come chiudere un cerchio. Con gratitudine più che con nostalgia. Me lo sono goduto e basta.
Con Lovin’ You sembri avere una nuova fame, quasi una nuova missione.
Esatto. Voglio scrivere le canzoni migliori della mia vita. Non per vanità, ma perché sento che è il momento. Ho visto cosa può fare una canzone: può cambiare una giornata, un pensiero, una vita. Non ho studiato musica, non sono un virtuoso. Ho sempre avuto solo l’istinto e l’anima. E se sono arrivato fin qui, è perché ho creduto nel potere della sincerità. Ora voglio mettere tutta quella esperienza, quel fuoco, in nuovi brani. E poi, magari, un giorno, sparire nel tramonto sapendo di aver lasciato qualcosa di vero.
Hai detto che Lovin’ You è in un certo senso la colonna sonora della vita. Quando scrivi pensi più a raccontare te stesso o a creare qualcosa che possa appartenere anche agli altri?
Penso che ogni canzone nasca da un punto di verità personale, ma se rimane solo tua non serve a niente. Scrivere per me è come scattare una fotografia dell’anima: immortali un’emozione, un istante e poi lo lasci andare nel mondo. Quella foto non ti appartiene più, diventa di chi la guarda, o di chi la ascolta. Mi piace l’idea che una canzone scritta in una stanza in silenzio possa arrivare a qualcuno dall’altra parte del pianeta e cambiare la sua giornata. Non c’è nulla di più potente. È per questo che non ho mai smesso di scrivere: perché ogni volta che una persona si riconosce in una mia canzone, quella canzone torna a vivere, e anche io con lei.
I tuoi concerti hanno sempre avuto qualcosa di mistico, quasi rituale. Cosa rappresenta per te oggi la dimensione live?
È la mia chiesa, se vuoi chiamarla così. È il posto dove tutto diventa reale: le parole, le emozioni, il sudore, la connessione. Quando sono sul palco non sto solo eseguendo un brano, sto cercando la verità di quel momento. Non importa quante volte ho suonato Bitter Sweet Symphony o Lucky Man: ogni volta è diversa, perché diverso è il pubblico, l’energia, la vita che ci scorre addosso. È come se ogni canzone rinascesse davanti ai miei occhi. E quando vedo la gente che canta, che si lascia andare, capisco che quella forza non è mia: è della musica. Io sono solo un tramite, un veicolo. È lì che tutto ha senso ed è per questo che, dopo tanti anni, salire su un palco mi emoziona ancora come la prima volta.
Guardando indietro alla tua carriera, dai Verve ai dischi solisti fino a Lovin’ You, che rapporto hai oggi con il tempo e con la memoria? Ti senti in pace col passato?
Il passato è una parte di me, ma non mi definisce. È il terreno da cui continuo a fiorire, non la gabbia in cui restare. Non sono più il ragazzo di Urban Hymns, ma porto ancora dentro di me quella fame, quella urgenza. Solo che ora la direziono in modo diverso, più consapevole. Credo che la memoria serva a ricordarti chi sei stato, ma anche a mostrarti quanto sei cambiato. E questa è una cosa bellissima: poter guardare indietro senza rimpianti, riconoscere le cicatrici, e capire che tutto ti ha portato qui. Ogni disco è una nuova stagione della mia vita. Lovin’ You non è nostalgia: è speranza. È il suono di qualcuno che ha vissuto, che ha amato, che ha perso, ma che continua a credere nella possibilità di un domani luminoso.
C’è un filo che lega Bitter Sweet Symphony a Lovin’ You?
Sì, assolutamente. È quella tensione costante tra dolore e bellezza. Bitter Sweet Symphony era costruita su un campione, ma dentro c’era l’anima. È la stessa filosofia che mi guida oggi: prendere qualcosa che esiste — un’emozione, un frammento di realtà — e trasformarlo in qualcosa di nuovo. La mia musica è sempre stata questo: una colonna sonora della vita, con le sue contraddizioni. Non ho mai voluto semplificare o nascondere le sfumature. La verità è che la vita è amara e dolce insieme, e la musica serve a ricordarcelo.
E adesso, cosa ti aspetta?
Continuare. Lovin’ You non è l’inizio di un nuovo capitolo. Ogni disco è una tappa di un viaggio che non finisce mai. Voglio continuare a scrivere, a cercare, a migliorarmi. Finché riuscirò a farlo, sarò dove devo essere.
