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Rag’n’Bone Man: «La mia storia sulle dita»

Abbiamo intervistato Rag’n’Bone Man, che ci ha parlato di come è partito dalle radio pirata e dalle jam con i suoi amici per arrivare al successo mondiale di “Human”

Rag’n’Bone Man: «La mia storia sulle dita»

“Solo umani, dopo tutto”. Chi aveva conosciuto questo ritornello oltre dieci anni fa grazie ai freddi campionamenti robotici dei Daft Punk, ora deve reimpararlo cantato in un modo tutto nuovo. Ovvero interpretato dalla calda voce di Rory Graham, a.k.a. Rag’n’Bone Man. La sua Human sta compiendo, velocissima, il cammino tipico dei tormentoni. Volendo fare un paragone azzardatissimo, almeno per ora, la figura di Graham sta a metà strada tra Sam Smith e Adele (con cui condivide anche gli stessi premi vinti, tipo il Brits Critics’ Choice, proprio quello che ha aiutato a sfondare la cantante nell’anno del suo esordio con 19). In Italia, Graham si è fatto vedere poco finora: a parte una comparsata televisiva in prima serata e un’apparizione al Festival di Sanremo come ospite internazionale. Per il futuro, ha in programma una data italiana a marzo.

Da quando, lo scorso luglio, è uscito il suo primo singolo, Human, il pezzo è rimasto nelle primissime posizioni di tutte le classifiche, portandosi a casa anche un doppio platino e arrivando a tagliare uno dei traguardi più ambiti del mondo del pop: essere la colonna sonora di uno spot televisivo. Un modo facile facile per allargare il pubblico e diventare subito “quello di Human” per tutti. In più, c’è da sottolineare che la sua figura non passa esattamente inosservata, visto che Rory Graham è un colosso ipertatuato con barba e capelli rossi.

La sua storia parte un sacco di anni fa, come spesso succede, a casa. Uckfield, dove è nato e cresciuto, è una cittadina di poco più di 10mila anime, nel Sud-Est dell’Inghilterra. Ok, c’è Brighton con le sue spiagge a poca distanza, ma basta cercare qualche immagine su Internet ed è chiaro che lì i divertimenti non abbondano. Per fortuna per Rory, a tenergli compagnia c’è la collezione di dischi di papà, da ascoltare in casa. «I miei genitori hanno avuto una grande influenza sulla mia cultura musicale», spiega. «Mi hanno fatto conoscere il soul e l’R&B: così ho iniziato a interessarmi alla musica. Ho provato prima a suonare e cantare quello che ascoltavo a casa, poi sono arrivate le mie prime canzoni». In più, finisce in un giro di amici appassionati soprattutto di hip hop. Per seguirli, decide di trasferirsi a Brighton e inizia con loro una serie di progetti. Poi si sposta ancora, a Londra, dove con Gizmo e Dj Direct fonda i The Run Committee, con cui aprirà i live di rapper americani come Pharoahe Monch e KRS-One. Guardatevi i video di pochi anni fa, con Leaf Dog in particolare, e capirete quanto il percorso di Graham sia profondo e davvero underground.

«In linea di massima, tutti i generi più puramente UK mi hanno influenzato molto, soprattutto cose come la jungle o la drum’n’ bass», mi racconta. «Io e i miei amici, da giovani, avevamo anche fondato una piccola stazione radio privata. Quelle sono state le mie prime volte come MC, da lì è nato il mio vero interesse per la musica, ho capito che potevo fare qualcosa davvero di mio».

E allora, la scelta è stata quella di andare a scavare nei dischi che ascoltava a casa, per prendere le ispirazioni giuste. Insieme al padre, una figura che Graham nomina spesso, ha anche partecipato a una quantità indefinita di session di open mic, esibendosi nei pub locali, ma senza crederci più di tanto, in realtà. Racconta anche qualche aneddoto divertente riguardo la serata del suo 21esimo compleanno, quando si è esibito in un bar della sua città. Complici un paio di drink di troppo, Graham ha tirato fuori un coraggio e, soprattutto, una voce che non sapeva nemmeno di avere.

Così, da quel momento in poi, ha capito che quella poteva e doveva essere la sua strada e, per avercela ben chiara, se l’è tatuata sulla pelle. Sulle dita della mano destra ha scritto Soul, sulla sinistra Funk: l’ha fatto perché, da ragazzino, era rimasto colpito da alcuni motociclisti. «Ho visto questi tizi sulle Harley Davidson con dei tatuaggi con scritto Love da una parte e Hate dall’altra, sulle dita delle mani», racconta. «Ho sempre voluto un tatuaggio come quello da allora, mi sembrava figo. Ma non sono un biker, non ho una moto, quindi non potevo scrivere Love e Hate, capisci? Ho pensato, “Cos’è la mia vita? Quali sono le due parole che la definiscono meglio?”. Ed ecco: Soul e Funk».

