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Stabber, il producer che ha messo nello stesso disco Salmo, Annalisa, Angelina Mango e Noyz Narcos

Un produttore di culto lancia la sfida: riunire rapper e cantanti pop e dare loro un suono contemporaneo, diverso dal solito. Perché anche nella musica «l’Italia è un posto incredibilmente conservatore»

Foto: Roberto Graziano Moro

«Ho ancora questo approccio vecchia scuola che se non c’è un’idea, un concept, allora è meglio non fare niente. So che di questi tempi, in cui tutti fanno tutto un po’ a caso tanto quel che conta è far vedere di esserci ed essere sempre sul pezzo, comportarsi così è un po’ una follia. Lo so. Io però devo trovare un’idea. E devo avere in testa un suono preciso da sviluppare. Tutte cose che oggi spesso sono viste un po’ come delle perdite di tempo… Anche comprensibilmente, eh».

Ride, Stabber, in questa confessione/enunciazione d’inizio intervista. Ma di una cosa siamo certi: è 100% sincero, non sta cercando di vendersi bene all’interlocutore. Che lui sia uno vecchio stampo a livello di attitudine – pur avendo in realtà un suono nuovissimo ed ipercontemporaneo – sappiamo che è vero. E sappiamo anche che la lavorazione attorno a questo album è stata lunga per davvero, molto lunga, visto che nei nostri incontri casuali milanesi (e in quelli incisivi on line, ma ci arriviamo) di questo suo producer album se ne parla reciprocamente, tra incoraggiamenti e sfottò, da un paio d’anni almeno. «Eh sì, alla fine sono due anni e mezzo che ci lavoro», conferma. «Pensa che roba lunga. Ma oh, quando devi far collaborare molte persone e lottare coi loro calendari, va così».

Ma riavvolgiamo il nastro. Anche perché sarebbe lecito che vi chiediate: Stabber? E mo’ chi sarebbe ‘sto Stabber? Per gli appassionati di hip hop italiano più accaniti, è una sorta di culto da sempre, sin dai suoi esordi. Se entri nella scena così dal nulla come protagonista della parte musicale di Artificial Kid, il progetto comune di Danno del Colle der Fomento e di DJ Craim (tra le altre cose, il dj/producer di fiducia del leggendario Kaos One), non puoi che essere ben visto & riverito dai cultori del rap più autentico e/o più underground e privo di compromessi. Senonché puoi accontentarti di fare l’eroe dell’underground duro e puro, trovando la tua formula collaudata e rassicura-puristi; ma visto che lo stesso Artificial Kid era un esperimento atipico e un po’ futurista rispetto ai canoni del rap più classicheggiante, ai più accorti era chiaro fin da subito che Stabber era uno che avrebbe seguito delle traiettorie più strane, più ampie, più ondivaghe, più – come dire – derapanti.

E qui infatti torniamo a Trueno, il titolo del suo primo album, traguardo a cui arriva dopo oltre un decennio di produzioni conto terzi. Considerando che trueno in spagnolo vuol dire tuono, e considerando il tipo di acume e di ironia che è divertente far venire sempre fuori quando si conversa con una persona brillante come lui, viene quasi da dirgli, per il gusto della presa per il culo e del sarcasmo: ah Stabber, hai fatto un album di arrembante e tamarrissimo reggaeton, bravo, complimenti, bravo bravo. Ovviamente le cose stanno in altro modo. «Prima ancora di iniziare a creare le tracce, sapevo già che l’album si sarebbe chiamato Trueno, e avevo già l’idea che ogni traccia sarebbe stata un cerchione diverso: tutto questo ce l’avevo già chiaro in testa».

Trueno e i cerchioni nell’artwork di copertina che rappresentano traccia per traccia sono infatti un riferimento a una smodata macchina prodotta brevemente negli anni ’80 dalla Toyota, la AE86 nella versione Sprinter Trueno, diventata un culto fra gli appassionati di drifting – quelli che si divertono a guidare praticamente sempre in derapata. Ma se appunto il titolo latinoamericano e il riferimento crasso-corsaiolo possono far pensare a un disco urban pronto-uso di urban/reggaeton a cui far mietere stream sulle piattaforme invitando gli ospiti giusti, vivaddio qui si ha davanti ben altro. E lo si capisce fin da subito, dal primo brano.

