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Ralf Hütter: «I Kraftwerk sono un’intelligenza artistica, non artificiale»

Abbiamo incontrato l’ultimo membro storico attivo della band in occasione della mostra ‘The Man Machine’. Abbiamo parlato di musica e arte, macchine, automazione. E di quando a ‘Domenica in’…

Foto: Peter Boettcher, courtesy Kraftwerk & Sprüth Magers

Ho incontrato a Roma uno dei 100 artisti più importanti del XX secolo, Ralf Hütter. Potrei dire anche 50, oppure 30. Senza i Kraftwerk, che Hütter e Florian Schneider – musicisti di formazione eclettica, di buona famiglia – hanno fondato a Düsseldorf, la storia della musica pop non sarebbe stata la stessa: Bowie, Sakamoto e l’elettropop inglese, l’hip hop newyorkese, la techno di Detroit, cioè l’origine di buona parte di quel che ascoltiamo e amiamo ancora oggi devono loro qualcosa. Che dovevano qualcosa a Stockhausen e Pierre Schaeffer, a Schubert, Brain Wilson, al Bauhaus e ai fantasmi della Germania postnazista, certo. Resta irraggiungibile il sublime romanticismo rétro che attraversa il loro repertorio, l’ottimismo futurista che confina col sarcasmo e lo humour nero, a partire dal viaggio di Autobahn, 1974, 23 minuti in automobile con il suono del clacson e il ronzio del motore, la radio accesa su una specie di surf postatomico: “Wir fahr’n / fahr’n / fahr’n / auf der autobahn”.

Per tutta l’estate nelle stanze dello spazio Indipendenza, un grande e fascinoso appartamento vuoto primo Novecento dalle parti della stazione Termini, vengono proiettate a parete intera una mezza dozzina di immagini tratte dall’archivio dei Kraftwerk: sfondi da concerto e foto di scena. Kraftwerk – The Man Machine, la mostra firmata dalla stesso Hütter, è essenziale e minimalissima come tutto quel che lo riguarda. «Eravamo la prima generazione uscita dalla guerra, intorno non avevamo più niente e quando ce ne rendemmo conto fu uno shock. Poi cominciammo a pensare a quel vuoto come uno spazio dove creare qualcosa», mi dirà lui in una breve conversazione.

Lo incontro in una delle stanze della galleria, vuote appunto. Hütter ha 78 anni ma gliene darei 20 di meno. Pantaloni, scarpe, t-shirt neri, un maglioncino nero Fred Perry, un’invidiabile resistenza al caldo romano. È rimasto l’unico del gruppo storico a portare in giro la macchina dei Kraftwerk, ultima grande variazione sulle leggende romantiche (e yiddish) attorno agli automi. Schneider è morto cinque anni fa, Karl Bartos e Wolfgang Flur hanno mollato negli anni ’80.

Si legge ovunque della sua riservatezza, delle sue interviste rare, delle risposte laconiche. Della sua infinita gentilezza. La sua passione per la bicicletta. È in ottima forma. La settimana prossima suonerà a Amsterdam, mi dice, partirà il giorno prima per andarci in bici con gli altri dei Kraftwerk, 140 chilometri (i Kraftwerk saranno il 18 luglio a Lajatico, Pisa e il 25 a Taormina). Quest’intervista si interromperà anche perché alla tv danno la crono del Tour de France, e Hütter vorrebbe vedere almeno come va a finire. Come diceva la canzone: “Foratura sul pavè / la bici riparata in fretta / il gruppo ricomposto / compagni e amici” (Tour de France, 1983)

Che cos’è questa mostra?
Sono grafiche e immagini fatte da me e dal mio amico Florian Schneider. Immagini che rendono visibile la musica, perché abbiamo sempre lavorato in modo multimediale fin da quando abbiamo cominciato alla fine degli anni ’60.

Hai detto una volta che suonavate nelle gallerie d’arte perché lì vi sentivate più liberi.
Non eravamo ancora abbastanza conosciuti per suonare nel circuito del rock. In realtà avevamo partecipato subito a qualche festival rock, ma in quel periodo la scena artistica era mentalmente più aperta, è la verità.

Nei concerti e sulle copertine dei dischi usavate queste immagini trovate, prese dalla grafica industriale, dal Bauhaus. Avete fatto tutto da soli o qualcuno vi ha aiutato?
Moltissimi ci hanno aiutato: fotografi, animatori, registi, pittori, tutti nostri amici. Ma l’idea di usare quelle grafiche era nostra, nostri i progetti e le sceneggiature. Quel che cercavamo di fare era rendere la musica più intensa e soprattutto visibile.

