Quella badass di Joan Baez: intervista | Rolling Stone Italia
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Quella badass di Joan Baez

Una lunga chiacchierata: la protesta nell’era di Trump, l’America che s’avvia al fascismo, la volta in cui è andata a ballare con Lana Del Rey, l’ultima lettera che ha spedito a Dylan. E no, non è rimasta ferma agli anni ’60

Foto: Ulysses Ortega per Rolling Stone US. Hair & makeup: Lee Stewart. First assistant/Cam Op: Ethan Redfield. Gaffer/Lighting Tech: Kevin Dorman

La prima cosa che si nota entrando nella casa di Joan Baez a sud di San Francisco sono i grandi ritratti che ha dipinto di Volodymyr Zelensky, Martin Luther King Jr., Anthony Fauci, Gandhi e del deputato americano John Lewis. Per anni, Baez li ha messo in mostra due alla volta nel giardino davanti a casa. Ora sono appoggiati malinconicamente sotto al portico. «Subito dopo l’elezione di Trump qualcuno ha fatto la spia al comune. Mi hanno chiesto se avevo i permessi. Che brutto gesto».

E così, mentre un’amica toglieva i dipinti, Baez è andata nella casa sull’albero del suo giardino e ha sparato a tutto volume la musica della soprano Renée Fleming. «Disobbedienza civile», dice con un sorrisetto ammiccante. «Giusto per far qualcosa».

Per decenni Baez, che oggi ha 84 anni, ha fatto “qualcosa” nel nome della musica, della giustizia sociale, dei diritti civili. È stata osannata, criticata (a volte anche da sinistra), derisa, ignorata, venerata e occasionalmente riscoperta. Quella parte della sua vita sembrava essersi avviata alla conclusione sei anni fa quando Baez ha portato a termine il tour d’addio che, assicura oggi, è stato davvero l’ultimo.

A quel punto Baez è entrata in una fase della vita fatta di relax, pittura, poesia e balli al ritmo dei Gipsy Kings. Insomma, avrebbe dovuto vivere in tutta tranquillità nella grande casa, eccentrica ma elegante, dove abita da 55 anni e che ospita 13 galline che scorrazzano in giardino, le forniscono uova fresche e di tanto in tanto entrano in cucina per beccare il cibo per gatti. «Adesso posso anche farmi la manicure», dice mostrando le unghie dal colore blu marino.

E invece Baez, come in fondo dimostra il dispetto che le hanno fatto per i ritratti degli attivisti, continua a essere tirata in ballo A partire dal biopic su Bob Dylan A Complete Unknown, che ha riportato alla luce la sua relazione travagliata e lontana nel tempo con Dylan. L’interpretazione di Monica Barbaro ha introdotto Baez, la sua musica e la sua immagine da Madonna del folk a una generazione nata decenni dopo di lei. E poi c’è di nuovo Trump. Quando siamo venuti a trovarla l’ultima volta, era appena stato eletto presidente. Ora che è tornato alla Casa Bianca, più distruttivo e inquietante che mai, Baez si è ritrovata di nuovo alle manifestazioni e ha pubblicato con Janis Ian una nuova canzone di protesta, One in a Million. Sta anche cercando un nome per una nuova organizzazione di cui fa parte e che offrirà sostegno alle famiglie di immigrati i cui capifamiglia sono stati arrestati e imprigionati dagli agenti dell’ICE, e pubblica parole sagge sui social come Facebook (osservando un uccellino appena nato nel suo vialetto, scrive che «la sua bellezza ci offrirà speranza nell’oscurità e ci libererà dal male»).

Baez si sta avventurando in un mondo nuovo. Dolcevita nero e capelli raccolti in un caschetto argento, mette su il caffè e dice che «è una fase interessante che non ho mai vissuto prima».

Foto: Ulysses Ortega per Rolling Stone US

L’ultima volta che ci siamo visti qui è stata subito dopo l’elezione di Trump nel 2016. Chi avrebbe mai pensato di ritrovarci di nuovo nella stessa situazione?
Nessuno avrebbe potuto immaginarlo, nessuno avrebbe potuto prevedere che saremmo arrivati a questo punto. Sai, son cose che uno pensa accadano in altri Paesi, quelli che chiamiamo Paesi di merda. A causa di questa gente, anche il nostro sta diventando un Paese di merda che si comporta nel modo malvagio in cui si comportano i Paesi di merda. D’altra parte si sapeva che quelli della Heritage Foundation stavano tramando nell’ombra. E noi molto semplicemente non ci siamo fatti trovare preparati.

