Riccardo Cocciante: «Farei volentieri il direttore artistico di Sanremo» | Rolling Stone Italia
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Riccardo Cocciante: «Farei volentieri il direttore artistico di Sanremo»

L'ex coach di The voice of Italy torna in Italia con il suo ‘Notre Dame de Paris’, opera in cui racconta gli esclusi e la diversità: «Il mondo di Quasimodo è lo stesso in cui stiamo vivendo oggi, non cambierà mai»

Riccardo Cocciante: «Farei volentieri il direttore artistico di Sanremo»

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Riccardo Cocciante

Se dico Quando finisce un amore, a chi pensate? E Bella senz’anima, Margherita e Se stiamo insieme? Sì, tutte le strade portano a lui, Riccardo Cocciante. Uno dei cantautori più sensibili che abbiamo. Un artista che ha saputo reinventarsi e iniziare una carriera come compositore di opere popolari tipo Notre-Dame de Paris, che ritorna a girare l’Italia dal 13 settembre (da Pesaro). Il cast originale c’è quasi tutto: da Giò Di Tonno a Graziano Galatone, da Matteo Setti a Vittorio Matteucci. All’appello manca Lola Ponce. Al suo posto, Elhaida Dani. Prima vincitrice di The Voice of Italy. Ovviamente, nel talent, il suo coach era Cocciante che, dopo lo show, le regalò il ruolo per la versione francese del fortunato spettacolo.

Ora è tempo di tornare in Italia, ma soprattutto di parlare con Cocciante di Notre-Dame, ma non solo di quello: Notre-Dame de Paris parla di sans-papier, quelle persone che stavano a Parigi, senza un valido titolo di soggiorno. Un’immagine che ci riporta immediatamente a quello che si sta vivendo anche nel nostro Paese.

Si può dire che Notre-Dame de Paris sia un’opera politica?

No, rifiuto il fatto politico. È un’opera, semmai, con una storia d’amore e un fatto sociale. In Notre-Dame de Paris vediamo la differenza umana. Ogni personaggio combatte con la sua diversità e con la difficoltà di inserirsi nella società. Quasimodo, poi, è il diverso del diverso: lui, deforme, non può sperare di avere un contatto con Esmeralda. E quindi con il mondo.

E degli altri personaggi, che mi dice?
Frollo è diverso perché è un prete che cade nella trappola dell’amore, Esmeralda è diversa perché è una zingara. In fondo rappresenta lo straniero che vive in una città.

C’è anche Clopin, a capo dei sans-papier.
È il rappresentante sociale dell’epoca che poi, guarda un po’, si rispecchia con quello che stiamo vivendo oggi. Il mondo non cambia mai. Tutti i problemi sembra si possano risolvere, ma alla fine si parla di stranieri che hanno difficoltà di inclusione in una società che non li ama molto, però piano piano riescono a inserirsi. L’opera è bella quando racconta fatti personali, come i sentimenti, ma se non c’è un fondo sociale non funziona.

Ma possibile che, come dice lei, non sia cambiato nulla?
Non è strano, il mondo combatte da sempre queste diversità, dal tempo dei romani. Il problema dell’inserimento di un’altra razza, etnia, religione c’è da sempre. E rimarrà sempre. Dobbiamo viverla questa realtà, ma non possiamo cambiarla facilmente: il mondo si sta mescolando sempre più e la problematica diventa più aspra, acuta.

La sua opinione?
Vediamo dei Paesi che hanno problemi interni in cui gli abitanti devono uscire fuori per vivere, mangiare, esistere. Non vedo cambiamenti nel futuro.

Capisco. Restiamo in tema Notre-Dame. Come Esmeralda c’è Elhaida Dani, che con lei ha vinto The Voice of Italy. Come mai non ha più partecipato come giudice a un talent?
Non amo entrare negli ingranaggi. Il Festival di Sanremo, ad esempio, è stato questo. E nel 1991, dopo averlo vinto con Se stiamo insieme, ho dichiarato subito, in sala stampa, che non l’avrei più fatto, urtando un po’ i giornalisti. Se faccio un’esperienza non amo ripeterla per non entrare in un sistema. Il sistema mi corrode.

Ma almeno le è piaciuto fare The Voice?
È stato interessante, ma ne ho sofferto molto.

Come mai?
Eliminare artisti bravi non mi è piaciuto. A ogni modo rifare il programma sarebbe stato un errore, un ripetersi. Anche nei miei dischi è così e Notre-Dame è proprio la svolta per non continuare a essere sempre un cantante che, ogni due anni, deve fare un album.

È anche, forse, una forma di rispetto verso il pubblico: meglio uscire quando si ha qualcosa da dire.
I dischi più belli sono quelli amati, voluti, desiderati. Dopo un po’ di album si entra nel sistema di farli per contratto, per la casa discografica. Ora sono libero: posso fare un disco o qualche altra cosa.

Gli ingranaggi sono un modo per incatenare l’artista?
Completamente.

