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«Quando Mina mi ha scritto: Massimo, sentirti suonare è cchiù bello ’e fottere»

Quarant’anni di dischi assieme, fiducia e libertà, talento e ironia, una congestione bellissima, l’importanza del «culo della musica». Massimo Moriconi e la nostra cantante migliore, piccola storia di un grande legame musicale

Foto: Angelo Deligio/Mondadori via Getty Images

Quarant’anni tondi tondi di convivenza artistica. È l’invidiabile traguardo raggiunto da Massimo Moriconi, bassista di fiducia della più grande cantante pop italiana dal 1983 (anno in cui usciva Mina 25). Una liaison tra le più lunghe e prolifiche della storia discografica italiana, che di Mina ha accompagnato tutta la seconda fase, quella successiva al ritiro dalle scene. Un rapporto che non è solo professionale ma soprattutto umano, perfetto esempio di quell’attitudine sociale che Massimo ama definire con una delle sue metafore preferite: «Il culo della musica».

Ecco, ti chiederei di illustrare il concetto…
È tutto ciò che della musica non è immediatamente visibile, i rapporti umani tra chi la fa, il loro lavoro di squadra. Tutti dovremmo essere in contatto con tutti, ma sono pochi a riuscirci, perché per farlo devi avere la capacità di ascoltare, non solo di dire. La musica è una cosa fisica, proprio come il culo, e questo lo scopri quando inizi a farla a livello professionale, confrontandoti con gli altri musicisti. Devi conquistartela, la musica, non ti regala niente… ha già Bach, pensa se sta ad aspettare te.

Ora, Bach è proprio un assist perfetto: da Johann Sebastian al primo responsabile del tuo incontro con Mina, Vittorio Bacchelli in arte Victor Bach.
Ah ah, grande! Victor è stato un mentore, un personaggio eccezionale, purtroppo se n’è andato qualche anno fa. Era la prova vivente che in quel periodo la meritocrazia regnava ancora.

Come vi eravate incontrati?
Al bar della RAI in via Asiago. Io avevo appena pubblicato il mio primo album solista (Bass in the Sky, 1982, nda), per il quale avevo chiamato Enrico Pieranunzi e Bruno Biriaco, due miei idoli, ed era un disco in cui c’era tutta la mia natura: il crossover, dal jazz al rock progressive, che poi è la mia vera radice musicale. Quindi suonavo sia il contrabbasso sia il basso elettrico. In quel periodo ero in una delle due orchestre della RAI, e Bach stava lavorando con l’altra. Me lo presentarono al bar e gli diedi il mio disco… non c’erano i CD, gli diedi proprio il vinile. Manco se lo sentirà, pensavo… Invece dopo un mese mi chiamò. Dice: “Sei libero per fare un disco di Mina?”.

E come è stato il primo incontro in studio con lei?
Be’… molto d’impatto! Erano le 10 di mattina e stavo leggendo la parte prima di iniziare a registrare. A un certo punto sento dietro di me un urlo tipo James Brown: “Woooow!”. Era lei. È stato uno shock, anche perché era la prima volta che la vedevo di persona, una grandissima emozione… durata quarant’anni.

In effetti, a quel tempo si era già ritirata dalle scene da un po’…
Sì, io sono stato il suo bassista in tutto il periodo successivo al ritiro. Non ne abbiamo mai parlato personalmente, ma da quello che mi raccontava Massimiliano [Pani] credo si fosse stufata dell’ambiente, e ritengo sia stata la prima ad avvertire l’avvicinarsi del nulla che oggi ci invade.

Non è singolare che un rapporto così duraturo – anche tra i suoi musicisti, intendo – sia maturato unicamente in studio, senza l’abituale “rodaggio” dei tour?
Guarda, paradossalmente in tournée può essere peggio, perché è come una convivenza 24 ore su 24, mette il rapporto più a dura prova… oddio, però è anche vero che in tournée suoni un’ora e mezza la sera, in studio stai lì anche otto ore… sono due cose diverse, come il cinema e il teatro.

Una cosa che mi sorprende è il fatto che, a dispetto di una discografia sterminata, la rete di Mina sia in realtà formata da un numero piuttosto limitato di persone di fiducia.
Hai detto la parola giusta, fiducia. Poi, voglio di’, quando c’è un musicista che ti porta delle idee, che conosci, che non ti dà problemi, e che è pure simpatico (ride)… ritorniamo sempre al culo della musica, non è solo come suoni ma come ti rapporti. Il che non vuol dire essere ruffiani, ma avere la capacità di amare quello che ti viene proposto di suonare. Anche nei lavori a volte più oscuri, più intricati, cerco sempre di metterci qualcosa che mi soddisfi, e ci riesco sempre. Non sono un radical chic… so’ d’Amatrice, non potrei.

Massimo Moriconi. Foto: Ivan Romano/Getty Images

In che modo, nel lavoro in studio, si esprime questa sua fiducia verso i propri musicisti?
Te ne dico solo una. È consuetudine, dopo aver registrato un brano, andare dall’artista o dall’arrangiatore, e chiedere: “Il basso va bene o pensate che debba cambiare qualcosa?”. Lo feci anche con lei e la risposta fu una fragorosa risata di un minuto. Dico: “Senti, se ho detto ’na barzelletta dimmela, perché non l’ho capita”… E lei: “No, Massimo, è che mi chiedi questa cosa, ma sul disco c’è scritto: basso Massimo Moriconi. Sei tu che decidi”.

