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Riccardo Sinigallia: «Contro la dittatura del mercato scelgo l’improvvisazione»

Pensava di mollare il mondo della musica che non riconosce più, poi ci ha ripensato. Ora, dopo la pandemia, riparte da un progetto live chiamato On con Adriano Viterbini e Ice One

Foto: Fabio Lovino

La pandemia ha penalizzato il settore degli spettacoli, che cerca di reagire. Lo dimostra una iniziativa come Biglia – Palchi in pista, il nuovo circuito di Ater Fondazione in Emilia-Romagna dedicato alla musica dal vivo, grazie al quale quattro live club e due teatri uniscono progettazione e competenze artistiche per rispondere alla crisi del settore all’insegna di contenuti inediti, sperimentazioni e innovazione musicale. A inaugurarlo all’Off di Modena sarà il progetto On, originale e potente trio composto da Riccardo Sinigallia, Adriano Viterbini e Ice One. Quattro live (gli altri sono a Ravenna, Cavriago e Bologna) caratterizzati dall’installazione di schermi su cui saranno proiettate le immagini in diretta delle loro mani sugli strumenti e le grafiche del suono (come oscilloscopi e analizzatori di spettro), con un coinvolgimento delle persone in sala. Il tutto nell’ambito dell’improvvisazione pura.

Per l’occasione, abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Riccardo Sinigallia, uno degli artisti più rappresentativi del panorama italiano, sia con i suoi dischi – alcuni dei quali sono vere e proprie perle di cantautorato – sia attraverso il lavoro svolto come produttore di colleghi come Max Gazzè, Niccolò Fabi, Tiromancino, Motta e persino Mina e Celentano (su Amami amami, inclusa nell’album Le migliori del 2016). Pochi anni fa aveva pensato di smettere con la musica e cambiare mestiere, ma grazie a Sanremo è riuscito a trovare una stabilità «per poter mantenere la famiglia» e oggi, nonostante le difficoltà del post-pandemia e la dittatura del mercato discografico sempre presente, vede che qualcosa si sta muovendo. Soprattutto grazie alla rinnovata sensibilità del pubblico nel quale percepisce «la necessità di setacciare meglio gli ascolti».

Riccardo, in che fase ti trovi della tua carriera?
In continuo movimento, per citare dei vecchi amici (è il titolo dell’album dei Tiromancino del 2002, ndr). Diciamo che a 50 anni posso dire di essere un artista, forse. Anzi, con un certo margine di sicurezza. Per cui sono sempre al lavoro su qualche progetto. Adesso mi è tornata la passione per i modulari, anche se l’elettronica mi interessa da sempre, ma li sto applicando anche per esperimenti su canzoni o colonne sonore. Infatti, ho sentito la necessità di mettere in piedi progetto On nel quale l’improvvisazione mi consentisse di esprimermi nel modo più naturale possibile.

Faccio un passo indietro, visto che nel 2014 hai dichiarato di aver pensato di smettere e di cambiare lavoro. Era il periodo in cui la musica si spostava sulle piattaforme digitali. Dipendeva anche da questo?
In quel periodo non era tanto la frustrazione per l’avanzata di internet. Anzi, ho sempre visto nel web una occasione in più. Però mi ero ritrovato in una fase di dittatura del mercato discografico, anche se estenderei il concetto ad altri settori. Nello specifico della discografia, tutto ciò che era una libera espressione veniva catalogato a priori come inutile e poco interessante. Quindi mi sono fatto delle domande, avendo due figli, e ho pensato, come è giusto che sia, di trovarmi un altro lavoro.

E poi cosa ti ha fatto desistere?
Il fatto di aver mandato un pezzo a Sanremo, con Fabio Fazio e Stefano Senardi che si sono appassionati alla canzone e alla storia che la precedeva. Quella circostanza mi ha cambiato la vita, perché poi mi sono arrivate diverse opportunità, tra colonne sonore e produzioni. Ho trovato queste altre attività lavorative sempre nella musica riuscendo a sostentarmi, pur mantenendo la mia libertà artistica personale.

Adriano Viterbini, Ice One, Riccardo Sinigallia. Foto press

Ma a quasi dieci anni di distanza quella “dittatura del mercato discografico” ancora esiste?
La mia sensazione, che non vuol essere una verità assoluta, è che ci sia sempre. L’Italia è un po’ l’apice della sottocultura musicale. Siamo sudditi del mercato discografico inglese e statunitense, per cui la nostra cultura riflette questa sudditanza, anche in modo ridicolo. È un po’ la condanna di chi vorrebbe fare musica autentica nel nostro Paese. Con il tempo, ho capito che forse può essere una opportunità, cioè un perno al quale applicare una tensione, che per esempio non è possibile nei Paesi anglosassoni dove è già possibile fare musica autentica e con un grande pubblico a disposizione. È un discorso complesso, però la dittatura c’è sempre stata e sempre ci sarà. Ma con la pandemia è tornata la necessità di setacciare un po’ meglio gli ascolti e le percezioni.

