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Renato Zero: «Ho cantato di fronte a un solo spettatore, ma non ho mai mollato»

Il cantautore racconta il nuovo progetto 'Zerosettanta', Roma, Fonopoli. Torna su Achille Lauro e descrive la sua «singolarità», come la chiama. Il suo più grande desiderio? «Che la morte mi colga vivo»

Foto: Roberto Rocco

Quando si ha di fronte Renato Zero bisogna ricordarsi che si ha di fronte oltre mezzo secolo di storia della musica italiana. Una carriera iniziata a soli 14 anni, quando ottiene il primo contratto per 500 lire al giorno al Ciak di Roma e si delinea quello che sarà un tratto distintivo di tutta la sua esistenza: la sfida verso ogni tabù. Come reazione a chi lo denigrava sceglie infatti un’offesa come nome d’arte («Sei uno zero» gli dicevano) e da quel momento rimarrà sempre fedele a un mantra che ripete spesso: «Mai e poi mai essere messo all’angolo dalla vita».

Ne ha passate di tutti i colori, in particolare negli anni ’60 e ’70 «dove erano più le giornate nei commissariati che quelle fuori» e alla fine di ogni spettacolo «se tornavo a casa incolume avevo già vinto la guerra». Ma quella gavetta durissima sarà il motore in grado di generare 43 album e la scrittura di 500 canzoni (molte ancora inedite), fra cui capolavori che lo porteranno ad avere un disco al numero uno in classifica in cinque decenni diversi.

E così nel 2020, nel bel mezzo di una pandemia e mentre il mercato discografico spinge per i singoli, lui si può permettere di uscire con Zerosettanta, un triplo concept album per festeggiare i 70 anni, ma soprattutto «per dare un segnale al mio pubblico». Il primo volume è uscito il 30 settembre, il secondo proprio oggi (30 ottobre) e il terzo il prossimo 30 novembre.

Lo abbiamo incontrato, non solo per presentare un’opera monumentale, ma anche per cercare di capire un po’ di più un artista che ha segnato la cultura e il costume del nostro Paese e non può essere considerato soltanto un cantante: «Non lo sono mai stato. Un osservatore pensante e parlante, sì. Un raccoglitore di anime, con un costante rispetto e innamoramento verso la melodia».

Pubblicare oggi un triplo concept album è una sfida con te stesso, una prova di forza verso il mercato o cos’altro?
Mi sono sempre buttato nella mischia, ho sempre voluto essere presente anche là dove c’era aria di tramontana. Amo sfidare gli elementi e soprattutto dare con la mia presenza un certo incoraggiamento al mio pubblico. È una decisione indirizzata a chi mi segue e a chi mi ha dato grandi gioie e soddisfazioni. Mi pareva opportuno non esimermi da una partecipazione così coraggiosa.

C’è un brano che rappresenta meglio l’intero progetto oppure è un insieme indissolubile?
In Questi tre album si trova Renato Zero in tutte le sue sfaccettature: dal rock, alle ballad, passando per le canzoni di protesta a quelle romantiche. Soprattutto le canzoni d’amore. Perché uno come me, che vive di questa singolarità, non può mentire e raccontare degli amori che non ha indossato. E così ho affrontato ogni brano, perché sono sicuro che il pubblico da queste sollecitazioni possa trarre vantaggio. Non mancano neppure passaggi sui rapporti di coppia, dove se ci sono dei problemi a soffrire di più sono i figli. Non posso dire che ci sia un brano che mi identifica di più. Ognuno, legittimamente, rappresenta me e il mio percorso di vita lungo 50 anni di professione e di coraggio nell’espormi.

Un coraggio che hai avuto fra i primi anche nel lasciare le grandi major e nell’autoprodurti con una etichetta tutta tua. Quanto è importante questa libertà per un artista?
Credo sia stata prima di tutto una dichiarazione di intenti, verso me stesso e la professione. È risaputo che un contratto comporta delle regole e delle costrizioni. Capitava che un discografico mi chiedesse un disco per una certa data, ma non siamo dei robot, abbiamo bisogno di catturare l’ispirazione, mettere a fuoco un percorso. I miei dischi sono sempre dei concept, per cui essermi liberato di queste imposizioni mi ha fatto ritrovare autonomia nel linguaggio e nel repertorio. In passato le etichette avevano la presunzione di indirizzare verso un certo andazzo che mi faceva sentire limitato. La mia felicità è l’essere stato seguito a ruota dai due Lucio, Battisti e Dalla. Siamo stati noi tre a prediligere questa soluzione, per portare avanti una autonomia reale e non essere più nella condizione di dipendere dagli umori del mercato.