E questo non ti era mai successo prima?
No, succede solo con i grandi. Più scendi di livello, più la gente si sente in dovere di obiettare, forse per giustificare la propria funzione. Una volta ho fatto un turno per una cantante famosa, di cui non dico il nome… abbiamo fatto 30 take. Trenta. Ogni volta era: “Sì, bella, ma…”. Alle 8 di sera sai com’è finita? Hanno preso la prima take e mi hanno fatto cambiare due note. Mina, invece, un giorno è entrata in studio e noi avevamo appena inciso due basi; le abbiamo chiesto di sentirle, e ci ha risposto: “Se vanno bene a voi, vanno bene anche a me”. Non ci sono vie di mezzo con lei… non ti sbuccia, prende tutto o niente.

In un’altra intervista, hai detto una cosa che mi ha colpito anche per come l’hai espressa: con Mina non c’è stato mai esercizio di potere.
Perché lei ci ha dato il potere di decidere. E questo sembra una cosa figa, ma ti riempie di responsabilità. Non è una posizione facile, perché se poi qualcosa non va dipende da te, non puoi più appigliarti a niente. E quindi no, non c’è mai stato esercizio di potere, anzi, ci sono sempre state delle attenzioni, delle tenerezze personali nei nostri confronti…

Per esempio?
Telefonate per dirti “Ti voglio bene”, regalini… immaginati la diva di Studio Uno che arriva con una torta in mano dicendo: “Oggi ho fatto un dolce per voi”. Una volta ho avuto una congestione… una cosa piccola che però quando ce l’hai ti sembra di morire… eppure è stata una delle cose più belle della mia vita! Perché lei è stata lì due ore, mi ha coperto col suo scialle accarezzandomi la fronte… la congestione più bella del mondo (ride).

Tornando a questo mancato esercizio del potere, vale anche per i suoi arrangiatori?
Massimiliano è un arrangiatore intelligentissimo e ha dimostrato più d’una volta di rinunciare volentieri alle sue idee iniziali, nel momento in cui i musicisti ne propongono altre più valide. Con Gianni Ferrio, invece, eravamo arrivati addirittura al punto che prima ci faceva suonare in trio come volevamo, e poi lui scriveva gli arrangiamenti sulle nostre elucubrazioni… fantastico!

Immagino che lavorare con Mina in questo modo abbia anche incrementato la tua reputazione presso i colleghi, no?
Ti basti pensare che quando ho lavorato con Liza Minnelli e ha saputo che ero il bassista di Mina, mi ha chiesto l’autografo! Mi diceva che lei e Frank Sinatra la ascoltavano sempre, che era la loro cantante preferita al mondo.

E tu gliel’hai fatto?
No! Le ho detto: figurati se io faccio l’autografo a te! Te c’hai due Oscar, io al massimo c’ho lo… scardabagno!

Questa te l’ho servita, eh… ma al di là degli aneddoti, quanto c’è di Massimo Moriconi bassista negli album con Mina?
C’è tanto, tutto! Abbiamo fatto insieme oltre 40 dischi, spesso doppi, con pezzi di ogni genere, dal rock al pop, dal jazz alla fusion, che era la cosa in cui ho sempre sguazzato! Ho potuto esprimermi in tutti gli stili, me so’ proprio sfogato.

E hai potuto utilizzare i tuoi tre strumenti, basso, contrabbasso e fretless. Il che ci riporta alla versatilità per la quale Victor Bach ti aveva reclutato per il primo disco con lei.
Sì, io ho sempre suonato tre strumenti ed ero tra i pochi a farlo… c’erano solo Giovanni Tommaso e Ares Tavolazzi all’epoca, ad avere questa duttilità.

Soprattutto il fretless era una novità, nell’immediato dopo-Pastorius.
Sì, uno dei primi fretless che ho fatto è stato in Rock and Rolling di Scialpi. In generale veniva usato poco perché è molto difficile intonarlo. Basso e contrabbasso sono strumenti considerati erroneamente simili, perché hanno quattro corde e svolgono la funzione del basso… ma non puoi farci la stessa cosa: se decidi di usare il contrabbasso, il basso coi tasti o il fretless, devi trovare idee differenti, sennò non serve a niente. Ecco, questa cosa io penso di averla sempre avuta, il suono mi ha sempre portato in direzioni diverse, mi ha dato un’arma in più, sono riuscito a suonare sia la musica elettrica sia quella acustica… spina e senza spina.

Quali sono le linee di basso che ricordi maggiormente, tra quelle incise per Mina?
Ma io non me ricordo ’n cazzo (ride). Non ascolto quasi mai i dischi in cui ho suonato. Ci sono diversi soli, molte introduzioni col fretless, strumento che amo. Un pezzo che mi ricordo è Blue Moon… mentre stavamo registrando a un certo punto inizio il solo e sento lei in cuffia: “No, un semitono sopra!”. Ao’, tempo cinque secondi e stavamo ripetendo il pezzo in un’altra tonalità! Era tutto immediato, con lei.

E gli album che preferisci?
Uno è Sconcerto, poi amo Napoli e anche Napoli secondo estratto, in acustico, un po’ jazzy. Per quel disco chiamò un pizzettaio napoletano che stava a Lugano per farsi insegnare la pronuncia. Ed è stato apprezzato anche a Napoli, cosa non facile. Poi, nel mio studio a Roma, ho le foto con tanti grandissimi musicisti… ma la più bella è quella con la sua dedica: “Massimo, sentirti suonare è cchiù bello ’e fottere!”.

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