Riaprono le discoteche, è un’occasione per ripensarle: parla Alex Neri | Rolling Stone Italia
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Riaprono le discoteche, è un’occasione per ripensarle: parla Alex Neri

Abbiamo chiesto a uno dei dj italiani più famosi di raccontarci l'ecosistema delle disco e il futuro che vorrebbe: «Il clubbing deve tornare ad essere un’esperienza profonda e completa». Ecco come

Riaprono le discoteche, è un’occasione per ripensarle: parla Alex Neri

Alex Neri

Foto press

Mah, boh? Ci siamo? Ci siamo veramente? Riaprono le discoteche, evviva evviva. Da un lato la cosa non può che fare piacere. Dall’altro, urta un po’ come nel dibattito pubblico delle ultime settimane ci si sia concentrati soprattutto sulle discoteche, dimenticando”completamente il comparto della musica live, almeno quella da fruire non da seduti. Di nuovo: anche questo è il frutto avvelenato di una visione della cultura vecchia di decenni. Visione in cui c’è il cinema (rispettabile e culturale), il teatro (molto rispettabile e molto culturale, anche quando ci sono spettacoli che servono solo a riciclare starlette televisive in fase calante), la musica classica e il jazz (che si fruiscono educatamente da seduti, sia mai!). Poi c’è il rock – la musica dei drogati e dei capelloni, meglio evitare l’argomento il più a lungo possibile – e poi, infine, la discoteca, ovvero la forma più superficiale di svago, quella più stupidina e priva di contenuti, ma si sa, al popolo che lavora va dato il contentino, non può bastargli solo la televisione. Già, proprio come contentino viene servita questa riapertura delle discoteche (con capienza al 50% al chiuso e al 75% all’aperto). Per far vedere quanto si è buoni. Quanto si può riaprire un po’ la porta al divertimento futile, dopo che si è stretta la cinghia. Ma solo un po’.

Male. Malissimo. C’è una evidente e continua sottovalutazione in Italia di come una nightlife attiva inquadrata sotto l’insegna di una club culture di qualità (che non sia solo dozzinale movida, insomma) possa attrarre giovani, gente sveglia, manodopera altamente qualificata, insomma un mindframe innovativo e socialmente avanzato, con evidenti ricadute sull’economia reale. A niente serve l’esempio di Londra, Berlino, Amsterdam, Barcellona, o perfino di Istanbul e Lisbona: da noi in Italia ballare resta un’attività da stupidi, uno sfogatoio per superficialotti, una coda lunga e sgraziata della balera o della rotonda sul mare, un tamarrodromo per reietti o una sguaiata parata per gente che vuole sfoggiare lo sciampagnino, la bamba, l’arroganza. Il tutto rigorosamente al riparo di ogni forma di contenuto culturale. Solo divertentismo, null’altro. Solo movida: stordirsi di pessimo alcol. Rete di relazioni preziose? No. Sete di cultura alternativa? No. Voglia di assaporare l’avanguardia del loisir? No.

Detto chiaramente: in questo equivoco/pregiudizio cade non solo la nostra sclerotica classe politica ma cade ancora oggi gran parte dell’opinione pubblica; e, peggio ancora, ci cadono ancora moltissimi appassionati di musica. Magari pure voi che ora state leggendo (“Ma chi se ne frega delle discoteche di merda, luoghi da rincoglioniti con musica di merda”). Ok. Ma, detto altrettanto chiaramente, e un po’ a discolpa dei succitati: c’è effettivamente più di un motivo, ancora oggi, per cadere in questo equivoco/pregiudizio.

Una serata al Tenax. Foto: Fabrizio Azzarri

I motivi li forniscono le stesse discoteche: che in Italia si sono abbarbicate loro per prime a un modello facile, iper-commerciale, edonista, semi-vuoto di contenuti, votato solo all’intrattenimento più immediato e dozzinale. Un modello che in realtà non è mai stato vincente, anche se i gestori hanno l’illusione che lo sia: le discoteche hanno vissuto il loro periodo d’oro, in Italia, nei primi anni ’90, esattamente quando hanno iniziato ad essere viste come luoghi di trasgressione e innovazione. È lì che la loro popolarità è esplosa. Tutto quello che è seguito dopo era solo la rifrazione lunga e pigra di questa scintilla; oppure era l’ennesima riproposizione di un modello per cui la vita notturna è per forza non una dichiarazione e una volontà di alterità, ma un contenitore di conformismi, di remunerativi conformismi e vuoti consumi. Il consumare tanto per consumare, tipo.