Forse avrebbero cercato di impedirti di trattare certi temi, come invece hai sempre fatto?
In questo modo ho potuto portare avanti una escursione variegata di tematiche, dalla pedofilia al disagio degli anziani alla goduria del triangolo e via dicendo. Ho cantato l’umanità tutta, e neanche sommariamente. Mi sono soffermato a pizzicare le corde giuste di ogni argomento per rendermi utile e dare alle persone la sensazione di avere un amico su cui contare.

Il tuo primo 45 giri ha venduto 20 copie. Come si riesce ad andare oltre a un fallimento del genere in giovane età?
Non è stato un fallimento, ma giustizia divina. Cantavo come Paperon de’ Paperoni, avevo una voce inconsistente e meritavo quel risultato, con solo 20 parenti che hanno acquistato il disco. Ma un’altra esperienza è stata più traumatica e per qualunque altro artista sarebbe stato il tracollo. Era il 1973 in Via Garibaldi a Roma e in un locale feci un concerto per un solo spettatore. Il proprietario provò a convincermi a rimborsarlo e mandarlo a casa, ma gli risposi di no, perché avevo detto ai miei genitori che quella sera lavoravo e quindi volevo lavorare. Il giorno dopo lo stesso signore tornò con 25 persone. È tutto documentabile, visto che in quell’occasione passò Antonello Venditti verso le 11 di sera e vedendo sventolare la mia faccia tosta davanti a questo unico spettatore, si commosse e al pianoforte fece due brani, per solidarietà.

Non hai pensato di rinunciare al tuo sogno?
No e vorrei si comprendesse che fare uno spettacolo per un solo spettatore è di una difficoltà che se uno non la vive non la può capire. Tutto sommato è stato un banco di prova, come tanti altri. I fischi li abbiamo assaggiati un po’ tutti, fanno parte del corredo, superato questo tipo di battesimo puoi andare dritto verso la meta.

Era il periodo in cui hai scelto il cognome Zero proprio in risposta alle offese ricevute?
Sì, e quando mi insultavano andavo dal malcapitato, lo mettevo in mezzo alla pista e lo spogliavo, vendendo le parti del vestiario attraverso un’asta nel locale. Raccolti i soldi, glieli davo dicendogli: «Ora vai a comprarti della biancheria pulita». Reagivo quasi sempre agli uomini, perché le donne erano più rispettose. Alcuni li truccavo davanti alle mogli. La ragione dell’aggressività di questi maschiacci è dovuta a un fatto fisico, visto che non hanno gli attributi. Ancora oggi persone del genere, bulli e razzisti, sono privi della dignità di farsi vedere in faccia e agiscono nell’oscurità. È la cosa che mi ha sempre sollecitato le reazioni più provocatorie.

Roma in questo è purtroppo spesso teatro di diversi episodi di cronaca molto gravi, in particolare nelle periferie.
Roma è molto più periferia che centro. Il benessere della città è soffocato da una coltre omertosa, anche da parte dei politici, che l’ha portata alla decadenza. Ormai se andiamo nei pressi del Quirinale vediamo anche lì una città disastrata. Ho parlato di recente con la sindaca Virginia Raggi esponendole il mio malessere e mi ha spiegato che il portafogli è desertico. Non ci sono finanze per risanare nulla. È qualcosa che stravolge le coscienze che la capitale d’Italia e della Città del Vaticano sia in queste condizioni. Questo maltrattamento e questa cecità offende tutte le persone di buon senso anche all’estero, visto che abbiamo consegnato la capitale del mondo al degrado totale.

Come se ne esce?
In passato presi degli scritti di Pier Paolo Pasolini e insieme alla mia amica Franca Evangelisti interpretai il brano Casal De’ Pazzi: “I confini di un mondo, dove i poeti non crescono più. Genziane rosa affogate nel fango. L’incanto eterno, amori di una gioventù, resa impudica dall’ipocrisia…”. L’affresco di Pasolini era esatto. Non l’ho conosciuto in vita. Gli amici della borgata mi dicevano che non era per me frequentarlo, visto che lo definivano ambiguo. Non ci credevo, visto che di natura sono parente di San Tommaso e ho sempre verificato personalmente. Ma quando potevo conoscerlo purtroppo sappiamo la fine che ha fatto. Gli umori della periferia li ho sempre respirati nella volontà di partecipare.