Dove ti trovavi la notte delle elezioni?
Ero qui, ma non ho seguito i risultati. Mi è bastato vedere la faccia del mio vicino, ho capito subito che era un disastro. Ma la verità è che questa cosa la si prepara da 50 anni. Non si tratta del solo Trump, un uomo disgustoso che dà alla gente il permesso di fare quel che fa lui.

Qual è la cosa più scioccante che ha fatto questa amministrazione?
Solo nei primi 100 giorni, spedire la gente così (schiocca le dita, nda) in prigioni dove si sa che torturano la gente. È lo stesso meccanismo che si è visto in Cile, in Argentina, in Brasile e nel blocco orientale, parlo della spietatezza e dei passaggi che portano alla dittatura. Mi preoccupa la velocità con cui lo stanno facendo e la direzione in cui vanno, la crudeltà che si manifesta ogni giorno. Ho apprezzato le parole di Bruce Springsteen, che ha detto «sta succedendo adesso», perché tendiamo a dire cose tipo «ci aspettano quattro anni difficili». E invece no, è adesso.

Segui le notizie?
Dopo essermi ritirata dai tour pensavo che non lo avrei fatto più Ora vado su Substack, guardo Stephen Colbert, Jon Stewart, John Oliver. E poi metto su film come Twilight, una schifezza meravigliosa da guardare…

«Essere coraggiosi significa agire anche se abbiamo paura»

Prendi…
Droghe? (Ride).

Sì, anche quelle, ma volevo dire se prendi come positive le notizie dei tribunali che bocciano le iniziative di Trump.
Cerco di trarne un po’ di conforto, sì. La mia bellissima nipote Jasmine è una cantautrice, ma ha deciso che vuole diventare avvocata. Inizierà la scuola di legge ad agosto, che tempismo. Vuol diventare costituzionalista, ma è probabile che fra non molto non avremo più nemmeno una cazzo di costituzione. Quindi, tutto quel che posso fare con mio figlio e mia nipote è affrontare un giorno alla volta e incoraggiarla a continuare su questa strada.

Stavo riascoltando la tua esibizione a Woodstock, quando dici alla gente che degli agenti federali si sono presentati a casa tua e del tuo ex marito e attivista David Harris per arrestarlo per renitenza alla leva. Avete anche fatto una festa per salutarlo. Quell’epoca ti ricorda quel che sta accadendo oggi?
Le cose sono così diverse che manco riesco a fare un paragone. La gente mi chiede: è come gli anni ’60? Io rispondo che i ’60 al confronto erano una festa in giardino. Cioè, per alcuni non lo sono stati, alcuni hanno molto sofferto. Ma oggi è una… macchina.

Nel tuo secondo memoir scrivi dell’impatto avuto su di te dalle parole di Martin Luther King. C’è qualcuno oggi che ti ispira allo stesso modo?
Il reverendo William Barber è venuto a cena l’altra sera, è un amico. Ha lo spirito di Dio dentro di sé e vuole diffonderlo. Stiamo guardando una valanga che scende e sta per travolgerci, bisogna muoversi come ha fatto lui che è andato alla rotonda del Campidoglio l’altro giorno e l’hanno arrestato. Stava pregando. «Dovevo farlo», ha detto.

E Alexandria Ocasio-Cortez?
È brava. È sveglia. Si è messa in gioco, ma oggi… una volta incoraggiavo le persone: «Forza, venite con noi, ci arresteranno, ma non importa». Ora è ben più pericoloso. Oggi si rischia anche solo a stare in strada con addosso una maglietta con scritto “Sono un immigrato illegale”. Non ho mai provato questo tipo di paura. Non avevo paura quando finivo in prigione all’epoca e sono stata in posti in cui c’era da aver paura, il Vietnam, il Sud, il Ku Klux Klan.

Com’è che non avevi paura?
La negazione. E il bisogno di andare avanti, che era più forte di ogni timore. A volte avevo paura, sì, ma il coraggio è una cosa strana. Non è che si nasce coraggiosi, lo sei quando sei disposto a fare le cose anche se hai paura. Per darti un’idea di quanto nero possa diventare il mio umore oggi, la mia battuta più nera è questa qua: la buona notizia sul cambiamento climatico è che, se arriva presto, Trump non avrà tempo di costruire i campi di sterminio. Tu ridi, ma guarda che lo farà. Si sta muovendo così in fretta che la mia battuta non è nemmeno più divertente.