Ma oltre al pianoforte avevi studiato architettura.
La verità è che mi ero parcheggiato per un po’ all’università. Pensavo soltanto alla musica e in effetti i Kraftwerk vengono soprattutto dalla musica. Alla fine degli anni ’60 si cominciavano a usare proiezioni e luci stroboscopiche nei concerti, non avevamo molti soldi quindi usavamo foto e immagini molto essenziali anche dal punto di vista produttivo. Poi siamo riusciti a sviluppare queste idee. Negli anni ’70 avevamo potuto girare un piccolo film in bianco e nero per Trans Europa Express. Oggi usiamo quasi esclusivamente CGA. È stato uno sviluppo continuo.

Kraftwerk 12345678 Zukunfkt Kunstpalast Düsseldorf, 2021. Foto: Peter Boettcher, courtesy Kraftwerk & Sprüth Magers

Vi siete “esposti” al Moma, alla Biennale di Venezia. Oggi diresti che i Kraftwerk sono più un’opera artistica che una rock band?
No, per me non c’è alcuna differenza. Io sono la stessa persona che ha visto suonare Muddy Waters nel 1963. Non ho mai amato le prove al pianoforte, il virtuosismo dell’esecuzione. Invece mi ha sempre interessato comporre, mettere insieme idee prese da ogni linguaggio, dal design come dalla fotografia. Come ti ho detto prima, il mondo dell’arte ha sempre avuto una mentalità più aperta nei nostri confronti. Oggi siamo rappresentati da Monika Sprüth, una grande agente internazionale di Berlino che ci ha messo in contatto con istituzioni come il Moma dove abbiamo suonato tutto il nostro catalogo in 3D

Avete lavorato tanto sull’immagine del robot. Che cosa pensi oggi del dibattito sull’intelligenza artificiale?
I Kraftwerk sono un’intelligenza artistica, non un’intelligenza artificiale. Usando l’immagine dei robot abbiamo sempre messo in evidenza il nostro lato artistico: essere creativi, attenti all’ambiente, aperti a tutto.

Hai detto una volta che i robot aiutano gli artisti ad avere una vita. Su YouTube gira ancora il filmato di una vostra esibizione a Domenica in di fine anni ’70. Quattro Kraftwerk manichini stanno tra il pubblico, voi a fare il playback sul palco. Dopo un po’ non si capisce bene quali sono i robot.
Sì certo, lo ricordo. Avevamo motorizzato i manichini in modo che potessero fare dei movimenti semplici e partecipare alla session fotografiche al posto nostro. Quella volta la casa discografica dovette insistere un po’ per far sedere i nostri manichini in prima fila. C’era un po’ di humour, penso che la gente capì benissimo.

Il presentatore era Corrado, stette al gioco. Quella versione di The Robots è strepitosa e inquietante. In fondo loro rimarrano per sempre li a suonarla, gli umani no.
Quello del robot è un vecchio sogno, arriva dal Medioevo. Non bisogna averne paura. Ho sempre pensato che mentre i robot facevano il lavoro promozionale io avrei avuto più tempo per dedicarmi alla musica. I robot appartengono al mondo dell’automazione, possono suonare come sequencer, come sintetizzatori, oggi come computer. Possono aiutarci ad eseguire musiche umanamente impossibili a differenza di un pianoforte normale, e questo apre delle nuove soluzioni creative e artistiche.

Non hai mai perso l’ottimismo nei confronti della tecnologia?
In realtà quando abbiamo iniziato non era un periodo così ottimista, era pieno di tensioni sociali. Pensavamo a cosa avremmo potuto fare per dare il nostro contributo, essere positivi. Prima di Autobahn ho suonato per sette anni con Florian. I computer sono arrivati molto tardi, allora soltanto alcuni compositori potevano usarli, noi al loro confronto eravamo dei musicisti di strada. Autobahn è ancora musica di strada in un certo senso. Oggi puoi comunicare con qualcuno senza viaggiare, mentre un tempo dovevi farlo fisicamente, e come Kraftwerk il nostro lavoro sulle vecchie tracce è fatto a distanza. Mi piace ancora molto suonare live, suonare “con” la musica, trovare nuove soluzioni ogni giorno. Il mondo d’altra parte è ancora pieno di problemi e di tensioni.

Molti musicisti devono qualcosa ai Kraftwerk, da Bowie agli inventori della techno. Sei stato mai in contatto con qualcuno di loro?
Derrick May e Juan Atkins sono stati sempre molto carini con me. Sono stato molto amico di Ryūichi Sakamoto, che ha scritto le parole giapponesi di Radioactivity, mi piaceva suonare qualcuna delle sue melodie meravigliose. Putroppo anche lui ci ha lasciato.

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