Ma almeno Sanremo lo farebbe come ha fatto il suo collega Baglioni?
No, non mi sento un presentatore. Posso scegliere artisti, questo sì. So dare giudizi e lavorare con i cantanti, ma non so presentare. Anche sul palco, quando mi esibisco, mi limito a cantare, parlo pochissimo. Quindi accetterei solo se dovessi fare unicamente il direttore artistico.

A questo proposito, cosa mi dice – visto che è sempre in giro per il mondo – della musica di oggi?
Dipende dai Paesi, ma la tendenza è il rap. Poteva essere interessante all’inizio, ma adesso sembra sia diventato un sistema. Tutti vanno dietro alla modalità del rap – che ha bei testi – dimenticando che la musica esiste. C’è poca musica, ma aspetto qualcuno che mi stupisca. Non è giusto solo rap.

Passiamo alla sua carriera. A quale canzone è più affezionato?
Ho sempre amato moltissimo Quando finisce un amore, sono affezionato a questo brano più di tutti gli altri. Lo trovo sincero, diverso come tipologia, costruzione e fraseggio. Sento moltissimo anche l’argomento: la disperazione di un distacco. Perché in fondo è ispirata da una maniera.

Quale?
Ho sempre amato la musica nera, la musica black. Ed è difficile usare l’eccesso come espressività. Io urlo la disperazione, così come i fatti intimi. La difficoltà è stata mantenere una certa eleganza usando un elemento che potrebbe esserlo poco, come il grido.

Che mi dice, invece, di Celeste nostalgia?
Parto sempre dalla musica. Il testo l’ha scritto Mogol che mi ha detto: «Se mi dai una musica buona, ti do un testo buono. Si tratta di concretizzare quello che già esiste in testa». In questo brano la nostalgia che può essere positiva.

Ma ci sarà qualche brano che, nella sua carriera, l’ha convinta meno rispetto agli altri…
Nonostante non entri facilmente nel sistema, l’unico errore è stato Io Canto. Lì ho seguito la tendenza che era della disco music, e forse non lo rifarei. Anche se la canzone era valida, bella, ma con l’errore di voler entrare un sistema.

Lei ha vissuto la Roma di Venditti, De Gregori, Rino Gaetano. Cosa ricorda?
Che ero, forse, omologato in questa tendenza, ma non c’entravo niente. Loro erano più politici. Il mio modo di esprimermi sembrava reazionario. Quello che mi interessava era, un’altra volta ancora, non entrare in un impianto che poteva dare dei vantaggi all’epoca. Ne ho sofferto un po’, ma sono contento di avere evitato di appartenere alla schiavitù di una generazione che pensa tutta allo stesso modo.

Si è sentito un po’ sottovalutato?
Sì, in alcuni periodi la stampa non mi considerava. Ne ho sofferto un po’, ma adesso mi definiscono non catalogabile. E questo mi piace moltissimo.

Senta, si è parlato tante volte di portare in Italia Il Piccolo Principe, un’altra opera che ha scritto, ma fatica ad arrivare qui da noi.
La rifaremo in Francia, credo l’anno prossimo. Poi spero di farla in Italia. La traduzione non è facile, perché ho utilizzato dialoghi originali di Saint-Exupéry lasciandoli in prosa e facendo la musica attorno. Nella prima versione si parlava e c’erano canzoni. Ora è tutto cantato.

Si parla anche che abbia composto una Turandot versione pop…
Non amo il termine pop. Non faccio musica pop, la mia musica popolare, appartiene alla maniera della musica di oggi, ma non pop. La Turandot è stata una proposta di un produttore cinese, che mi ha regalato l’onore di fare un’opera per la Cina. Anche se, quando mi disse che voleva la Turandot, rimasi scosso e rifiutai.

Addirittura. E come mai?
Non potevo affrontare quest’opera. C’era già una versione bellissima di Puccini e non sapevo come uscirne fuori.

Poi?
Dopo un po’ di tempo ho trovato il modo e, anzi, credo che la stessa storia possa essere raccontata in mille modi. Io l’ho fatto col mio linguaggio musicale e i testi di Panella.

Quando la vedremo?
Debutta l’anno prossimo, a Pechino, in lingua cinese.

Ma sarà la versione pucciniana incompiuta?
No, no, Puccini non c’entra niente. La storia è la stessa, ma la musica e il testo sono completamente diversi, appartengono al mio mondo, alla mia epoca, al mio modo di vivere questo secolo. Ho voluto rispettare quello che sono, il mio stile, anche se quello che avevo intorno mi voleva in un altro modo o voleva che entrassi in un certo filone di moda. Sono sempre stato un po’ un’isola a parte.

Che è anche la sua forza.
Assolutamente. La mia forza è continuare in questo senso, sono un personaggio di Notre-Dame. (ride, ndr)

Album nuovo in vista?
Non ci sono date, le canzoni ci sono tutte, ma non so quando lo farò: con tutto quello ho da fare devo trovare il momento giusto per dedicami alle registrazioni.

Concerti, invece?
Ne ho fatti ogni tanto, ma senza tournée. Mi esibisco quando ho voglio.

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