«Ho sempre saputo che avrei voluto far aprire il disco da un pezzo fatto assieme a Danno e Craim. In fondo la mia carriera nasce dall’incontro con loro. Mi sembrava giusto restituire qualcosa, mettendoli in apertura a quello che è il mio primo lavoro da solista». Già questa è una scelta non scontata e con una certa cazzimma: perché nel disco c’è Salmo da un lato, c’è la novella regina Angelina Mango dall’altro, c’è Coez, c’è Annalisa, giusto per nominarne alcuni, ci sono eroi rappusi consolidati anche tra un pubblico di non super-appassionati come Nitro e Noyz Narcos, tutta gente che per certi versi è molto più strategica e macina-stream per un produttore che ok, è un nome affermato tra i professionisti della scena ma deve ancora farsi largo – eufemismo – tra il pubblico.

«Guarda che proprio Angelina, anche se arriva da un background completamente diverso ed è giovanissima, quindi in nessun modo è stata sfiorata da un certo tipo di rap, è rimasta affascinata da Il profumo delle rose tantissimo. E Salmo non ne parliamo. Eravamo insieme in studio – anche lui non poteva non esserci nel disco, la Daytona fatta per lui nel 2016 è una delle produzioni più importanti nella mia carriera – e si parlava di tutto e di più, ma ogni mezz’ora, quaranta minuti, così dal nulla, se ne veniva fuori con un “Oh ma che pezzo ti ha fatto il Danno, ma che roba incredibile è…”».

In effetti Il profumo delle rose è una traccia emblematica per capire lo spirito del disco: molto meditato e introspettivo da un lato e dall’altro, invece, dal punto di vista musicale, tagliente e assai maniacale nel cercare una interazione perfetta tra parte strumentale e vocale. Interazione perfetta, e soprattutto originale, sofisticata, molto rifinita. Di tutti i producer album usciti in questi anni, quelli in cui produttori conto terzi in campo hip hop/urban finalmente si prendono il loro momento della ribalta, Trueno è davvero uno di quelli con una marcia in più, con una sensibilità ed una ragion d’essere autentica.

«Volevo una cosa più adulta, dal punto di vista musicale. Nel rap puoi trovare il loop, farlo andare avanti, metterci sopra una voce ed avere così la traccia fatta e finita, senza troppi sbattimenti; ed anche nel pop ciò che paga spesso è la semplicità, senza andare a complicarsi la vita. Ho lavorato invece in tutt’altro modo. Dopo che le parti vocali sono state registrate, ho rimaneggiato parecchio ogni singola traccia: è stato un lavoro praticamente di artigianato, di quelli che si facevano una volta, perché davvero volevo che la musica seguisse la voce e che entrambe avessero, al 100%, una pasta comune, enfatizzando con questo processo anche il valore del testo, delle parole, dei concetti. Non ho problemi a dirlo, guarda: credo di aver messo lo stesso impegno nel costruire e soprattutto limare ogni singola canzone in questo album di quello che molti altri ci mettono per fare cinque dischi interi».

Già, perché non è il caso di parlare della sola Il profumo delle rose: perché se da un lato è emblematica per una serie di scelte e di modus operandi, dall’altro potrebbe sviare. Trueno è a modo suo un disco molto pop, e pure un disco molto femminile. Lo capisci dalla presenza della già citata Annalisa, ma anche di Noemi, Gaia, Ginevra, Laila Al Habash, in duetto con rapper (Nitro, nel caso di Noemi), mezzi rapper (Coez con Annalisa), in solitaria (Gaia) o in coppia (Ginevra e Laila Al Habash).