Ecco: quest’ultimo approccio stanco e piatto in realtà ha toccato via via anche ciò che, in teoria, era invece resistenza, era alternativa al mainstream, era vera e propria club culture, era insomma sincronizzato con le migliori pratiche europee, quelle di Londra e Berlino. In Italia siamo riusciti a buttare in vacca anche questo. Serve una prova? Eccola: a lungo l’Italia, per i manager e le agenzie che rappresentano i grandi dj legati alla miglior techno e house, è stata il classico pollo da spennare. Negli anni ’90 coi grandi nomi della house prima e nel nuovo millennio con quelli techno poi, siamo stati quelli che pagavano di più i “grandi nomi”, anzi, a un certo punto sembrava che dipendessimo solo ed unicamente da essi. Se negli anni ’90 erano i mammasantissima della house americana, nei decenni successivi toccava ai califfi techno e minimal techno wannabe Berlino/ibiza. Abbiamo trasformato il clubbing, in Italia, troppo spesso in una raccolta di figurine in cui non contava cosa si suonava e com’era il posto dove lo si faceva, ma solamente chi suonava. Anzi: quanto fosse famoso e figo chi suonava. Chi tira le fila del gioco a livello mondiale, come business, questo l’ha capito benissimo e ci ha usato per gonfiare i prezzi di mercato, mettendo su aste su aste per gonfiare i prezzi. Esattamente come ora sta usando Dubai o il Messico (e se la provenienza dei capitali da Dubai è chiara, forse qualche domanda ce la si dovrebbe fare sul Messico), adesso che noi abbiamo iniziato ad arrancare e non teniamo più bene il ritmo. Anche prima della pandemia. 

Sì. La verità è che in Italia da un lato il modello-discoteca con la musica commerciale, il dj dozzinale e la gente col gusto banale era in silenziosa sofferenza già dalla fine degli anni ’90, quindi da oltre vent’anni; dall’altro ciò che doveva sostituirlo col nuovo millennio – ovvero l’approccio più da club, da club culture appunto – non è mai riuscito a strutturarsi in modo veramente efficace, non ha mai creato delle sue regole economiche ed estetiche ma se le è piuttosto fatte imporre dall’estero, entrando progressivamente in vera sofferenza economica nell’ultimo decennio. Solo che i promoter erano (e in qualche caso sono tuttora) troppo gonfi di ego per ammetterlo, o troppo sicuri che sarebbero tornate le vacche grasse degli anni ’90, quando andare a ballare era la novità che tutti volevano e tutti affascinava, e i guadagni erano più pingui anche perché si poteva fare un sacco di nero.

Però, al diavolo: nonostante tutto, il ballo, il dancefloor, la club culture, le architetture sonore di matrice house e techno più sofisticate, checché ne pensino parrucconi moralisti e quella gente per cui la musica si ferma col rock e le chitarre, sono un volano di energie e di idee fresche senza pari, oggi. Quindi se è vero che col via libero del Governo riapriranno tanti locali del cazzo, tante discotecacce commerciali, tanti punti dove si raggruppano cafoni tamarri in canottiera, è anche vero che è comunque una vittoria per tutti che si possa tornare a ballare. Bisognerebbe solo farlo un po’ meglio, ecco.

Alex Neri. Foto press

Di questo abbiamo parlato a lungo con Alex Neri. A un certo punto, i tre dj più famosi e autorevoli d’Italia sono stati Claudio Coccoluto, Ralf ed appunto Alex. Claudio non c’è più – e ha lasciato un ricordo emozionante, indelebile, profondissimo; Ralf è ancora una forza della natura, e ad oltre 60 anni è ancora un eroe per i ventenni (così come per i trentenni e i quarantenni) che vivono davvero il dancefloor; Alex è quello che ha avuto la traiettoria più atipica, perché ad un certo punto è stato risucchiato dal successo del progetto Planet Funk – di cui è colonna dal giorno uno – e, al tempo stesso, per molti anni si è un po’ seduto sugli allori, privilegiando qua e là ospitate ben pagate più che di qualità e semmai ha agito più dietro le quinte entrando nella società che gestisce il Tenax, club-discoteca fiorentino che è stato culla della new wave e della musica live atipica negli anni ’80 e poi, via via, è diventato un caposaldo della club culture italiana ed europea proprio grazie in primis a Neri, che ha puntato deciso sul mettere in console i nomi più forti della scena. Magari quando era ancora sostenibile farlo. Soprattutto all’inizio.