Il timore è che, in caso di grandi proteste, Trump possa mandare l’esercito e dichiarare la legge marziale.
Muore dalla voglia di avere un pretesto per farlo. Nulla potrebbe rendergli le cose più facili. Chi pensa seriamente di poter provocare un cambiamento sociale con la violenza è un ingenuo. No, vieni schiacciato (l’intervista è stata condotta prima delle proteste a Los Angeles, ndr).

Foto: Ulysses Ortega per Rolling Stone US

Pensi che i risultati ottenuti con le le battaglie fatte nei ’60 siano stati azzerati?
Non è che passo il tempo a preoccuparmi del fatto che stiamo tornando indietro. Le cose non restano mai come vorremmo. Persone come Havel o Mandela fanno cose straordinarie che a volte durano, ma poi arriva sempre qualcuno che rovina tutto. Dobbiamo ricordare cos’è il tessuto dell’America. Continuo a pensare ai neri e ai bianchi seduti assieme al bancone di un diner nel Mississippi. Erano atti di coraggio enormi e hanno cambiato le cose. È il tipo di impegno che ci serve oggi. È come se quel tessuto forse stato strappato.

Forse è solo il pendolo della storia che oscilla, come Reagan dopo Carter o Trump dopo Obama.
(Si fa particolarmente seria, nda) Questa volta è diverso. Non so come si possa rimediare a quello che è già stato fatto.

Hai cantato a qualche manifestazione anti-Trump e pro-democrazia. Com’è stato tornare a esibirti?
Ho una voce più bassa adesso ed è una cosa che mi rifiuto di accettare perché mi impedisce di essere la famosa soprano. Ecco perché ho smesso di cantare. Ma da qualche parte la voce c’è ancora. Ho esplorato la gamma più bassa, ho trovato i brani che vanno bene.

Quali canzoni riesci ancora a cantare?
Sono tante, da Imagine a tutte le canzoni dei diritti civili. We Shall Overcome è bellissima, ma ci riporta troppo indietro nel tempo. Ci vuole qualcosa di più attuale.

In effetti oggi non si sentono molte nuove canzoni di protesta.
Non vorrei mai far parte di un movimento senza musica, ma è vero quel che dici. Ci serve un inno, ma è impossibile scrivere un inno. One in a Million ci si avvicina, ma non è una cosa che puoi tirare fuori dal nulla, deve arrivare da sola. Imagine è ancora bella. I pezzi di Dylan sono ancora conosciuti nel mondo, ma secondo me non hanno lo stesso significato di We Shall Overcome. Certo, già allora avevo il buonsenso di sapere che non avremmo superato ogni ostacolo e ottenuto la pace nel mondo. Oggi, è ancora più evidente.

Nella tua raccolta di poesie Quando vedi mia madre, chiedile di ballare, hai scritto a proposito di Dylan: “Chi sta scrivendo quel genere di cose oggi?”
Ho chiesto a Josh Ritter di scrivere un pezzo e lui se ne è uscito con I Carry the Flame che si avvicina a una canzone folk da manifestazione alla Pete Seeger. L’ho cantata un po’ alla manifestazione del primo maggio. Ci servono più canzoni come questa e come One in a Million di Janis.

Conosci Jesse Welles, il cantautore politico del Sud?
Quel ragazzo è straordinario. Sta andando da qualche parte. Bisogna incanalare quell’energia. Quanti anni ha?

Ha 30 anni. Cosa ti ha colpito delle sue canzoni?
Sono autentiche. Vengono fuori così, naturalmente. Ti attraversa. Così mi pare, almeno.

«Se Bob Dylan mi ha chiamato? Che domanda stupida»

Segui le cantautrici di oggi?
Ascolto tutto quel che mi gira mia nipote. Ho iniziato ad apprezzare parecchio Lana Del Rey. Mi è piaciuta anche Chappell Roan. Quando con mio figlio Gabe e Jasmine facciamo dei viaggi, mettiamo in loop Lana e Hozier. Sono amica di Lana. Non scordare di menzionare la mia cotta per Hozier. Portami in chiesa con quel ragazzaccio.