Oltre che artisticamente, ti sei impegnato in prima persona in svariate iniziative sociali e di beneficienza.
Ho aiutato questi ragazzi, con un lavoro bello e utile che continua ancora oggi. A questi giovani parlo non come Renato Zero ma come Renato Fiacchini e racconto che la vita è meravigliosa e ogni tanto è bello conquistarsela, mettere delle bandierine e farsi guardare dagli altri con orgoglio e soddisfazione. Ci sono famiglie dove i ragazzi sono in difficoltà perché regna un certo silenzio. E anche prima del Covid venivano sottratti all’istruzione alla quinta elementare. Per questo dobbiamo cercare di dare loro da mangiare una bistecca insieme a Oscar Wilde e Pirandello o ai nostri grandi cantautori. La cultura non è una velleità, non è un modo di sottrarsi al dovere del cartellino, ma cibo per l’anima. E come tale, essendo un nutrimento, i benefici arrivano. Le persone colte sono al di sopra delle nuvole.

Foto: Rino Petrosino/Mondadori via Getty Images

Il mondo della cultura e degli spettacoli è il più penalizzato in questa pandemia, però dalle istituzioni arrivano segnali poco incoraggianti. Da ultima la frase del premier Giuseppe Conte che ha detto: «I nostri artisti che ci fanno divertire…».
È una grande stronzata, come direbbe qualcuno… una frase sciocca, che infastidisce e non fa ridere. L’attività artistica è un impegno oneroso che porta benessere alle persone, dona loro un supporto, le segue nelle fasi della vita. Io vanto di essere accarezzato da quattro generazioni e questo mi rende severamente impegnato nel lavoro, in quello che dico e canto. Non stiamo giocando, neanche il macchinista o il facchino giocano. È un lavoro, una professione seria, per alcuni una missione che ci deve far scendere dal palco con la soddisfazione di aver regalato momenti di vita.

Come vivi questa fase in cui i teatri e gli spettacoli live sono totalmente azzerati?
Questo virus ha avuto il talento di spogliarci di tutto. Ovviamente la libertà è il primo elemento del quale ci ha privato. È un banco di prova, di verifica per ciascuno di noi. Dobbiamo buttare via la zavorra del passato, il superfluo non serve più. Oggi più che mai, non bisogna essere feticisti, accarezzare il lusso o l’effimero, ma salvaguardare i rapporti, riconsiderare l’amicizia non come una sagrestia, ma come un aliante per staccarci dal suolo e affrontare insieme un temporale o un tramonto. Dobbiamo elevarci. Sopravviveremo, ma lo faremo in modo migliore se saremo altri da noi, persone nuove, che impareranno la lezione di non sprecare nulla, prima di tutto i valori.

Nei giorni in cui hai festeggiato i 70 anni è uscita una tua dichiarazione piuttosto critica verso Achille Lauro, che in tanti ritengono un tuo epigono: «Non giocavo a fare il clown della situazione, io cantavo le problematiche della periferia, della borgata, della gente emarginata».
I giornalisti hanno un sacco di qualità, ve lo riconosco, però anche un po’ il vizietto di spostare le virgole e le frasi aggiustandole a piacere per fare più scalpore. Ho solo detto che il clown è un mestiere meraviglioso. Quando ci troviamo di fronte a lui, dal bambino all’anziano, la lacrima ci scappa. Ma il clown non ha mai fatto ridere nessuno. Significa che anche lui, quando si strucca ha un figlio malato o una moglie con problemi. Il clown non dice mai gli affari suoi, perché ha dignità. La mia missione era spogliare la vita e ricomporla, per portarla ad assomigliarmi. Per poterci stare dentro doveva avere i miei connotati. Ora, il baraccone non è esattamente il luogo dove mi piacerebbe vivere, mentre il camerino sì. E c’è una bella differenza.