Ecco. L’ultima svolta che Neri ha impresso al Tenax ancora prima della pandemia è stata una delle cose più importanti successe nella scena di casa nostra dei dancefloor. Quando ancora tutti erano appesi solo ai grandi nomi, i “soliti” grandi nomi nel 90% dei casi stranieri, lui ha iniziato all’improvviso a imporre come headliner nomi minori, più ricercati, eroi locali vecchi e nuovi, gente che non suonava solo la tech-house a-colpo-sicuro che regna oggi nel clubbing internazionale. Una inversione a U rispetto agli anni precedenti. Non solo: di pari passo, dal punto di vista dell’attività personale, come dj ha dato un taglio netto alle date-marchette, a quelle ospitate ben pagate in contesti commerciali ottenute ancora sull’onda lunga della celebrità guadagnata nei decenni precedenti o per l’avventura Planet Funk, per riscoprire invece il piacere di suonare anche in posti piccoli e prendendosi dei rischi musicali, vuoi rispolverando alcune sue antiche, spigolosissime produzioni (quelle magari a nome Kamasutra, con Marco Baroni, primi anni ’90, ma non solo) e decidendo comunque di suonare non i successi tech-house del momento, quelli che suonano un po’ tutti quando vogliono andare a colpo sicuro e all’incasso grosso (non solo in Italia, ma ormai in tutto il mondo: a partire da Dubai, Ibiza e Messico, ça va sans dire).

Ora che le discoteche e le piste da ballo paiono riaprire davvero, ci teniamo che le parole e i concetti da mettere in circolo siano i suoi, siano quelli emersi in una densissima chiacchierata lunga quasi due ore fatta un po’ di tempo fa e di cui qui usiamo solo una piccola parte. Piccola, ma importante. E che parte dall’uso e dell’abuso che si fa, nella scena del clubbing, della parola e del concetto di underground, diventato da anni più una foglia di fico pronto-uso per dire «Sì, lavoriamo secondo dinamiche di mercato e chiediamo in molti casi trattamenti da star system totale e viziato, ma in fondo siamo ancora i pirati antagonisti di una volta, siamo ancora quelli alternativi al mainstream no?». No.

Così Alex, infatti: «Già, ormai underground viene usato completamente a caso. Ma sai perché? Perché oggi tutto è in vendita. Tutto. Mi spiace essere così diretto, ma è la verità. Tutto deve essere etichettato, e tutto deve essere etichettato secondo i principi del marketing. Per come la vedo io, underground oggi non ha più senso: perché letteralmente significa sotto terra, invisibile quindi, sconosciuto; ma nel momento stesso in cui tu fai il possibile per far conoscere quello che fai, e lo fai, che senso ha parlare di underground? Oggi l’unico gesto realmente underground che si potrebbe fare sarebbe scomparire dai social media. Chi lo fa? Chi lo ha fatto? Guarda cosa è successo durante la pandemia, e non penso solo ai musicisti: quando eravamo in lockdown, tutti all’improvviso cuochi, tutti giardinieri, tutti grandi esperti di musica con ascolti raffinati, tutti cultori di film e telefilm, eccetera eccetera eccetera. Nessuno che abbia avuto il coraggio di dire “Sto male”, “Questo situazione sto facendo fatica ad affrontarla”, “Ho paura”. Nessuno. Oggi i social ci portano automaticamente a mascherare la nostra vera identità, siamo troppo forzati a fare il marketing di noi stessi, e allora non c’è nulla di strano se anche il giro di certa musica elettronica si dichiara underground anche quando non lo è più per niente».