E queste parole sono proprio le due linee guida che l’hanno portato fino a qui. Prima c’è stato qualche EP (Bluestown, Wolves e Disfigured, rispettivamente del 2012, 2014 e 2015), poi i primi successi e l’arrivo alla televisione. Non in prima persona però. Wolves, title track del suo secondo lavoro, è stata scelta come sigla di apertura di New Blood, la serie prodotta dalla BBC, che racconta casi intricatissimi che vedono protagonisti gli investigatori londinesi Stefan Kowolski e Rash Sayyad. «È stato emozionante guardarla con mio padre le prime volte che la passavano in tv. L’hai mai vista?», mi chiede. Ammetto di no, senza aggiungere che non è esattamente il mio genere preferito. «Dovresti», consiglia. Propongo un compromesso che accetta, ridendo: guardo i titoli di testa e poi spengo.

Si dice che sia un series-addicted, anche perché il suo nome è ispirato a uno dei protagonisti di Steptoe and Son, sitcom britannica di culto andata in onda tra gli anni ’60 e ’70, poi ritrasmessa a intervalli regolari, come capita anche da noi. Quindi indago sui suoi gusti. «Al momento sto guardando The Last Kingdom, ma so di essere un po’ in ritardo. Mi piace, perché c’è dell’azione ed è molto “inglese”, come stile. Molto bello». Quindi niente Empire, Atlanta o altre cose a tema black music? Eppure sono tra quelle, soprattutto l’ultima, che stanno funzionando di più… «Penso che Empire e le altre serie di questo genere siano in gran parte finzione. Se raccontassero davvero quello che succede, allora non sarebbe così esaltante, te l’assicuro! Ma penso che sia sempre così: anche quando guardi un film, che ne so, sulla vita di Notorious B.I.G. o un altro biopic del genere, devi pensare che è semplicemente un film, e che ci sarà sempre qualche aspetto romanzato ed esagerato, che è stato messo lì apposta per renderlo ancora più interessante».

Ritornando all’album, che ha lo stesso titolo del fortunatissimo esordio, Graham spiega che è frutto di un lavoro davvero lungo. Dentro di sé si sentiva pronto da tempo per preparare un disco vero e proprio, ma è dovuto arrivare Mark Crew a dargli una grossa mano: già produttore dei Bastille (con i quali Rag’n’Bone Man è andato di recente in tour), Crew ha lavorato fianco a fianco con lui negli ultimi due anni. E proprio lui, Ben Ash, noto anche come Two Inch Punch, già dietro le quinte dei dischi di Sam Smith, e Jonny Coffer (che ha Beyoncé e Naughty Boy nel curriculum, solo per citarne un paio) hanno dato alle idee crude e grezze di Graham una forma decisamente più pop e radio friendly. «Dentro ci sono molti stili diversi: potrei dirti che principalmente è un disco soul, ma in realtà c’è anche molto rap, tutto fatto da me (in Human non ci sono featuring, al contrario di Wolves che vedeva Vince Staples, Stig Of The Dump e Kate Tempest, nda). E poi aggiungici delle tracce più solari, ma anche un paio di ballad più lente, che partono direttamente dal mio cuore».

Una delle espressioni più belle e sincere di Rory è quando sorride alzando gli occhi al cielo, un po’ imbarazzato. Lo fa quando capisce che il gioco si è fatto parecchio serio e il suo “io” festaiolo, quello della più profonda provincia Brit, che faceva jam infinite con gli amici durante le trasmissioni della sua radio pirata, fatica a stare nascosto. «Tutto questo successo mi ha un po’ sorpreso, a dire la verità. È arrivato tutto all’improvviso. Non ho avuto neanche tempo di rendermene conto davvero. A me interessa soltanto una cosa: scrivere i miei pezzi, raccontare le mie storie e sperare poi che funzionino, che colpiscano le persone», racconta, allargando le braccia. Per poi provare a dare una spiegazione più profonda. «Credo che Human abbia funzionato bene perché parla di qualcosa che tutte le persone possono capire. Mi sento molto vicino a loro quando la canto. È una cosa che capita a tutti. Soprattutto in un momento così strano e difficile per il mondo, penso che sia necessario dare un significato vero alle canzoni, per fare in modo che la gente le ascolti. Ma che le ascolti davvero».

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