Insomma, Achille Lauro non lo consideri un tuo discepolo?
Non ho mai fatto comparazioni fra me altri artisti. Quando facevo pensare che fossi un clown erano i tempi in cui, dopo uno spettacolo, se tornavo a casa incolume avevo vinto la guerra. Le giornate nei commissariati con i miei compagni di viaggio non si contano. Perché eravamo diversi, particolari, godevamo di libertà visibili a tutti. A 50 anni di distanza, chiunque nasca oggi e abbia i miei connotati dovrebbe preoccuparsi. La mia replica non sono in grado di incoraggiarla. Ho avuto parecchi sosia nel tempo che hanno vissuto a mie spese, con sui manifesti lo “Zero” per fare pubblico. Queste cose le ho perdonate e raccomando di avere una statura propria, di essere originali, di non dare adito a paragoni che sono sempre deleteri per chi vuole avere un percorso immacolato e personalizzato. Non devo scusarmi di nulla, se non per il fatto di essere stato il primo, pur chiamandomi Zero. Ho fatto scuola nel costume in Italia, di questo me ne prendo atto.

C’è forse un unico progetto che, nonostante fosse stato annunciato più volte, non sei riuscito a realizzare. Mi riferisco a Fonopoli, la cittadella della musica. Come mai?
Fra noi e certi progetti c’è la politica. Sono andato a bussare persino a Bruxelles per chiedere di aiutarci. Per assurdo, siccome il politico non ha inventato Fonopoli, che serviva a salvaguardare i giovani e toglierli dalla nullatenenza, non è stato possibile realizzarlo. Eppure, l’Alitalia ci concesse l’acquisto dell’area dove avevano il centro direzionale alla Magliana, con tanto di lettera dell’amministratore delegato, a un prezzo di esproprio. Praticamente regalata. Ma cosa accade? Che per quattro legislature venni buttato tra le braccia di imprenditori edìli con altri interessi negli appalti, i quali volevano realizzare 27 mila metri cubi di area commerciale a fronte di 5 mila metri per gli studi musicali.

Saresti pronto a rilanciare Fonopoli se ci fossero le condizioni?
Era già tutto pronto, dalle sale per lo studio ai palcoscenici, le sale prova, ed era prevista persino un’area per le orchestre sinfoniche. Non avevamo trascurato nulla, neppure di rimettere in sesto un collegio per la formazione di macchinisti, elettricisti, parrucchieri. Era un progetto formidabile che avrebbe consentito a tanti giovani di trovare la loro strada e alla città di non ritrovarsi oggi così sguarnita. Ma state tranquilli che io non mi fermo. Se c’è una cosa di me che mi piace è l’essere così ostinato. Sono arrivato fino a qui con tutte queste cicatrici e lividi, ma ancora sorrido.

Da quel che racconti sembra di scorgere la Roma del mondo di sopra e del mondo di sotto, nella quale se non si hanno legami con il famoso “mondo di mezzo” non si riesce a fare nulla.
Ricordo che a me chiusero il tendone di Zerolandia con i sigilli. Un luogo nel quale c’era solo bellezza, finché non mi hanno tappato la bocca. Un Natale, il 24 dicembre, ho chiuso la prima parte del concerto alle 11 e 45 e alla mezzanotte arrivò un prete in blue jeans, con richiesta regolare alla parrocchia, che celebrò la messa. Era oro colato per i giovani e la gente che partecipava, ma sono stati in grado di interrompere pure questo. Ma non mi stupisce, la politica per molto tempo ha addirittura messo le mani sul pentagramma.

A cosa ti riferisci?
Alle varie feste dell’Unità, dell’Avanti e simili, che aggregavano artisti sprovveduti, porelli. Per me la musica ha un suo vangelo e la politica ne ha un altro. La mescolanza non è possibile. Io se protesto lo faccio come artista, mi prendo le mie responsabilità e dal mio pulpito enuncio le mie ragioni e il mio malcontento. Ma negli anni ’60 e ’70 era consuetudine diffusa che questi partiti mettessero in campo una sequela di artisti alle manifestazioni. E in fondo anche Fonopoli, se fosse nata su impulso di un ministro sarebbe già realtà, però forse non sarebbe Fonopoli, ma un manifestino bieco e triste di una politica che fa gli interessi della politica o non dei cittadini.