Cosa ti fa pensare che sia tornata questa necessità?
Me ne sono accorto dopo i concerti questa estate, oppure andando in giro in auto con la radio sempre accesa. Mi sembra evidente che alcuni schemi radiofonici e compositivi abbiano ormai poco senso dopo tutto quello che è successo. E questo aspetto si riflette nelle orecchie del pubblico quando suoni dal vivo, certamente non so quanto potrà durare.

Hai prodotto alcuni tra i dischi più belli degli ultimi vent’anni in Italia, difficile persino citarli tutti. C’è un segreto nel riuscire di volta in volta a valorizzare le ispirazioni artistiche di altri colleghi?
Non ci sono segreti, ci sono però ricorrenze nell’approccio. Una di queste, che ho sempre avuto e negli anni e con l’esperienza è diventata una sicurezza deontologica, è quella di capire cosa l’artista con cui decido di fare un viaggio ha in testa. Qual è il suo obiettivo, affinché non si generino equivoci successivi. Spesso gli artisti arrivano dicendo di voler fare bei dischi, mentre invece poi scopri che cercano solo il successo. Ed è chiaro che i due aspetti non sempre vanno a braccetto.

Capita così spesso che cerchino solo il successo?
Ormai la maggior parte dei cantanti e dei cantautori fanno canzoni e dischi con il presupposto di scalare le classifiche, non di realizzare grandi opere. Allora, una volta chiarito di voler fare un viaggio libero per arrivare a un’opera autentica, per sintetizzare, a quel punto cerco di essere l’interlocutore migliore per valorizzare questa autenticità. Se l’obiettivo è altro, allora le riflessioni diventano di diverso tipo e anche il mio supporto cambia notevolmente.

Ti è mai capitato di dire dei no importanti?
Ho detto dei no molto importanti, in questo senso. Ma non è mai arrivato da me un artista dicendo «voglio fare un successo». Diciamo che lo percepisci in base a quello che dice e alla sua storia. Non c’è niente di male, solo che stabilisco se voler compiere quel tipo di viaggio o meno.

Da produttore immagino ti arriveranno tantissimi progetti ancora in divenire. Ce n’è qualcuno che ti ha davvero stupito?
Ormai ascolto quasi solo musica di artisti che mi contattano. Uno si chiama Checco Curci e scrive canzoni davvero molto belle. Un altro è un ragazzo giovanissimo, con il quale sto cominciando a lavorare perché mi ha talmente colpito che ho deciso di dargli una mano. Si chiama Matteo Orsi. I loro lavori sono ancora inediti, ma a breve li potrete ascoltare.

Intanto, da questa sera e per altre quattro date, potremo ascoltarti live nell’ambito del progetto Biglia. Prima della pandemia si era un po’ persa la collaborazione tra club e teatri, ma forse questo è uno degli effetti delle nuove necessità che hai percepito.
Credo che sia il riflesso di ciò che dicevamo prima. Le persone hanno rimesso in moto i cervelli, per cui i creativi e gli addetti ai lavori hanno percepito l’esigenza di offrire qualcosa di nuovo al pubblico. Questa è una delle dimostrazioni. E così è nata una iniziativa del genere, che accoglie un gruppo di improvvisazione molto sperimentale, tanto che il concerto non sappiamo neppure se sarà più o meno piacevole, ma ci permette di avere già quattro concerti in Emilia-Romagna. È fantastico.

Non solo sperimentazione, anche improvvisazione. Stiamo tornando a un’età dell’oro della musica?
Noi abbiamo come prerogativa non tanto quella delle jam session dove ci si suona un po’ addosso, quanto quella di mettere al centro della nostra proposta una vibrazione collettiva. La parte emotiva e non tecnica o virtuosa. Vorremmo generare musiche, pur improvvisando, che siano emotivamente condivisibili. Però è vero, negli ultimi anni c’è stato poco coraggio, sia da parte degli artisti che degli organizzatori, nonostante ci siano sempre state scene di spessore nell’improvvisazione, dal jazz all’elettronica. Purtroppo, erano considerate più all’estero che in Italia. In questo, nei meravigliosi anni ’70, avevano anche un po’ esagerato. Ora è il momento di rigenerare quello spirito positivo, rimodulandolo il tutto sulla condivisione e sulla fruizione da parte del pubblico.

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