Come hai conosciuto Lana?
È venuta fuori dal nulla e mi ha chiesto se volevo cantare con lei al Greek Theatre. E io ho pensato: da dove cazzo salta fuori questa cosa? Non ne avevo la minima idea. Scherzando le ho detto: «Guarda che il tuo pubblico è fatto da sedicenni che manco sanno chi sono». E lei ha risposto: «Beh, dovrebbero saperlo». È un rischio per una giovane cantautrice, perché se presenti sul palco Joan Baez, un terzo del pubblico non sa chi sia, eppure corrono comunque quel rischio. Taylor (Swift, che ha invitato Baez sul palco nel 2015, nda) ha fatto la stessa cosa. Alcune persone della generazione di Lana dicono che sono una badass, una tosta ed è fantastico. È una donna interessante. Vive un po’ in un altro mondo, ma apprezzo lei e la sua musica.

Che storia c’è dietro il verso che Lana ti dedica in Dance Till We Die: “I’m coverin’ Joni and dancin’ with Joan”?
È venuta a trovarmi, abbiamo cenato, siamo andate in un posto senegalese a San Francisco dove vado a ballare da anni. Lei non ha ballato, sua sorella sì. Per certi versi l’ho trovata molto, ma molto timida. Ho ballato io per tutt’e due. Mi ha regalato una bellissima collanina d’oro con su scritto “Joanie”.

Qualche anno fa, è scoppiata una polemichetta su The Night They Drove Old Dixie Down, la canzone di Robbie Robertson con The Band che anche tu hai cantato con successo e questo perché è narrata dal punto di vista di un bianco del Sud durante la Guerra Civile. Qualcuno ha detto che dovrebbe essere riscritta o persino cancellata. Tu come la vedi?
Ci stavo pensando proprio stamattina mentre facevo ascoltare One in a Million alla mia amica regista Karen O’Connor e pensavo: «Cristo, io manco ascolto le parole delle canzoni». Do priorità alle emozioni e con Dixie è stato così. Non sapevo cosa dicesse esattamente, la trovavo semplicemente meravigliosa. È come quando canto in una lingua straniera: una volta che ho imparato le sillabe, non so nemmeno cosa sto cantando e non fa alcuna differenza. Dixie non era un pezzo che mi chiedevano spesso, ma se qualcuno voleva sentirla ed ero dell’umore giusto, la cantavo. So essere politicamente corretta al punto giusto (sorride). Sapevo che, prima o poi, qualcuno avrebbe sollevato la questione. Ma chi se ne frega? È una canzone stupenda.

Foto: Ulysses Ortega per Rolling Stone US

Quand’è che hai saputo di A Complete Unknown?
Ne sentivo parlare e non sapevo se sarebbe uscita una cosa ben fatta bene o una robaccia. Poi ho capito che facevano sul serio e che sarebbe stato un vero film.

Qualcuno del film o dell’entourage di Dylan ti ha contattata, visto che sei un personaggio nella storia?
Scherzi? Sono stata io a contattare gli attori: «Volete parlare con me?». Prima mi ha chiamata Monica, poi Ed Norton. Abbiamo chiacchierato a lungo. Monica m’ha detto: «Se ti piace, dimmelo. Se non ti piace, però, non dirmelo». Le ho detto: «Senti, se non ci piace, lanceremo popcorn verso lo schermo, ma credo che ci piacerà».

Quindi, niente messaggi da Dylan?
Ma dai. Hai lavorato abbastanza a lungo a Rolling Stone per conoscere la risposta. (Imita Dylan, nda) «Ehi, Joanie, indovina un po’, stiamo facendo un film». Che domanda sciocca.

Quando l’hai visto?
Non sono andata il giorno di Natale (quando è uscito negli Stati Uniti, nda), ma quella settimana, con il mio gruppo di amiche. Mi hanno chiesto se volevo vederlo in privato. Ho detto di no.

Che impressione ti ha fatto?
La gente del mio entourage era indignata, controllavano ogni dettaglio. Io ho detto di lasciar perdere. È un film divertente. Fa capire l’atmosfera del Village, anche se io non ci ho mai vissuto, a parte quel breve periodo con Bob. E non era il Chelsea Hotel, era l’Earle. Ma sono dettagli, capisci? Qualcuno mi ha chiesto: «Hai davvero fatto quella cosa a Bob?» (fa il dito medio, nda). «No, ho fatto questo» (mostra entrambi i medi, nda). Ma ero contenta che avessero colto l’atmosfera. La musica è brillante. Chalamet ha fatto un buon lavoro. Era un po’ troppo pulitino. Avrei potuto dargli qualche dritta.