In questa situazione, che prospettive vedi per i giovani artisti?
Prendo le parti dei giovani aspiranti che vogliono fare musica. Noi artisti siamo lo specchio della società. Ne riflettiamo il benessere o il malessere. Se la società è buona e vuole manifestare il cambiamento, noi lo rappresentiamo. Ma se la società è malata, debole, povera, non sostenuta dalla scuola e dal lavoro quel che emerge è un disastro. Ci sono ragazzi che hanno fatto dodici anni di Conservatorio e lavorano come camerieri, magari all’estero. Non sono casi sporadici, ne ho conosciuti tanti. Intendiamoci, il pizzettaro è un artista nel suo genere, ma dopo così tanta dedizione per l’attività musicale, perderli è un peccato mortale. Questi ragazzi non hanno modelli, opportunità di crescita e si fa presto a colpevolizzarli. Ecco perché quando vogliono manifestare questo disappunto lo fanno anche con la spranga, ma è lì che bisognerebbe leggerle queste azioni, non solo condannarle, capirle e andare a fondo nelle motivazioni che li portano a straripare in questo modo. Abbiamo perdonato gente che ha sbagliato per una vita, non vogliamo dare l’opportunità a uno di 20 anni di recuperare? Mi pare un atteggiamento egoistico.

Cosa consiglieresti a un giovane che vorrebbe lavorare nel mondo della musica?
Prima di tutto che riconosca il proprio talento, con severità e intelligenza. L’esame dovrebbe essere serio, perché se la musica diventa un rifugio per non prendere in considerazione nessuna altra alternativa, diventa deleterio. Si può anche imbracciare la chitarra e tra le pause di un altro lavoro fare le tue belle suonate. Anche questo ha un valore, per divertirsi o scaricarsi da certi dispiaceri. Per un certo periodo l’ho fatto anch’io, poi sono diventato un professionista. Ma la musica, diciamoci la verità, la facciamo soprattutto per noi. E per coinvolgere gli altri è necessario crederci. Se non ci crediamo noi, perché dovrebbero farlo gli altri?

Foto: Roberto Rocco

Una chiave sulla quale hai giocato da sempre è l’ambiguità, o singolarità come l’hai definita, che in tanti hanno ricondotto alla sessualità. In questo senso, ultimamente sempre più artisti o persone dello spettacolo sentono il bisogno di fare coming out. Come te lo spieghi?
Penso che ci sia di mezzo la morbosità da parte di certi lettori o spettatori, per poi andare a sindacare dentro gli slip di chiunque. Lo trovo triste e squallido. Ognuno deve vivere la sua condizione in maniera dignitosa e anche severa, perché siamo i primi giudici di noi stessi. E credo che sia una scelta individuale il mettere a conoscenza gli altri delle proprie tendenze o gusti, non solo sessuali, oppure no. Anche la riservatezza fa parte della libertà. Se poi vogliono condividere la loro sessualità o scelte particolari, ben venga. È anche accaduto sia stato fatto coming out per salvaguardare altre persone. A volte è necessario. Però credo che la discrezione sia una forma di tutela dell’individuo che lo rende più libero.

Restando alle scelte di vita, l’altro giorno ha colpito in tanti la vicenda di Camilla a Genova, la giovane insultata, minacciata e alla quale i vicini hanno vandalizzato l’auto solo perché lesbica.
Questa è una storia desolante. Abbiamo fatto tante battaglie, superato pesti e carestie, e adesso che potremmo godere di un mondo adulto, maturato, che può far fronte a emergenze come quella in corso, c’è gente che ancora infligge a certe persone queste ingiustizie per il solo fatto di essere diverse da loro. Lo trovo miserabile. Ma Camilla deve essere serena, perché i veri malati sono loro.

Un tempo era impensabile, mentre oggi abbiamo persino un papa che spinge in questo senso sui diritti civili.
Apprezzo a tal punto papa Francesco che ho chiesto ad alti prelati la possibilità di incontrarlo per stringergli la mano. È un mio desiderio spontaneo e una manifestazione d’affetto. Non ci sono ancora riuscito, ma per ora questa mia fede e passione gli arriva comunque, perché lui ha un po’ il fluido, mi sembra che riesca a captare anche a distanza le intenzioni dei suoi fedeli. Mi auguro che sappia dell’esistenza di Renato Zero e apprezzi che lo stimo tanto e ripongo in lui molta fiducia.

Gli artisti hanno tutti una particolare sensibilità verso il trascorrere del tempo. Qual è il tuo rapporto con la morte?
Io sono già morto svariate volte, in forma evidentemente lieve. Questo mi ha fatto capire che il desiderio più grande che posso avere è che la morte mi colga vivo.

 

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