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RBSN, musica per ricentrarsi

È il primo italiano, nonché l'artista più giovane messo sotto contratto dalla Ropeadope, fighissima etichetta americana. Psichedelia, dark jazz e soul fuori da ogni moda: si può fare, anche a Roma

Foto: Finn O’Hanlon

Il giorno in cui dobbiamo incontrarci per una chiacchierata io e Alessandro Rebesani (cantante, chitarrista e compositore in arte RBSN) fa un caldo incredibile. Va bene ottobrata romana, ma qui ci sono gli estremi per scendere in piazza Thunberg style. Quando qualche ora dopo il cielo si annuvola e inizia a cadere qualche timida goccia di pioggia, neanche ci presto attenzione. Inforco il motorino fiducioso e via per strada. Naturalmente tempo due minuti e sta venendo giù un uragano di pioggia e vento. Arrivo al locale dove pensavo avessimo appuntamento completamente zuppo. Riesco a malapena a tirare fuori il cellulare dalla tasca, appiccicata alla pelle per l’acqua: giusto per rileggere il messaggio in cui Alessandro mi dava appuntamento dall’altro lato del Tevere, in un altro locale, decisamente non nel posto in cui per arrivare mi sono bagnato dalla testa ai piedi.

Maledico la mia testa esplosa, che per sopravvivere ogni tanto mette il pilota automatico e confonde gli indirizzi. Inforco di nuovo il motorino sotto la pioggia e torno a casa per cambiarmi e raggiungere il posto giusto. Salgo di corsa e scendo trafelato, ha smesso anche di piovere, dai che ce la facciamo. Infilo le chiavi: non parte il motorino. Mi viene da ridere e la testa mi si spinge naturalmente all’indietro. Rivolgo il ghigno al cielo plumbeo: un po’ sconfitto, un po’ divertito, sicuramente stressato.

A guardare il colore del cielo mi viene in mente la copertina di Stranger Days, l’album di debutto di RBSN uscito poco più di una settimana fa per la newyorkese Ropeadope Records – primo italiano nella storia dell’etichetta e artista più giovane del rooster. È una foto suggestiva scattata da Brando Pacitto. Prevalgono i toni scuri, proprio come se la scena fosse dominata da nuvoloni neri. In realtà nella foto il cielo è quasi sgombro; ad essere ammantata di oscurità è la terra. L’unica fonte di luce è una porta esile, con un essere teso nello sforzo di attraversarla come un discobolo dai capelli lunghi.

Banalmente mi viene da leggerci un’allegoria del potere salvifico della musica, dell’arte, da un’esistenza che si fa sempre più pesante. «Su queste cose il feedback delle persone è spesso meglio dell’originale, aggiunge sfumature di significato anche per chi l’ha creato». RBSN mi parla dalla videocamera del telefono: siamo nelle rispettive case, all’asciutto; abbiamo già riso dell’equivoco del giorno precedente. Per questo iniziamo a parlare dalla copertina dell’album. «Iconograficamente in realtà appartiene a Borges, nello specifico alla storia “Gli animali degli specchi” contenuta nel Libro degli esseri immaginari. Ci sono entrato in fissa quando l’ho letto”.

A rincarare la dose sui significati extra musicali c’è il titolo dell’album: Stranger Days. «È un discorso di dissociazione. Gli stranger days sono quelli in cui ti dissoci dal tuo centro, dalla tua moralità, dalle cose che ti interessano. Quei giorni ti senti fuori dalla porta, o dal lato sbagliato. Poi quando ritorni dentro di te, quando ti ricordi cos’è sacro per te, torni a non essere uno sconosciuto nel tuo corpo. Ultimamente infatti per me la musica è una soglia, qualcosa che ti fa entrare in te stesso più che uscirne».

La musica che fa rientrare in sé stesso RBSN è un pastiche di generi musicali senza confini geografici. Jazz, nu soul, afrobeat, dub, elettronica. Con alle spalle studi importanti in Inghilterra e negli Stati Uniti, Alessandro ha avuto modo di assistere in diretta ad alcune delle ultime rivoluzioni di questi generi, facendole proprie. «Essendo stato esposto all’Inghilterra da giovane, vedendo il nu jazz di lì nascere in diretta, ho capito che era quello il discorso che volevo fare: comunità, aggregazione, lavoro, uno spazio neutro e sicuro, inclusione delle nuove leve. Ho cominciato a scrivere il disco che avevo vent’anni tondi e stavo ancora lì. Volevo portare quel discorso jazzistico londinese molto poco occidentale e tradurlo in un ambiente più fruibile per noi. Ama Lou, Kokoroko, Oscar Jerome e tanti altri. Condensando quelle cose ho fatto una cernita che solo dopo la pandemia ha acquisito una forma organica».