Cioè, nel film, Bob non sembra abbastanza sporco?
Esatto. Ma faceva parte del fascino, immagino. Il fenomeno non lavato.

«Divertirsi è diventato un atto di resistenza»

Cosa hanno colto bene di Bob?
Oh, un sacco di cose. I movimenti, le espressioni del viso, il modo di parlare, persino un po’ il canto. L’atteggiamento. Intendo: un brutto atteggiamento.

E di te?
Alcune inquadrature da dietro di Monica e Dylan erano sorprendentemente simili a me. La gente diceva che la sua voce parlata è simile alla mia. Ci ha lavorato su. Ha imitato anche questa cosa (si strofina le dita una con l’altra, nda), cosette come il mio tic nervoso. L’ho vista a un evento stampa e le ho chiesto: «È una cosa tua o l’hai presa da me?». Ha detto che l’aveva notata osservandomi.

Chalamet sembra aver colto anche i gesti nervosi con le mani di Dylan.
(Annuisce e piega all’indietro il pollice, nda) Bob ha un pollice che si piega così. Non tutti ce l’hanno. Qualcuno mi ha detto che se hai un pollice che si piega così significa che sei un assassino (ride).

Nel film si mette in scena un triangolo tra te, Bob e Suze Rotolo, ma per molti le cose non sono andate esattamente così.
Beh, non è successo davanti a me. Pensavo di essere arrivata dopo Suze Rotolo, ma non ne sono nemmeno sicura. Non ho chiesto. Non chiedere, non dire. Da quel che ho sentito, non le hanno reso giustizia. Ma sono contenta che Bobby Neuwirth sia nel film. E il vecchio e buffo Albert Grossman. L’attore gli somiglia proprio.

Dopo più di 60 anni, cosa affascina ancora le persone di te e Bob?
Se mi cerchi su Google, trovi un paragrafo su di me e poi subito “Joan Baez e Bob Dylan”. L’altro giorno però mi hanno fatto un bel regalo. Una ragazza di 23 anni, assistente in una clinica dove sono andata, ha scoperto chi ero. Ha detto: «Ma sei famosa!». «Mah… cercami su Google». Poi ha indicato una foto di Dylan e mi ha chiesto: «E questo qua chi è?». L’ho ringraziata e gliel’ho spiegato. Se sei in una stanza con Bob, vieni oscurata. Ma c’è gente peggiore a cui venire associata.

In una recente intervista hai parlato di una lettera che hai scritto a Dylan esprimendogli i tuoi sentimenti. Gliel’hai mandata, ma senza il tuo indirizzo, né modo per contattarti.
L’ho scritta una decina di anni fa. Lo stavo dipingendo nel mio piccolo studio, un ritratto di quand’era giovanissimo. Doveva avere 21 anni o giù di lì. Ho messo un suo disco, ho cominciato a piangere. Ho pianto per ore mentre dipingevo e quel pianto ha lavato via ogni cosa. Ha messo fine a tutto. Non c’era più risentimento. Ho avuto la fortuna di averlo nella mia vita, di cantare quelle canzoni. La gratitudine ha preso il posto della frustrazione, del dolore, e delle stronzate.

Cosa c’era scritto?
Gli ho detto molto semplicemente quel che ti ho appena detto.

Foto: Ulysses Ortega per Rolling Stone US

Quando ti ho intervistata nel 2017 mi ha detto che il tuo nome per un certo periodo era associata alla sfiga, soprattutto agli inizi degli anni ’80, quando eri senza contratto discografico.
Se avessimo fatto una demo con su scritto un generico “Giovane cantautrice”, probabilmente avremmo avuto più possibilità di essere ascoltati e presi sul serio. In questo senso, mi faceva molto male essere una leggenda, ma non più attuale.

Pensi che il film, che ti mostra come una tipa tosta cambierà questa percezione su di te?
Lo spero. Non che ci abbia fatto troppo caso, ma so che mi ha dato una visibilità che prima non c’era.