«E poi, diciamolo: oggi sono scomparse delle istanze che invece inizialmente ci avevano unito, noi del clubbing. Istanze che erano importanti, erano delle lotte, delle conquiste: far conoscere un certo tipo di musica così alieno, certo, così lontano da tutto quello che si poteva sentire alla radio o alla televisione, o di cui si leggeva nei giornali di musica; ma anche, per dire, far sì che la gente comune accettasse come fattore naturale la presenza dei gay nei club, delle drag, e le trattasse da persone quali sono, con cui interagire esattamente come si interagisce con chiunque. Sentivamo insomma di avere delle battaglie da portare avanti, artistiche e sociali; e in questo modo ci si incoraggiava a vicenda. Si restava comunque nella nicchia. Si restava coperti dalla nicchia, protetti da essa. E in questo modo ti evitavi tante cose che oggi invece sono la regola del nostro mestiere: la competizione, l’avere il nome in line up scritto più grosso di questo o quell’altro collega, suonare come ospite in questo locale o quel festival perché ne va della tua carriera. Tutte cose a cui oggi non puoi sfuggire, ti piaccia o meno. Infatti: non sto giudicando. Sto solo fotografando la situazione. Ogni tanto nemmeno ci rendiamo conto quanto siano cambiate le cose, e pensiamo ancora di essere un fenomeno underground. In molti lo pensano davvero, e sì che sono lì a battagliarsi l’attenzione del pubblico a colpi di sponsorizzate».

Non è una posizione passatista, quella di Alex. Non è un «si stava meglio prima». Zero. «Pensa che a un certo punto, dopo un’intervista che avevo rilasciato che non è stata per niente capita e forse nemmeno letta, mi hanno accusato di essere uno che si augurava la morte dei club. Io! Questo perché mi ero limitato a dire che i club devono rinnovarsi, non lo stanno facendo da troppo tempo, e nel farlo devono guardare al presente, alla contemporaneità, non a modelli che ormai hanno 10 anni se non 20 o addirittura 30. Peggio ancora: avevo perfino fatto l’esempio di Tomorrowland come modello positivo e interessante, e lì mi hanno accusato di non capire più nulla di musica e comunque di essere appunto nemico dei club, perché quel tipo di festival è proprio, concettualmente, l’opposto del clubbing. E lo è davvero, mica sono stupido. Ma anche da Tomorrowland si può e si deve imparare: una delle chiavi del suo successo è il modo in cui ha saputo usare le nuove tecnologie da un lato, ed entrare in comunicazione con una nuova fascia di pubblico dall’altro. Due problemi che il clubbing tradizionale più di livello e snob non si sta minimamente ponendo. Perché non immaginarsi un club come un’esperienza anche digitale e interconnessa? Perché non immaginarsi una scenografia fatta anche di ologrammi, e di interazioni pure con persone lontane, esattamente come accade nel gaming con le nuove piattaforme tipo Twitch e Discord?».

«Ho capito tante cose osservando mio figlio che gioca alla PlayStation. Quello che il gaming oggi dà, come esperienza, è incredibile, è fortissimo. Dobbiamo imparare a rivaleggiare con questo tipo di concorrenza, l’asticella si è molto alzata, e pensare di rispondere solo ributtando in campo modelli che erano alternativi e sorprendenti sì, ma negli anni ’90, quindi più di trent’anni fa, non credo sia la risposta giusta. Non è facile compiere questa svolta e questo salto di qualità, non è immediato, non ho delle ricette pronte. Ma bisogna porsi il problema. Chi lo fa, oggi? Chi se lo pone? E poi ci sorprendiamo se va sempre peggio… Perché già prima della pandemia il settore era in crisi, diciamolo chiaramente, anche se in pochi volevano ammetterlo. Io lo capisco, eh, è normale quando ti sei costruito con tanta fatica e tanto lavoro un certo tipo di status che a un certo punto non vuoi ammettere, e ammetterti, che il mondo sta cambiando e che certi meriti acquisiti ormai non funzionano più. Ma è molto salutare farlo. Quando ho iniziato a farlo io, è stata la mia salvezza».