Uno stop forzato globale: RBSN sembra essere tra coloro che hanno sfruttato bene quell’abbondanza di tempo e riflessione imposti dal virus. «Ne siamo usciti più maturi, abbiamo lasciato da parte i virtuosismi fini a sé stessi e quasi riscoperto il piacere di vivere, in un certo senso. Con l’idea di fare cose d’avanguardia ma che non hanno la frenesia di colpirti. Abbiamo cercato di stupirci e scoprirci continuamente, facendo le cose più piano». Il plurale è rivolto alla squadra dietro al disco. In primis il produttore e tecnico del suono Luca Gaudenzi, e poi tutti i musicisti coinvolti, vera e propria comunità di base a Roma ma continuamente in giro per l’Italia e non solo. «Vengo comunque da una storia di studi di musica suonata, gente che ha fatto dischi su dischi, tipo John Zorn. Per me questa è la via. C’è un modo di attingere al tempo di Dio, per citare sempre Borges, e l’unico modo per fare questa cosa è rifugiarsi nello specchio segreto e nascosto che abbiamo. Rincorrendo questa cosa qui ho iniziato lavorare con Luca da giovanissimo e non ci siamo mai fermati».

Se insistiamo sul concetto di narrazione è perché è una caratteristica che appartiene al disco. Un viaggio intimo, con una doppia qualità: suonare allo stesso tempo spontaneo e pensato nei mini dettagli. «C’è sicuramente un arco narrativo molto naturale. Partiamo dall’oscurità tematica e musicale: dark jazz e cose più ostiche proprio musicalmente; finiamo sul soul più leggero, armonicamente semplice, una sorta di ascensione. Vengo comunque dallo studio e dall’amore per la libertà che ti dà il jazz: se il suo studio non ti spezza, allora ti rende libero». Libertà e consapevolezza sono le chiavi di volta che gli hanno permesso di bucare la bolla italiana e firmare con la Ropeadope Records di New York. Un’etichetta che ha contribuito a formare il nuovo standard jazz tra elettronica, ispirazioni afro-cubane e hip hop; casa negli anni di Snarky Puppies, Terrace Martin, Christian Scott aTunde Adjiuah, Jazzanova e Christian McBride solo per citare qualche nome altisonante.

«Con loro va bene, sono persone serie. Recentemente guardavo il doc sui Beastie Boys e loro sono un po’ l’esempio di quel lavoro da grande etichetta discografica che ti prende e ti spreme fino in fondo. Hanno costruito il mainstream di oggi in quel modo. Ropeadope invece fa il lavoro opposto. Il CEO Louis Marks mi ha detto una volta che se fra cinque anni non avrà più un lavoro sarà contento. Perché vorrà dire che la distanza tra artista e pubblico sarà diventata nulla, una roba che già sta succedendo. Come etichetta ti mettono a disposizione i mezzi che hanno rodato in più di vent’anni di lavoro, ma in un modo per cui rimani ben presente a te stesso. Non è come firmare con Universal, che sembra tutto sia fatto e poi invece col cavolo. Io sono stato anche stimolato dal sentirmi all’altezza del rooster. Infine pubblicare il disco su mercato internazionale è roba semplicemente fica, c’è stata la strizza del confronto ma ora siamo arrivati a una familiarità. Da gennaio in poi sicuramente lavoreremo sull’andare negli Stati Uniti».

Il tono usato è quello di chi ha ragionato molto su questi temi. Di come giostrarsi in un mondo che sembra richiedere la tua anima in cambio della possibilità di vivere facendo musica, arte. «Il centro del discorso si può concentrare su come uno decide di fare questo lavoro. C’è un modo più capitalista e uno meno. Il primo si concentra sul diventare un prodotto, neanche sul produrlo: le superstar pop di oggi sono la vera attrattiva, non la musica che fanno. Già questa distinzione tra essere un personaggio e voler creare musica è per me importante, fondamentale. Poi andando avanti capisci come adattarti al sistema e come questo si attacca a te. Per questo lavorare con Ropeadope è stato più che sensato».