Sono passati sei anni dall’ultimo concerto del tuo tour d’addio. Hai qualche rimpianto?
Assolutamente no. Non sapevo cosa aspettarmi, sai, tutti dicono che prima smetti e poi cambi idea e torni a suonare. Elton John mi ha detto che non vedeva l’ora di stare coi figli e invece è tornato in tour… Non ricordo qual è stato il primo concerto a cui sono andata dopo aver smesso di andare in tour. Ho pensato che sarebbe stata una prova interessante. E sai cosa? Non mi è mancato, per niente. Era il momento giusto per farlo. Voglio dire, dieci serate all’Olympia, era il momento di smettere. Non voglio tornare per farne venti (ride).

Un paio di anni fa sei stata protagonista di un documentario, I Am a Noise, in cui hai rivelato che tu e tua sorella Mimi avete subito abusi sessuali da parte di vostro padre. Cosa ti ha spinto a dirlo a tutti?
Una serie di cose. Avevo 79 anni quando abbiamo iniziato il film, quindi perché non parlare in modo onesto, senza cercare di apparire più carina di quel che sono o quel che è? Ho vissuto pienamente. È interessante quante persone hanno avuto una reazione, magari quella rivelazione può spingere qualcuno a guardare nel proprio passato dove non avrebbe mai voluto guardare. Una donna mi ha detto che la madre settantenne era scoppiata in lacrime e le ha raccontato cose che non le aveva mai detto, nel senso degli abusi subiti. Karen (O’Connor, co-regista del film, nda) diceva che tutte hanno una qualche esperienza. Raccontare la tua e dare modo alle altre di fare altrettanto è stato uno degli aspetti positivi di tutta questa cosa.

E tu cosa hai guadagnato personalmente dal rendere pubblica quella storia?
In un certo senso mi sono sentita sollevata. Per tanto tempo la gente ha pensato che fossi calma e pacificata. E invece no! Mi è stato utile mostrare le battaglie che ho affrontato e quanto sono imperfetta da ogni punto di vista.

La gente ti considera impassibile.
Faccio un bel po’ di scompiglio da sola.

Il documentario raccontava anche la tua relazione con un’altra donna, Kim Chappell, negli anni ’60.
Nessuno ci ha fatto granché caso. È roba vecchia. Di certo non avremmo potuto dirlo all’epoca. Sai, Jasmine ha un’amica che si è appena dichiarata bisessuale e hanno fatto una festa per questo. Ai tempi miei e di Kim non se ne parlava e oggi è quasi il contrario. Si entra a far parte di una specie di club dei diritti LGBTQ e delle donne. Ora sono come punti a favore.

Quale pensi sia il tuo ruolo di attivista con Trump in carica?
Credo che la mia vita sarà di nuovo definita dallo stato del Paese. Incoraggii la gente a non cercare di starne fuori, ad agire. Che ne dici di presentarti con un’amica a un angolo di strada con una maglietta con su scritto “Sono un’immigrata clandestina”? Non aspettare che ci siano 30 mila persone. Però ho anche un dilemma. Ai tempi, quando sono stata brevemente in carcere, ti davano le medicine, ti facevano fare telefonate. Non era carcere pesante. Oggi ho problemi a incoraggiare gli altri a fare atti di disobbedienza civile e questo perché non andrei più in galera con loro. Come molte persone della mia età, sarei inutile senza le medicine che prendo regolarmente.

Che tipo di consigli ti chiedono più spesso?
«Che posso fare?». La mia risposta è: trova una cosa che senti tua e che non sia su larga scala. La prossima volta che senti che è troppo aggiungi un «e…». «È troppo e devo fare qualcosa» O anche: «Ho paura e adesso bevo una margarita». Ci saranno piccole vittorie, aggrappati a quelle e vai avanti, vedremo cosa succede. Sono una sostenitrice del «continua a farlo senza aspettarti di cambiare il mondo». Mettici la faccia adesso. Alzati. Presentati.

Divertirsi è diventato un atto di resistenza. L’azione è l’antidoto alla disperazione. Ci vogliono impauriti. Sono andata alla laurea di mia nipote a Miami e alla fine ho ballato con le drag queen. Mi sono detta: è così che si fa. Fai la matta. Bevi. Sono andata in uno strip club. È stata la mia grande dichiarazione della settimana. Ballare con una drag queen lasciva e postarlo, perché vorrebbero abolire la scena drag. Sono sicura che Trump vorrebbe abolire anche me. Se dovesse succedere, spero almeno di essermelo meritato.

Da Rolling Stone US.

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