«Bel paradosso per me che arrivo dal rap italiano duro e puro, quello insomma più peloso, eh?», ride Stabber. «E io sono ancora un sacco fan di quella roba lì, sia chiaro. Metti il loop, mettici sopra uno che fa un rap della madonna, e io ancora adesso esplodo di gioia come un ragazzino, come un idiota. Ma fra gli ascolti che mi hanno cresciuto c’è anche tanta elettronica d’autore, quella insomma in grado di creare anche canzoni preziose e ascolti sofisticati. Ecco, ho voluto mettere tutto assieme. Sperando di non essere risultato in qualche modo forzato, o grottesco, ma calibrato e sensato, pur derapando tra momenti più scarni e minimali e altri molto più pieni e melodici».

Il risultato finale, soprattutto in alcune tracce, possiamo comunque definirlo pop? «Assolutamente sì. Ci sono dei ritornelli che sono pop al 100%. Ma il pop come deve essere fatto, come dovrebbe essere sempre fatto. E questo non perché lo dico io, perché sono bravo io, ma perché semplicemente il pop nel mondo è fatto così. In Italia è un po’ attorcigliato, un po’ avvitato su se stesso, all’estero invece è molto più aperto e contemporaneo, è molto meno conservatore di quello che ci vogliono far credere qui da noi».

Ecco, su questo concetto ci si sofferma un po’. Perché è importante. «Secondo me c’è in Italia lo spazio per avere tanti modi differenti di pop, per creare nuovi tipi di suoni che vadano per bene per il pop». Eccallà, beccato: ho capito caro Stabber, dopo i tuoi esordi da rappuso incarognito e futurista ora vuoi diventare una sorta di Dardust 2.0. Su questo Stabber scoppia a ridere: «Per carità, Dardust è bravissimo, e non so ho la capacità e nemmeno la volontà di mettermi a competere con lui. Non è che bisogna fare la gara con lui, il punto è capire che c’è spazio anche oltre a lui per fare del pop che sia tanto interessante quanto efficace. Da noi invece troppe cose suonano simili fra di loro: e questo è per certi inevitabile, perché il giro di autori e producer è più o meno sempre lo stesso. E poi se una cosa funziona, si decide inderogabilmente deve essere ripetuta fino allo sfinimento: vedi la cassa in quattro all’ultimo Sanremo, sembrava di stare alle giostre a sentirsi tutto il Festival da quanto saltava fuori di continuo. Questo è un problema tutto italiano. Perché all’estero, hai visto i grandi nomi del pop cosa fanno? Chiamano un sacco di producer giovani, o comunque nuovi, non scontati, non prevedibili: perché sentono l’esigenza di avere qualcosa di nuovo, qualcosa di fresco. Invece l’Italia si conferma un posto incredibilmente conservatore – d’altro canto c’abbiamo al governo la Meloni. Tutto torna, no?».

Stabber con Salmo. Foto: Roberto Graziano Moro

Ad ogni modo, fra le cose-che-funzionano, nel mondo pop-rap-urban di casa nostra, ci sono anche i producer album. Un tempo una rarità, oggi una costante di chiunque sia nel giro giusto delle produzioni conto terzi. «Io manco lo volevo fare, questo disco. Ma via via sempre più persone dell’ambiente hanno iniziato a dirmi “Lo devi fare, un tuo album”, “Fallo”, “Cosa aspetti”, “Non puoi non farlo”. E alla fine ho ceduto: vabbé facciamolo». Non ci credo che non lo volevi fare, su. «Invece devi crederci. Ma non perché non mi interessasse la sfida artistica o perché avessi paura di non avere abbastanza cose da dire, figurati. Lì sai che sono un rompicoglioni che non si tira indietro. No: mi terrorizzava l’idea di dover stare appresso a tipo 20 persone, per avere tutti gli ospiti che avevo in testa di avere. E facevo bene ad essere terrorizzato, guarda: è stato un incubo. Non per colpa di qualcuno in particolare, è proprio il sistema che crea ormai un certo tipo di complicazioni esponenziali. Io non so come fa certa gente, tipo Night Skinny, ad averne 40, tra ospiti e collaboratori… Io, per reggere un simile livello di stress, dovrei imbottirmi di Xanax».

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