Mi piace questo discorso. Ci ritrovo una purezza solo leggermente naïf: più sinceramente animata dal desiderio di mantenere viva quella fiamma originaria; quella che ha preso tutti gli appassionati di musica in tenera età e gli ha ribaltato l’esistenza e la scala dei valori. Quella che ha spinto a iniziare a mettere le mani su una chitarra, per tirarne fuori prima lamenti e vagiti da brodo primordiale e poi vedersi con meraviglia sbocciare tra le dita i primi accordi, i primi fraseggi sensati. Quella degli strumenti, magici oggetti inanimati che prendono vita grazie all’infusione di passione, sudore e pensieri, è una mia fissa. Ce n’è uno che è stato particolarmente importante per Stranger Days?

«Mi piace tanto questa domanda perché è questa tipo di roba che ti fa scoprire nuove cose. C’è un aneddoto molto fico: poco prima della pandemia conobbi questo gruppo di ragazzi turchi. Li ho conosciuti a una festa inutile e abbiamo iniziato a parlar di musica nordafricana alle 8 di sera: alle 7 di mattina ancora stavamo parlando. Siamo finiti a casa loro e lì ho notato buttata in un angolo una Fender Musicmaster tutta rotta uguale a quella che suonavo in quel periodo, ma del ’69 invece che del ’76, quindi molto più preziosa. Ho chiesto se potevo prenderla e restaurarla. L’ho recuperata grazie all’amore istantaneo per questa gente e rimessa in sesto, ci ho registrato un sacco di parti del disco e ci ho fatto il tour dell’estate scorsa. È una chitarra che devi suonare con decisione e delicatezza allo stesso tempo. Sono gli strumenti che non sai come approcciare e devi reimparare a suonare che ti portano lontano. Se non fossi stato aperto a vedere chi erano loro, a conoscerli, non avrei mai ricevuto lo stimolo che mi è arrivato da questo strumento. Tutti gli sforzi fatti da me e questo oggetto sono stati ripagati alla grande. Penso sia fondamentale trovare il proprio strumento, il proprio suono. Dopo due mesi che ce l’avevo ho scritto Stranger Days, il pezzo che dà il titolo all’album».

Il disco è uscito, RBSN e la band lo stanno anche portando dal vivo ricevendo feedback entusiastici da addetti ai lavori e non. «Sono contento che un linguaggio di questo tipo prenda chiunque da chi ascolta gli Psicologi a chi è una jazz head». E sull’onda di questa spinta dove si va? Come ci si rapporta all’Italia e a Roma? «Se si vuole fare un certo tipo di ricerca si deve girare tanto e io ho avuto la fortuna di farlo. Il bisogno di realizzarsi fa in modo che uno si mette a viaggiare alla velocità della luce. Se sei soddisfatto dei tuoi obbiettivi e hai sicurezza in te stesso le cose gravitano verso di te. Chiaramente ciò comporta il provarsi validi in primis a sé stessi. Non solo nel campo in cui uno lavora: per dire, io ho la passione per lo yoga e il corpo in movimento: ognuno ha la sua cosa. L’espandersi come individuo presuppone che si stia lavorando su più fronti».

Un lavoro stressante e appagante. Torniamo all’importanza di un equilibrio, di ritrovarsi in sé stessi avendo la forza propulsiva per operare anche nel mondo. «Tutti questi giri sono fondamentali ma noi tutti alla fine abbiamo uno spirito di appartenenza. Come un nigeriano che suona la kora sta meglio dove è cresciuto e distribuisce il messaggio viaggiando, noi che siamo degli occidentali viziati nati e cresciuti nel privilegio ora siamo fottuti da un sistema che noi stessi abbiamo inventato. Dobbiamo tutti fare un lavoro di riappropriazione del territorio, far cessare la città di essere questo mondo che si espande volto solo al profitto e a farti sbroccare. Deve essere un luogo dove ci sono i sentieri per arrivare allo specchio segreto di cui sopra. Io faccio una musica che è diversa rispetto al posto da cui vengo ed è in linea con quello che succede all’estero, ma non mi sento né l’inglese che vive qui, né l’italiano che fa l’inglese. Sento di aver rispettato quella che è una mia poetica».

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