«Vuoi un esempio stupido? Eccolo: le ragazze all’ingresso con le liste di carta. Ma quanto è ridicola questa cosa, nel 2022? Ci rendiamo conto?! Oggi con un telefonino puoi fare tutto subito e farlo meglio, farlo in tempo reale, e noi invece siamo qua ancora a fare le liste di carta, solo perché così si faceva negli anni ’90. Capisci come siamo messi? Qua si pensa che la tecnologia sia trasmettere le cose in streaming e spostare l’arte, la performance, il divertimento lì, sul web: che cazzata. Io sono il primo ad essere un partigiano dei club e del clubbing – figurati, ne porto avanti uno io – ma sono anche convinto che solo iniziando a far dialogare clubbing e tecnologia possiamo tornare ad essere attrattivi un po’ con le nuove generazioni. E non parlo di musica: quella invece ha iniziato ad essere senza tempo, oggi tutti possono avere accesso a tutto e c’è stata di conseguenza una sorta di smaterializzazione cronologica, una traccia fatta negli anni ’80 o ’90 – se è forte – può essere efficace e “nuova” anche nel 2022 come mai prima, perché le nuove generazioni sono abituate a mescolare nei loro ascolti novità, grandi classici, gemme nascoste del passato. Sono molto aperti, ecco. Anzi: bisognerebbe approfittare di più di questa apertura, molto di più. Invece anche lì molti dj sono schiavi o solo della novità o solo del revival, secondo una categorizzazione che aveva un senso un tempo, oggi in realtà non più. Oggi c’è molto più spazio per essere creativi, musicalmente parlando. Ma quello che non si capisce è che bisogna riportare le persone ad essere protagoniste: un ragazzino che si è abituato all’esperienza della PlayStation 5 non puoi trattarlo, una volta che va nel club, come un signor nessuno che va all’ammasso. Insomma, il vero paradosso è che proprio le nuove tecnologie possono riportare il clubbing ad essere quello che era in origine, molti decenni fa: un’esperienza profonda, completa, di cui sei parte attiva».

Alex Neri. Foto press

«In questo il mercato dei dancefloor è in mano agli inglesi, ai tedeschi, agli olandesi. E va bene: sono storicamente stati più in grado di noi di organizzarsi, di fare rete, di lavorare bene col marketing. Perfetto. Bravi. Ma noi abbiamo qualcosa che loro non hanno, e che non potranno mai avere: il calore umano del pubblico. Vogliamo usarla e valorizzarla questa cosa, sì o no? Non so se diventeremo mai dei kingmaker nella scena dal punto di vista del business, d’altro canto due dei nomi più grossi che abbiamo sul mercato mondiale, penso a Marco Carola e ad Ilario Alicante, entrambi sono stati valorizzati da strutture tedesche, non da noi (anzi, all’epoca, parliamo di oltre vent’anni fa, per riuscire a mettersi sulla mappa Carola era dovuto proprio trasferirsi dall’Italia a Francoforte, figurati). C’è una cosa che dovremmo imparare dagli inglesi: loro sono bravissimi a mescolare tradizione e innovazione. Sempre, in tutto quello che fanno. Dovremmo imparare a farlo anche noi. Ma invece sembra troppo spesso che in Italia puoi fare o l’una o l’altra: se parli di innovazione sei un nemico della tradizione e viceversa. Chissà se usciremo mai da questa trappola».

«Una cosa ha fatto, questa pandemia: ha diviso ancora di più i ricchi dai poveri, aumentando sempre più il gap. Lo ha fatto in tutti i settori della società, e ovviamente quindi l’ha fatto anche nell’ecosistema del clubbing. Scordiamoci di essere fra i ricchi, qui in Italia. Magari per un po’ lo siamo stati o abbiamo pensato di esserlo stati, ma oggi decisamente non lo siamo più. L’unico modo che abbiamo per non soccombere come settore e come movimento e per non entrare in un declino definitivo e irreversibile, fino alla definitiva scomparsa, è pensare a idee nuove, pratiche nuove, dinamiche nuove, da costruire attorno al nostro spiccato senso di umanità, di comunità. Qualsiasi altro tipo di scelta più conservativa, qualsiasi ritorno al passato sterilmente nostalgico oppure di mantenimento di status quo pre-pandemici scimmiottando modelli europei e mondiali dettati da altri, è destinato al fallimento. Vediamo se saremo in grado di capirlo. Vediamo».

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